“Casa di Trump casa di Putin”. Craig Unger torna a ‘sparare’ su un repubblicano con il suo nuovo libro
La vittoria di Donald Trump nel 2017 alle elezioni presidenziali americane sarebbe stata determinata dall’appoggio della Russia di Putin, attraverso la lunga mano della Mafia russa. È questa l’ardita tesi, corroborata da numerosi dati e testimonianze, di Craig Unger nel suo ultimo libro Casa di Trump, casa di Putin.
A distanza di oltre 20 anni dal suo best seller House of Bush, House of Saud (sugli intrecci finanziari tra la famiglia Bush, il fondo Carlyle e la dinastia Saudita n.d.r) il giornalista americano prendere a modello il motto del giudice eroe Giovanni Falcone ”follow the money” per ricostruire la parabola affaristica e poi politica dell’attuale Presidente americano, sullo sfondo di torbidi intrecci politici, finanziari e criminali.
La Trump Tower
Simbolo concreto e tangibile del ‘grande castello’ disegnato da Craig Unger è la celebre Trump Tower: qui avrebbero preso dimora svariati oligarchi russi ed installato le proprie attività elementi chiave di collegamento tra la famiglia Trump e la Russia, come il famigerato Bayrock group.
Secondo Unger l’architrave del successo in ambito immobiliare di Donald Trump starebbe in un vuoto normativo nella legislazione americana, che ha permesso di fatto il riciclaggio di milioni di dollari della mafia russa e degli oligarchi post sovietici. Appunta Unger:
Come ha fatto notare il Financial Times il fatto che gli Stati Uniti e il Regno Unito, a differenza della gran parte delle democrazie occidentali, permettano ai proprietari di immobili di mantenere l’anonimato facilita il riciclaggio, solo negli Stati Uniti, di circa 300 miliardi di dollari all’anno, molti dei quali provenienti dalla Russia.
Un rapporto di lungo corso
I contatti tra Trump e i russi sono per Unger ben antecedenti l’ascesa di Vladimir Putin. ”Secondo l’ufficio del procuratore generale dello stato di New York – riporta l’autore – concludendo la vendita dei cinque appartamenti a David Bogatin(affiliato di spicco della mafia russa neworkese), Trump aveva contribuito, consapevolmente o meno, a riciclare il denaro sporco della mafia russa. Tutto questo accadeva in un momento straordinario: era il 1984”.
La caduta del Muro avrebbe fatto il resto: Unger scrive di un fiume di centinaia di miliardi di dollari di capitali in fuga, provenienti da oligarchi, ricchi membri del partito e mafiosi, aveva cominciato a fluire dalla Russia e dagli stati satelliti. Dall’altra, Donald Trump vendeva appartamenti a più non posso, senza fare domande, a società fittizie e questo significava che i russi potevano riciclare il loro denaro senza dover rivelare la loro identità.
Questo continuo rapporto con la malavita russa di New York, e poi successivamente con oligarchi post sovietici, avrebbe esposto Trump alle attenzioni dei servizi segreti sovietici. La transazione Bogatin – scrive Unger – potrebbe aver rappresentato un primo contatto dell’intelligence sovietica per valutare Trump come potenziale “risorsa” o agente di influenza. Nel mondo dei servizi segreti, le risorse sono uomini che risiedono all’interno di Paesi sorvegliati e forniscono informazioni al Paese straniero. Intervistato a proposito della transazione Bogatin-Trump, Oleg Kalugin, ex capo del controspionaggio del Kgb, ha detto di non essere sorpreso.
