Churchill e la narrativa politica contemporanea
Distinzioni, digressioni e parallelismi nel tempo della crisi pandemica
Pare essere diventata una moda diffusa tra i politici contemporanei, costretti, obtorto collo, a confrontarsi con la gestione pandemica da covid-19, quella di citare, accostandovisi, la figura di Sir Winston Leonard Spencer Churchill [KG]*, nel sostanziale tentativo di nobilitare la propria azione politica dinnanzi a opinione pubblica e mass media. L’origine di tale arditezza può forse ascriversi all’effetto prodotto sull’immaginario collettivo dall’uscita, in tempi recenti, di alcune opere cinematografiche dedicate allo statista britannico: Churchill (2017), del regista australiano Jonathan Teplitzky e soprattutto, il più famoso, Darkest Hour (it. L’ora più buia), del britannico Joe Wright, uscito nello stesso anno. Il ceto politico italiano non ha fatto eccezione. Il 9 marzo 2020, mentre la tempesta virale si scatenava anche nella Penisola, l’ex Presidente del Consiglio dei ministri (PdCm), Giuseppe Conte, sul proprio profilo Facebook, scriveva:
In questi giorni ho ripensato ad alcune vecchie letture, a Winston Churchill. Questa è la nostra “ora più buia”.
Stando a quanto riportato [20 mar. 2020] da “The Guardian”**, a lanciare questa moda sarebbe stato un columnist britannico, che, nell’ottobre 2019, descrisse l’attuale inquilino del n.10 di Downing Street come una figura “churchilliana”. Sempre il “Guardian”, nel medesimo articolo, ha sostenuto che tale endorsement sarebbe stato timidamente preparato ovvero ispirato dallo stesso Johnson nel suo saggio The Churchill Factor: How One Man Made History, pubblicato nel 2014; volume che taluna critica ha accolto come <<a self-aggrandising pot-boiler>> (“un’opera auto-celebrativa”). Considerando meglio la questione, pare tuttavia di potere notare, in specie nel caso italiano, una discordanza, risolvibile però attraverso una doppia analisi – per così dire – “filologica” e storica. In primo luogo, Churchill non usò mai l’espressione <<ora più buia>>. Era oratore troppo avveduto per farlo. Il 18 giugno 1940, parlando alla Camera dei Comuni, egli affermò che il <<colossal military disaster>> cui erano andate incontro le forze [franco-britanniche] sulle spiagge di Dunkerque per mano della Whermacht, ponendo termine alla “battaglia di Francia” e preannunciando quella “d’Inghilterra” [orig. <<Battle of Britain>>], dovesse suscitare una reazione tale che i posteri avrebbero potuto indicare quella circostanza come l’ora più bella [lett. “migliore”] nella storia dell’Impero britannico: <<finest>>, dunque, non <<darkest>>, parola quest’ultima presa a prestito da Conte ispirandosi ad un’opera di finzione cinematografica.
