Damasco cerca di smarcarsi dall’influenza turca, ma Ankara non gradisce
Il nuovo governo della Siria sta cercando il suo spazio nello scacchiere regionale. Soprattutto sta cercando un alleato estero sufficientemente forte che lo sostenga in questa fase cruciale della sua esistenza. Non ne è affatto contenta la Turchia, che vorrebbe mantenere inalterata la sua influenza sugli islamisti al potere oggi a Damasco.
In equilibrio fra curdi e turchi
Passato l’entusiasmo per la vittoria di Hay’at Tahrir al-Sham nella guerra civile e per la caduta di Assad, gli islamisti ora al potere hanno dovuto presto fare i conti con la realtà. Hanno così iniziato a guardarsi intorno cercando interlocutori, sponsor, partner, alleati di fatto o di diritto. Per loro l’ideale sarebbero le monarchie della Penisola Arabica, ma queste preferiscono non dare esplicitamente l’avallo a un governo di matrice fondamentalista. Dunque se vuol sopravvivere, Damasco deve giocoforza smarcarsi da Ankara. I turchi occupano larghe porzioni del nord del Paese e ne vorrebbero ancora di più. Inoltre hanno ancora il controllo su migliaia di unità dell’Esercito Siriano Libero, la formazione composta anche da disertori delle forze regolari di Assad. E non sono certo rimasti indifferenti davanti all’intesa recentemente firmata dal presidente ad interim Ahmed al-Sharaa coi curdi di Mazloum Abdi, che guida le Forze Democratiche Siriane (SDF), nemici giurati di Ankara.
Il ministro degli Esteri di Ankara Hakan Fidan ha dichiarato a tal proposito che terranno d’occhio gli sviluppi dell’accordo. Ha poi aggiunto che la condizione essenziale per una pace duratura è che le milizie curde dell’Unità di Protezione Popolare (YPG) cedano le armi e abbandonino le fila dei loro gruppi combattenti per mettersi invece a disposizione di Damasco. Occorre altresì che smettano gli arrivi dall’estero di nuove leve per l’YPG, che di fatto dovrà sciogliersi. In sostanza, Fidan suggerisce ad al-Sharaa di non lasciarsi “fregare” dai curdi, ma di disarmarli e di metterli sotto il proprio comando.
Ankara fa buon viso a cattivo gioco
Ankara ha scelto di non intralciare apertamente i tentativi di smarcamento del nuovo governo di Damasco. Prova invece a volgere a proprio vantaggio le mosse diplomatiche di al-Sharaa, che attirando a sé i curdi sta portando stabilità al Paese. E della stabilità ne beneficia anche la Turchia, perché così i rifugiati siriani che ospita da anni sono indotti a tornare a Damasco e non a fermarsi in Turchia a tempo indeterminato. Anzi, Erdoğan vuole prendersi pure il merito, lasciando intendere che c’è Ankara dietro alle mosse diplomatiche siriane che servono ad alleviare le tensioni locali e regionali. Intanto il Partito Popolare Repubblicano (CHP), principale partito di opposizione, ha dichiarato che se Damasco non è in grado di garantire la sicurezza dei cittadini allora è bene che intervenga una forza internazionale di peacekeeping soprattutto nella zona occidentale della Siria, che si trova a ridosso della Turchia.
Erdoğan ha lodato al-Sharaa per il suo impegno nel condannare e punire i responsabili delle violenze contro i civili. Tuttavia si presume che fra le milizie islamiste che hanno compiuto le stragi di marzo nelle province costiere c’erano quelle sostenute e manovrate dai servizi turchi. Questa è l’accusa del comandante dei combattenti curdi di Siria a proposito delle vendette sanguinarie e delle esecuzioni perpetrate contro i civili alawiti. Ankara non ha replicato direttamente alle accuse, ma il portavoce del partito del partito di Erdoğan, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) ha detto che si tratta di strumentalizzazioni sfruttate nelle faide etniche e settarie.
Il rapporto coi russi
Nel frattempo, il governo siriano ha scelto di non chiedere ai russi di sloggiare dalla base navale di Tartus e da quella aerea di Khmeimim. In realtà sarebbe stata una mossa coerente con l’impegno passato, poiché Mosca ha sempre sostenuto Assad, proprio colui che gli islamisti hanno deposto. Eppure adesso gli sta bene lasciare i russi al loro posto. Probabilmente il motivo è che li vedono come un utilissimo contrappeso politico e strategico agli altri attori in campo: non solo i turchi, ma anche Israele, gli USA e il loro seguito occidentale. Sono giunti alla conclusione che tagliare i ponti con Mosca e negarle la presenza nella regione sarebbe un’arma a doppio taglio. Il Cremlino intanto ha inviato ad al-Sharaa messaggi di invito alla “cooperazione pratica” su tutta una serie di questioni e di incoraggiamento nel suo sforzo di mantenere la stabilità, la sovranità e l’integrità territoriale del Paese.