La testa di ponte
Un’altra tesi fondamentale del libro di Unger è proprio l’utilizzo da parte del regime sovietico prima, e di Vladimir Putin poi, della mafia russa come testa di ponte dei propri servizi segreti nei Paesi occidentali. ‘I gangster russi – spiega in un passaggio del libro Unger – erano diventati, non in senso metaforico ma concretamente, degli uomini di Putin: come mi ha riferito Oleg Kalugin, ex capo del controspionaggio del kgb, effettivamente la mafia oggi è una delle agenzie del governo russo”. E proprio alla mano violenta della mafia russa Unger imputa le premature scomparse di giornalisti scomodi come la cronista Anna Politkovskaja o l’ex caporedattore dell’edizione russa di “Forbes” Paul Klebnikov, che negli ultimi anni hanno indagato sui presunti crimini di Putin e dalla sua cerchia di oligarchi.
Secondo l’autore lo stesso Trump non sarebbe un novellino per quanto riguarda il crimine organizzato, in quanto la sua famiglia avrebbe infatti un debole per quest’ultimo da almeno tre generazioni: il nonno di Trump avrebbe fornito ‘compagnia’ ai pionieri del West, mentre il padre Fred avrebbe avuto numerosi contatti con la mafia newyorkese per la sua attività di ‘palazzinaro dei bassi fondi‘. Il fatto che Donald volesse puntare in alto e conquistare Manhattan, avrebbe solo alzato i livello di questi contatti pericolosi.
Roy Cohn
Ad aiutare Trump nei primi passi alla conquista della Grande Mela nell’affare Hotel Commodore è stato niente di meno che Roy Cohn, mentore e modello di Trump, avvocato bieco e senza scrupoli che lavorava come mediatore spietato e brutale tanto per personaggi dell’establishment (Richard Nixon, Ronald Reagan e Rupert Murdoch, tra gli altri n.d.r) quanto per criminali (Anthony “Fantony” Salerno, Carmine Galante e John Gotti).
”Man mano che il progetto del Commodore prendeva forma – spiega Unger – , Cohn, in qualità di consigliere delle due più grandi famiglie criminali di New York, i Genovese e i Gambino, diede un aiuto preziosissimo a Trump nei rapporti altrimenti complicati con le aziende costruttrici, le compagnie di demolizione e tutte le altre realtà che spesso erano controllate dalla mafia”.
”Cohn morì nel 1986 – chiosa l’autore – e non è chiaro se sia stato lui o meno il genio che ha partorito l’idea di usare società fittizie anonime per riciclare denaro con la compravendita immobiliare. All’epoca della progettazione della Trump Tower, tuttavia, Cohn era effettivamente l’avvocato di Trump e rappresentava anche Robert Hopkins, affiliato alla famiglia Lucchese”.
L’invasione dei russi di Brighton Beach
L’autore sottolinea come l’ascesa di Trump in ambito immobiliare sia coincisa con un altro fenomeno ben più rilevante: l’invasione da parte dei ‘russi’ (termine generico usato negli Usa per chiunque all’epoca provenisse dall’Europa dell’Est n.d.r) di Brighton Beach. Complice una bizzarra legge voluta da due due politici democratici preoccupati dall’antisemitismo sovietico: grazie a questa legge si permetteva all’Unione Sovietica di avere normali rapporti commerciali con gli Stati Uniti, a patto che permettesse ai rifugiati ebrei di emigrare in America. ”Il Kgb – sottolinea Unger – si preoccupò che a emigrare non fossero solo le vittime innocenti dell’antisemitismo. I sovietici aprirono le porte dei loro gulag e liberarono migliaia di criminali incalliti, assassini, psicopatici, ladri, molti dei quali andarono a stabilirsi a Brighton Beach”.
Nel giro di pochi anni la cittadina diventò per i mafiosi russi ‘la piccola Odessa’, con negozi con insegne in cirillico e cibi tipici. Precisa l’autore:
Anche se Brighton Beach era territorio di Fred Trump dagli anni settanta. Donald iniziò a tessere la sua personale rete di contatti tra gli immigrati russi, tra cui un uomo di nome Semen Kislin. Quando venne il momento di dotare il nuovo Grand Hyatt Hotel, ex Commodore, di apparecchi tv, alla fine degli anni settanta, Trump si rivolse a Kislin per comprarne qualche centinaio a credito. Per Trump si trattava dell’inizio di una lunga relazione, la prima di molte, con individui con presunti legami con la mafia russa.