È altresì interessante ripercorrere, pur brevemente, le vicende che portarono Churchill a tenere quel suo celeberrimo discorso. Nel maggio 1940 il Regno Unito aveva affrontato una delle peggiori crisi parlamentari in conseguenza dello smacco militare subito in Norvegia ad opera della Wehrmacht. Avere fallito nell’impedire l’occupazione tedesca di quel Paese scandinavo, poi nell’attuare una controffensiva anfibia, (Churchill era Primo Lord dell’Ammiragliato), aveva infatti posto gravi interrogativi strategici alla Home Fleet nel teatro bellico del Mare del Nord. Per la Royal Navy presidiare quelle acque significava soprattutto controllare i rifornimenti via mare di metalli ferrosi svedesi diretti verso il Reich e l’ingresso al Norskehavet, punto d’accesso, insieme al Canale della Manica, nell’Atlantico settentrionale. La crisi si aprì alla Camera dei Comuni il 7 maggio ed ebbe termine il 10 con le dimissioni di Neville Chamberlain dalla carica di Primo Ministro. Giorgio VI affidò l’incarico di formare un nuovo war ministry a Winston Churchill, nonostante il successore in pectore di Chamberlain fosse considerato Lord Halifax, in quel momento Foreign Secretary, nonché esponente della cerchia intima del sovrano (Lady Dorothy Halifax era Extra Lady of the Bedchamber della regina). Benché Halifax avesse tutte le carte in regola per succedere al n.10 di Downing Street, venne deciso – dopo abboccamenti privati cui parteciparono Chamberlain, Halifax e Churchill – che se il leader laburista Clement Attlee avesse rifiutato di entrare in un governo di unità nazionale guidato da Chamberlain quest’ultimo avrebbe proposto al re il nome di Churchill. Sia ad Halifax (nel ‘37, mentre era Lord Custode del Sigillo Privato, Lord President of the Council e Leader of the House of Lords, aveva visitato in via non ufficiale la Germania, incontrando a Berchtesgaden Adolf Hitler) che a Chamberlain veniva rimproverato l’appeasement. Tale politica era frutto, in buona parte, del venir meno dello “spirito di Locarno”, alla cui edificazione, nel 1925, aveva contribuito il fratellastro di Chamberlain, Sir Joseph August Chamberlain, Foreign Secretary (dal 1924 al 1929) nel secondo Gabinetto [conservatore] di Stanley Baldwin. Anche Churchill – a dire il vero – poteva vantare un curriculum invidiabile. Infatti, si era sempre mostrato intransigente verso la Germania nazionalsocialista; in passato aveva militato tra i liberali (per cui avrebbe potuto attirare su di sé il favore di quella parte politica); la madre, Jeanette Jerome, era statunitense (e questo avrebbe reso più facili i rapporti con Washington, il cui intervento nella guerra contro la Germania era auspicato da alcuni); non ultimo, egli discendeva da John Churchill (1650-1722), i cui successi militari al servizio dell’ultima Stuart (la regina Anna) gli erano valsi il titolo di 1° duca di Marlborough, così che questo dato genealogico facesse ben sperare circa le doti di Churchill quale guida della nazione in momenti difficili. Difatti, Churchill assunse l’incarico di Primo Ministro nel frangente più infausto: lo stesso giorno – 10 maggio – la Wehrmacht aveva dato inizio, sul fronte occidentale, ad un’offensiva che nel volgere di alcuni giorni costrinse la British Expeditionary Force a ripiegare su Dunkerque. Solo il successo dell’evacuazione via mare (operazione Dynamo) evitò che la ritirata si trasformasse in una disfatta totale per le forze britanniche. Ciò fece sì che – a differenza di quanto già accaduto a Chamberlain per il fallimento in Norvegia – Churchill, il 18 giugno, potesse tenere il suo famoso discorso, superando, attraverso il rilancio della propria linea politica, una strisciante crisi di governo, (Chamberlain era ancora leader del Conservative [and Unionist] Party e Lord President of the Council), potenzialmente fatale: in una seduta del War Cabinet del 26 maggio Lord Halifax aveva ventilato la possibilità di un accordo di pace con Berlino.
Benché Chamberlain il 7 maggio nel suo intervento parlamentare avesse difeso l’operato delle forze britanniche egli fu vittima – al pari del Governo Conte bis – di “fuoco amico”. Lungo la falsariga di quello che potremmo considerare un parallelismo, Chamberlain venne smentito nei fatti e contrastato da alcuni esponenti della maggioranza i quali, arruolatisi volontari, avevano sperimentato personalmente sul campo la carenza di mezzi ed equipaggiamento patita dai soldati britannici, scegliendo, significativamente, di partecipare al dibattito ai Comuni con indosso l’uniforme. Incalzato dal suo stesso schieramento, Chamberlain dovette ammettere che le forze britanniche erano state esposte: <<to superior forces with superior equipment>> [fonte: Hansard]. Un’ammissione che gli costò il premierato. Lo stile di Chamberlain si evince dal modo con cui affrontò l’esito del “vote of condifence”, arrivato nella tarda serata dell’8 maggio. Benché avesse ottenuto la fiducia con 281 voti contro 200, vide erosa la sua, sino ad allora ampia, maggioranza, ridottasi da circa duecento a ottantuno rappresentanti. Fatto ancor più grave, trentanove sostenitori del Governo avevano votato contro, mentre circa una quarantina di parlamentari conservatori, pur avendo partecipato al dibattito in aula, si erano astenuti. Una spaccatura che, rendendo estremamente fragile l’esecutivo, rischiava di non assicurare una guida salda al Regno Unito in un momento di grave emergenza nazionale.