Una Siria unita e amichevole, fa sapere il Cremlino, contribuisce a non turbare ulteriormente la fragile situazione del Medio Oriente. I russi sono disposti a togliersi dalle zone settentrionali e quelle montuose sotto il controllo delle comunità alawite pro-Assad, ma non ad abbandonare gli avamposti sul Mediterraneo. A ben guardare, comunque, le due basi non costituiscono una particolare minaccia né per le forze di Damasco né soprattutto per quelle statunitensi. Sì, Washington voleva rovesciare Assad, mentre Mosca lo appoggiava, ma ora, avendo ottenuto indirettamente la sua caduta, gli USA hanno un atteggiamento di compromesso verso il Cremlino. Il ministro degli Esteri turco, intanto, vorrebbe convincere Trump ad andarsene dalla Siria. Secondo lui, infatti, tenervi le truppe non conviene più a Washington, non è qualcosa che “si allinea alle priorità dell’amministrazione USA”. Inoltre per i turchi la posizione americana si delinea quasi come il “tradimento” di un alleato della NATO.
I rapporti della Turchia con la Russia si complicano nel momento in cui prendiamo in considerazione le inevitabili interazioni fra Mosca e Ankara anche su altri teatri, come quello ucraino – dunque del Mar Nero – e quello energetico ed economico. E non dimentichiamoci che, appunto, la Turchia fa parte della NATO. Complessivamente, Erdoğan si mostra amichevole e cooperativo nei confronti di Putin, pare disposto ad accettare le sue ragioni e a portarle alle orecchie dell’Occidente. Ma ciò non significa assolutamente che la Turchia sia “amica” della Russia. Erdoğan ha sempre fatto il proprio gioco e continua a farlo giocando su più tavoli con estrema disinvoltura, anzi con sfacciataggine ed esclusivamente guardando ai propri interessi.
Israele intanto…
Anche in Israele sanno che il ruolo dei russi in Siria porta equilibrio, stabilità, sicurezza. Negli anni passati hanno eliminato terroristi ed estremisti facendo l’interesse di Assad, ma anche in quello di Tel Aviv. Con la sua presenza, Mosca ha scoraggiato gli islamisti dal compiere azioni violente, dunque proteggendo anche Israele, sempre nel mirino dei fondamentalisti arabi. Ma oggi questi ultimi hanno preso il potere in Siria ed è più che mai importante un elemento che li trattenga dall’attaccare.
Netanyahu recentemente ha offerto una mano ai curdi e ai drusi di Siria in chiave anti-turca. Purtroppo per lui, i curdi si sono poi accordati con al-Sharaa. Erdoğan ha risposto avvertendo Israele in maniera indiretta che non gli permetterà di “raggiungere i propri obiettivi sfruttando le divisioni etniche e religiose della Siria”. Secondo Gallia Lindenstrauss, analista israeliana dell’Istituto di studi per la sicurezza nazionale, a Tel Aviv l’atmosfera non è particolarmente ottimista. La Siria infatti viene vista come un elemento minaccioso, in particolare a causa della predominanza turca su Damasco. I turchi sarebbero in condizione di costruire basi nel Paese dotandole di capacità difensive antiaeree e ciò costituirebbe un limite allo spazio di manovra israeliano nella regione. In altre parole, sarebbe di per sé una minaccia. Per questo motivo, Netanyahu potrebbe decidere di adottare la linea dura in merito.
Alcuni credono comunque che ci siano ancora spazio per una cooperazione turco-isreliana, dice la Lindenstrauss, con cui si possa ricostruire la Siria in un modo che non sia negativo per Israele. Purtroppo però – conclude – questa non sembra essere la via scelta da Erdoğan e nemmeno da Netanyahu. Selin Nasi, ricercatrice del Dipartimento di studi turchi della London School of Economics, sottolinea come gli obiettivi dei due Stati siano contrastanti alla radice: Ankara vuole una Siria stabile e unitaria sotto il governo provvisorio di al-Sharaa, mentre a Tel Aviv conviene una Siria debole e frammentata.

Libero pensatore. Ha seguito percorsi di studio umanistici per poi dedicarsi all’approfondimento della politica italiana sia dal punto di vista sia antropologico sia di costume. Ha operato come spin doctor