Secondo il New York Times il negozio di elettronica di uno dei soci di Kislin, Tamir Sapir, sarebbe stato il supermarket di dispositivi per diplomatici russi e agenti del Kgb su suolo americano.
Il fatto più rilevante di questa ‘invasione’ è che molti emigrati russi, sopratutto i malavitosi, dovevano rendere puntualmente conto al Kgb delle loro vita negli Usa e, se possibile, ‘agganciare’ qualche personalità di spicco sulla quale concentrare le attenzioni del Cremlino.
Intrappolare Trump
Per Unger il passo fatale per il nuovamente presidente statunitense nei suoi rapporti con l’universo sovietico fu quello di sposare nel 1977 Ivana, una modella ceco-slovacca.
In definitiva, non sappiamo con certezza quando il Kgb iniziò a raccogliere informazioni su Donald Trump – scrive l’autore – ma sarebbe stato senz’altro normale per la polizia segreta cecoslovacca condividere ciò che sapeva sui Trump con il Kgb. Ma soprattutto, Trump era ritenuto un obiettivo così importante che in seguito l’STB inviò negli Stati Uniti un agente, che per più di un decennio sorvegliò le sue prospettive politiche”. Unger scrive che l’operazione per intrappolare Trump cominciò probabilmente durante un viaggio in Cecoslovacchia, non molto dopo il matrimonio con Ivana, in cui i due novelli sposi avevano suscitato l’interesse del ministero della sicurezza nazionale ceco (conosciuto come STB n.d.r).
Il successo e l’attenzione delle intelligence
Da questo punto in poi, al crescente successo personale del ‘tycoon’ , sarebbe corrisposto un proporzionale interesse da parte dell’intelligence di Mosca. L’Unione Sovietica poteva contare su dodicimila agenti all’estero ed era comandata negli anni ’80 dal generale Vladimir Krjučkov, un uomo intransigente che sembrava nuotare controcorrente rispetto alla storia.
Così, come se fosse stato orchestrato da Krjučkov, – scrive l’autore del libro – l’educazione politica di Donald Trump iniziò nel marzo 1986, quando incontrò l’ambasciatore sovietico alle Nazioni unite, Yuri Dubinin, e sua figlia, Natalia Dubinina’. L’ambasciatore e la figlia rimasero così impressionati dalla Trump Tower da decidere di incontrare di persona il proprietario dell’edificio ”E così, l’ambasciatore dell’Unione Sovietica, Yuri Dubinin, e sua figlia, Natalia, infrangendo in via del tutto straordinaria il protocollo,- riporta Unger – entrarono nella Trump Tower, presero l’ascensore fino agli uffici di Trump e gli fecero una visita.
”Qualche mese più tardi – chiosa il giornalista americano – a un pranzo ufficiale organizzato dal magnate dei cosmetici Leonard Lauder, Trump si ritrovò seduto vicino a Yuri Dubinin che iniziò a tessere lodi sperticate del giovane imprenditore”. Il fatto è confermato dalle parole dello stesso Trump in un’intervista dell’epoca. “Da un argomento si passò a un altro – dichiarò il tycoon – e mi ritrovai a parlare di costruire un grande hotel di lusso di fronte al Cremlino, in società con il governo russo”.
Semen Mohylevyč
Secondo Unger gli intrecci delle conoscenze di Trump con mala russa americana portano passo dopo passo al grande capo dell’organizzazione: Semen Mohylevyč. Nato a Kiev nel 1946, Mohylevyč vanta cittadinanza russa, israeliana, greca e ungherese, con un patrimonio presunto di oltre 10 miliardi di dollari. “Il mafioso più pericoloso del mondo” come lo definisce l’FBI, è conosciuto come “l’intelligentone”, per la sua maestria nei sofisticati crimini finanziari e per una vasta serie di reati negli ambiti più disparati, come l’acquisto di un’azienda leader nella produzione di armi in Ungheria o la gestione di una fetta estremamente redditizia del mercato dell’energia di Russia e Ucraina.