Questo breve cenno storico introduce il secondo strumento di soluzione al cortocircuito di senso cui si accennava prima a proposito degli odierni paragoni churchilliani. Nel doppio voto di fiducia affrontato dal Governo Conte bis nel gennaio scorso l’exPdCm aveva ottenuto la fiducia a Montecitorio con 321 voti a favore e 259 contrari [27 gli astenuti], mentre a Palazzo Madama i favorevoli erano stati 156, quelli contrari 140. Similmente a Chamberlain, Giuseppe Conte, salendo al Colle, aveva ritenuto di dovere rimettere il mandato. Diversamente da Chamberlain, Conte non ha però ritenuto di offrire un’analisi critica che, nel suo caso, concernesse la gestione pandemica. Intervenendo al Senato il 19 gennaio scorso sulla <<situazione politica in atto>> [fonte: governo.it] aveva infatti giustificato l’azione di contrasto all’emergenza sanitaria spiegando che: <<il covid sta mettendo in ginocchio anche paesi che sono più strutturati, che hanno investito molto più di noi nella sanità>> [fonte: governo.it].
Quel messaggio, nella sostanza, non sembrava differire da un refrain che Conte ha adottato sin dal principio dell’emergenza sanitaria. Basti, qui, ricordare quanto affermato durante l’estate scorsa, quando emerse il caso della presunta secretazione di parte dei verbali del Comitato tecnico scientifico. Incalzato da opposizione e mass media Conte aveva affermato: <<siamo indicati nel mondo come modello alla lotta alla pandemia […] perché tutti noi siamo stati bravi e responsabili>> [fonte: lastampa.it]. Una differenza considerevole rispetto a Boris Johnson, che il 27 gennaio scorso, parlando ai Comuni, si era invece detto <<deeply sorry>> [fonte: gov.uk] per l’alto numero di decessi registrati nel Regno Unito. E in merito all’uso reiterato di uno strumento quale il Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) ne aveva rivendicato l’uso, aggiungendo di non avere <<nulla da rimproverarsi>> [fonte: lastampa.it].
Simili considerazioni sembrano così constrastare con la narrativa proposta dal Conte bis. Ad oggi, la circostanza più significativa è forse rappresentata dalla sentenza n. 45986/2020 R.G. [16/12/2020] della Sesta Sezione Civile del Tribunale di Roma, la quale sembrerebbe suggerire elementi di dubbia costituzionalità in merito ai Dpcm emessi dall’ex PdCm durante la gestione pandemica. Ciò attiene fondamentalmente alla questione se un atto amministrativo ([seppure] di alta amministrazione), quale è un Dpcm, sia compatibile con l’art. 13 della Costituzione ovvero se i decreti legge n. 6/2020 (articoli 1 e 3) e n. 19/2020 (articoli 1 e 2) siano (stati) sufficienti a fornire la necessaria cornice giuridica per tutti quegli atti successivi del Governo Conte inerenti alla limitazione della libertà di spostamento. Questioni sollevate, in parte, già nell’aprile scorso dal Presidente Emerito della Corte Costituzionale, Annibale Marini, secondo cui, con riferimento allo strumento del Dpcm, <<volendo salvarne la legittimità, è incostituzionale lì dove non prevede un termine>> [fonte: adnkronos.com]. Lasciando tali argomentazioni a giuristi e costituzionalisti, un altro aspetto che sembra constrastare con quella che fu la narrativa contiana è quello relativo al dato delle vittime da covid-19. Al 31 gennaio*** 2021 l’Italia era il sesto Paese al mondo per numero di decessi [fonte: coronavirus.jhu.edu]. Inoltre, se i lockdown possono avere contibuito a contenere l’urto pandemico i loro effetti si devono considerare anche in relazione all’impatto economico. Benché infatti la contrazione del PIL nel corso del 2020 sia risultata inferiore (-8,8%) rispetto a quanto preventivato dall’Esecutivo (-9%) è altrettanto lecito considerare che a luglio sarebbe stato toccato un indice parziale del -13%, che non si registrava dalla fine della Seconda guerra mondiale [fonte: Trading Economics/Istat]. Le conseguenze di questo scenario sembrano peraltro destinate a produrre effetti anche nel 2021. Ad esempio, il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto al ribasso le stime per l’economia italiana, che dovrebbe crescere di 2,2 punti percentuali in meno rispetto alle previsioni [fonte: Ansa].