Mohylevyč, nel libro di Unger, è definito come una pedina di Putin, che ne avrebbe facilitato e protetto l’ascesa, e al servizio dei servizi segreti di Mosca da decenni.
Per dare un’idea del suo potere uno deve solo fare il nome di due persone con cui ha intrattenuto lunghe relazioni di affari: Vladimir Putin e Donald Trump”. Per Unger questa figura avrebbe avuto un ruolo importante nell’ascesa di Donald Trump: la tesi è che, sebbene non direttamente, Mohylevyč abbia sostenuto finanziariamente Trump durante gli anni dei suoi fallimenti attraverso i suoi affiliati e lo abbia successivamente sostenuto nelle sue aspirazioni politiche di concerto con i vertici di Mosca.
A blindare questo legame inconfessabile ci sarebbero inoltre dei video compromettenti di natura sessuale dei servizi segreti russi girati in occasione delle visite in Russia di Trump.
Una Trump Tower a Mosca?
Per occuparsi del progetto di una Trump Tower a Mosca (che mai si realizzerà), Trump il 4 luglio del 1987 è nella capitale russa, il tutto organizzato dall’ambasciatore Dubinin. Il 24 luglio 1987, quasi immediatamente dopo il ritorno di Trump da Mosca, su una pubblicazione piuttosto improbabile, l’“Executive Intelligence Review”, apparve un articolo bizzarro che sosteneva che tra Trump e il Cremlino ci fosse qualcosa di misterioso. “Si dice che i sovietici – si legge nel pezzo – vedano decisamente più di buon occhio una candidatura alle elezioni presidenziali di Donald Trump, imprenditore di New York”.
Il 1° settembre 1987, soltanto sette settimane dopo il suo ritorno da Mosca, Trump iniziò a proporsi in modo martellante come novello esperto di politica internazionale, pagando quasi centomila dollari per pubblicare dichiarazioni a tutta pagina sul “Boston Globe” e sul “Washington Post”.
La prima presunta incursione di Trump
Questo periodo è importante per Unger perché testimonia la prima incursione apertamente filorussa di Trump nella politica estera, dal momento che invocava platealmente lo smantellamento dell’alleanza occidentale postbellica e precorreva in modo significativo le politiche dell’“America First” promosso dallo stesso Trump durante la sua campagna del 2016. Solo un anno dopo il viaggio a Mosca del tycoon, la polizia segreta cecoslovacca compilò un rapporto segreto, datato 22 ottobre 1988, in cui diceva che a quell’epoca era già chiaro che alla fine Trump si sarebbe candidato alla presidenza e che avrebbe vinto di sicuro.
Intanto l’orologio della Storia ticchettava in favore della imminente ascesa di Putin: nei primi anni ’90, il crollo dell’Unione Sovietica travolse il padre della perestroika Michail Gorbačëv e costrinse Boris El’cin a consegnarsi a ganster con grandi disponibilità di denaro uniti ai vertici del partito corrotti, Kgb incluso. Costoro fecero razzia delle risorse dello Stato, che vennero privatizzate. ”A questo punto, – sottolinea Unger – il dado era tratto”.
Dai crack milionari alla miracolosa resurrezione
Gli anni ’90, come per l’Unione sovietica, anche per Trump sono caratterizzati dai fallimenti: all’epoca il tycoon era tutt’altro che il multimiliardario che diceva di essere, anzi, il suo patrimonio netto era in realtà in negativo. Nel 1991, il Trump Taj Mahal, il casinò da 1,2 miliardi pubblicizzato come “l’ottava meraviglia del mondo” divenne la prima delle sei bancarotte di Trump: l’astuto Donald, vendendo le sue azioni e racimolando milioni di dollari riuscì comunque a riversare il peggio sugli investitori. In questo periodo comunque perse uno dopo l’altro i tre casinò ad Atlantic City e il Plaza Hotel, oltre ad altri beni come il Trump Shuttle e il Trump Princess, il suo yacht.
Non è mai stato provato in tribunale – puntualizza Unger – se i russi si servissero dei casinò di Trump per riciclare denaro sporco o meno, ma c’erano ragioni sufficienti per insospettirsi. Il Taj Mahal era diventato la meta preferita della mafia russa.
L’ultima pedina
Nell’autunno del 1996, dopo anni di lotte con i creditori per miliardi di debiti, ebbe inizio la rinascita di Donald Trump. “Ci sono voluti due anni di duro lavoro, – commentò all’epoca lo stesso Trump – ma ora tutto è riunito in una società splendida, semplice, concreta. La gente è scioccata quando vede le cifre perché sono incredibili, sono semplicemente enormi”. Ed è proprio sul finire degli anni’90 che secondo Unger entra in gioco l’ultima pedina fondamentale di Mosca per il controllo del futuro Presidente americano: Felix Sater e la società immobiliare Bayrock, con sede proprio nella Trump Tower.
”Nato a Mosca – riporta Unger – Felix era arrivato negli Stati Uniti con i familiari, all’epoca conosciuti come Šeferovskij, nei primi anni settanta, quand’era ancora un ragazzino, e si era stabilito nella “Little Odessa” di Brighton Beach. Dopo il suo arrivo, Šeferovskij collaborò a varie estorsioni con Ernest “Butch” Montevecchi, uomo della famiglia criminale dei Genovese, che negli anni ottanta aveva lavorato con la mafia russa nella truffa delle imposte sul carburante”.
Felix Sater
Il padre di Felix auspicava per il figlio un futuro lontano dal crimine, ma le cose andarono diversamente. Felix seguì qualche corso alla Pace University– scrive l’autore – ma poi lasciò gli studi e in poco tempo diventò un talento di Wall Street, lavorando per società come Bear Stearns e Shearson Lehman Brothers.
Il direttore generale della Bayrock, Felix Sater – chiosa Unger – era senz’altro l’uomo più importante nella collaborazione con Trump. Una delle figure più enigmatiche dell’intera saga Trump-Russia, Sater era l’uomo del mistero della Bayrock, un individuo massiccio, olivastro, abilissimo nelle vendite. Sembrava uscito dal film Americani, guidava una Porsche ed era sempre coinvolto in qualche truffa finanziaria o in qualche operazione sotto copertura per la Cia, la Dia o l’Fbi, dall’acquisto di missili Stinger da al-Qaida a ogni altro genere di azione temeraria’.
Lo scambio
L’offerta della Bayrock per coinvolgere Trump fu del resto concretamente allettante: gli avrebbero pagato i diritti per poter utilizzare il suo nome come marchio per alcuni edifici di lusso, finanziati e realizzati dalla Bayrock stessa. Senza alcun investimento, Trump tornava alla ribalta, come l’araba fenice, dando il suo nome a un altro scintillante edificio di lusso, che ospitava un hotel e degli appartamenti. Prestando il suo nome al progetto del grattacielo Trump SoHo a New York, Trump riceveva come compenso il 18% delle azioni. ”Prestare il suo nome – commenta Unger – era la soluzione perfetta sia per Trump che per i russi. Da parte loro, i russi avevano miliardi di dollari di fondi illeciti da riciclare. Trump, d’altro canto, aveva estremo bisogno di finanziamenti e possedeva il mezzo ideale per riciclare denaro: immobili, casinò e l’abitudine di non fare troppe domande ai suoi acquirenti”.