Ad aggravare la situazione economica – già percorsa da una pregressa spirale recessiva – rischiano di concorrere anche i ritardi (calcolati in due mesi) nella pianificazione vaccinale [fonte: money.it]. A ciò si aggiunga l’innescarsi – da ultima – della crisi di governo, che come conseguenza immediata avrebbe spinto gli investitori internazionali ad abbandonare i Btp decennali italiani a favore dei bond greci [fonte: money.it]. Sul versante del Debito Pubblico l’operato del secondo Governo Conte a sostegno dell’economia avrebbe inoltre inciso sulla crescita del Debito Pubblico, che nel 2021 potrebbe toccare il 158% del PIL [fonte: Reuters]. Pare così di potere osservare che la fondatezza del paragone con Churchill debba basarsi non già sui motivi suggeriti dalla narrativa contiana – la virtuosa imitatio churchilliana nell’“ora più buia” – bensì, più prosaicamente, sul tentativo di eludere, oggi (nel tempo pandemico) come ieri (nel disastro di Dunkerque), un tracollo degli eventi nel tentativo di rilanciare ovvero reiterare un’azione di governo giudicata da alcuni non [più] adeguata. Churchill – che fu statista oltre che un politico – vi riuscì, a prezzo di sangue, fatica lacrime e sudore. Oggi – archiviato il Governo Conte bis – il prezzo ovvero le conseguenze per l’Italia consisteranno nella scomparsa di quelle che il rapporto rilasciato il 20 dicembre scorso dal G30****, intitolato Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid. Designing Public Policy Interventions, ha definito <<zombie firms>>? Nell’anno del VII centenario della morte di Durante Alaghieri appare ancora lecito auspicare che il giudizio del Sommo Poeta sulla condizione politica della Penisola possa essere superato, in misura tale che l’Italia più non sia: <<nave senza nocchiere in gran tempesta>>.
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* [Knight of The] Most Noble Order of the Garter.
** <<Johnson as Churchill? History really does repeat as farce>>, Geoffrey Wheatcroft, online.
*** 17:15 UTC/GMT+1 (CET).
**** Group of Thirty.
Si è formato all’Università Cattolica del Sacro Cuore (sede di Milano) conseguendo la laurea magistrale in Storia con indirizzo specialistico storico-religioso. In qualità di studioso di storia delle relazioni internazionali e geopolitica, si è dedicato soprattutto al Medio Oriente pubblicando due studi brevi per i paper digitali curati dalla Fondazione De Gasperi dedicati all’area mediterraneo-mediorientale: Libia: radici storiche di un caso geopolitico (agosto 2016) e Un Califfato improbabile. Genesi e dinamiche storico- contemporanee di Daesh (febbraio 2017). Nel 2017 ha pubblicato il saggio Medio Oriente conteso. Turchi, arabi e sionisti in un conflitto lungo un secolo, con prefazione dell’ambasciatore Bernardino Osio.