La Trump Organization guadagnò molto con il nuovo schema: dal momento che il tycoon non partecipava ai finanziamenti e non si occupava degli sviluppi progettuali, i suoi rischi erano minimi e i margini elevati.
Due vite in parallelo
Negli stessi anni Unger osserva e descrive dall’altro lato dell’Atlantico il consolidamento del potere di Vladimir Putin. ”Con l’inizio dell’ascesa di Putin – puntualizza l’autore – la mafia russa andò a occupare una posizione strategica nella scacchiera geopolitica, dalla quale sarebbe stata in grado di compromette e uomini politici e imprenditori americani, destabilizzare i mercati finanziari e sfruttare le debolezze di un gran numero di istituzioni politiche, tra le altre il finanziamento delle campagne elettorali e le operazioni di lobby a Washington.
I Trump, intanto, cominciarono a passare sempre più tempo in Russia. Nel 2006, Donald jr, vicepresidente esecutivo per lo sviluppo e le acquisizioni della Trump Organization, nel corso di un anno e mezzo fece circa una dozzina di viaggi in Russia.
Per quanto concerne l’afflusso di prodotti di lusso negli Stati Uniti – ammise in una intervista – i russi rappresentano una quota abbastanza sproporzionata in molte delle nostre attività.
”Pur non rappresentando un dato esaustivo, – riporta Unger – una stima per difetto dell’ammontare dei capitali giunti dalla Russia e investiti nelle proprietà di Trump soltanto nella seconda metà degli anni novanta è quantificabile in 1,5 miliardi di dollari”.
Secondo l’autore i rapporti tra Trump e Felix Sater erano così stretti che al faccendiere della Bayrock fu affidato il compito di accompagnare i figli del tycoon a Mosca per lavorare sui suoi progetti nella capitale russa. In uno di questi viaggi, leggenda vuole che Felix portò Ivanka a fare un giro nel Cremlino, organizzando le cose in modo da farla sedere addirittura sulla poltrona alla scrivania di Vladimir Putin.
L’assalto finale all’America
La lunga cura di Mosca nei confronti di Trump arriva secondo Unger al dunque: ecco nel giugno del 2015 l’insperata ma quanto mai auspicata candidatura alle elezioni Presidenziali. Per questa occasione irripetibile, i russi daranno fondo a tutta la loro potenza di fuoco. Figura chiave dell’operazione sarà un avvocato e lobbista americano, Paul Manafort: cresciuto professionalmente sotto la presidenza di Richard Nixon, insieme al collega Roger Stone, Manafort ha messo in piedi in pochi anni la più forte lobby di Washington.
”In breve – riporta Unger – (Manafort e Stone) si espansero in tutto il mondo, coltivando una quasi perversa ed eccitata smania di rappresentare i più brutali tiranni del pianeta: la lista comprendeva l’iracheno Saddam Hussein, il rumeno Nicolae Ceaușescu, il dittatore dello Zaire Mobutu Sese Seko e altri regimi che schiavizzavano bambini e ammazzavano preti”. La loro società svolse un ruolo fondamentale nell’elezione di Ronald Reagan del 1980 ed il loro primo cliente dopo la sua elezione fu proprio Donald Trump, che aveva dato loro l’incarico di risolvere i problemi con l’amministrazione federale su alcune licenze relative al dragaggio della marina di Atlantic City.
Ma come ha fatto Manafort a finire nelle mani dei russi?
Lo spregiudicato lobbista nel 2004 cominciò a lavorare in Ucraina, quando venne assunto come consulente del Partito delle regioni per trasformare l’immagine di Janukovyč da bandito e lacchè di Putin, come lo dipingeva la Rivoluzione arancione, a riformatore filo-occidentale e popolarissimo uomo politico dell’Ucraina. ”Nel decennio a seguire – riporta l’autore del libro – Manafort si recò in Ucraina 138 volte nel corso di un incarico professionale di enorme lucro, che lo portò inoltre nel mondo equivoco della fuga dei capitali, delle società ombra offshore, delle banche cipriote e degli agenti russi. A quel tempo, gli agenti dei servizi segreti russi avevano infiltrato i più alti livelli di varie istituzioni in Ucraina e l’ufficio di Manafort non faceva eccezione”.
I supposti rapporti con gli oligarchi
La collaborazione con Janukovyč consentì a Manafort di entrare in diretto contatto con la rete degli oligarchi, incluso il miliardario dell’alluminio Oleg Deripaska, il tycoon dell’acciaio Rinat Akhmetov e il magnate del gas Dmytro Firtaš.
Meno di un anno dopo – riporta Unger – nel 2005, secondo l’agenzia Associated Press, Manafort si impegnò in un accordo segreto con Deripaska in base al quale, a fronte di un pagamento di dieci milioni di dollari all’anno, la società di Manafort avrebbe dovuto influenzare la politica, gli affari e la copertura mediatica negli Stati Uniti, in Europa e nelle ex repubbliche sovietiche in modo tale da favorire il governo di Vladimir Putin.
Curiosamente questa operazione di lobbing coinvolgerà anche due insospettabili protagonisti della politica italiana di ieri e di oggi: il giornalista Alan Friedman e l’ex premier Romano Prodi. Secondo “The Guardian”, il ruolo di Friedman sarebbe stato quello mettere a punto una ambiziosa strategia per screditare in tutto il mondo la rivale di Janukovyč, ovvero Julija Tymošenko.
Secondo il New York Times, riportato in un articolo del sito ilpost.it , Il 25 giugno 2011 Friedman contattò Manafort per proporgli una strategia per sostenere Janukovyč: firmarono un contratto da 1,2 milioni di dollari – depositati in un conto di Friedman alle Isole Vergini Britanniche, collegato a una banca di Zurigo. E sempre secondo il New York Times nel 2014 Friedman scrisse a Romano Prodi per chiedergli di rivedere un editoriale in cui si sosteneva che Janukovyč avrebbe potuto salvare l’Ucraina e che l’Europa non avrebbe dovuto isolarlo. Durante i processi americani sulla attività di lobbing illegale da parte di Manafort in Ucraina, Friedman lo fece incarcerare, sostenendo di avere avuto pressioni per dire il falso in aula.
Il ‘dossier Ucraina’
La questione Ucraina irruppe fatalmente nel 2016 in piena campagna elettorale per le Presidenziali americane e costrinse Paul Manafort, responsabile della campagna elettorale di Trump, a fare un passo di lato. ‘A metà agosto – ricorda Unger – Manafort si dimise da responsabile della campagna quando venne alla luce che aveva ricevuto pagamenti segreti dall’Ucraina‘. Dimissioni però di facciata, come testimonierebbe un sms del 19 agosto di una delle figlie di Manafort, ad un’amica dove diceva del padre ‘è ancora pienamente coinvolto anche se dietro le quinte’.
Per Unger, con Trump in corsa per la Casa Bianca, l’ingerenza della Russia sarebbe arrivata addirittura ad essere sfacciata. Fin dai primi mesi, quando ‘in mezzo a una campagna presidenziale frenetica in modo spettacolare – riporta l’autore – tre personaggi chiave – il neo – responsabile Paul Manafort, il genero e principe ereditario Jared Kushner e Donald jr – azzerarono tutti gli appuntamenti sulle loro agende per incontrare un misterioso innominato avvocato russo. Si trovarono dunque nell’ufficio di Donald jr al venticinquesimo piano della Trump Tower il 9 giugno alle 16. Avevano detto a Donald che all’incontro avrebbero partecipato due russi, invece erano cinque’. Lo scopo dell’incontro? Allontanare il futuro Presidente Usa dal conflitto in Ucraina.
La fissa della mano esterna di Unger
Come fatto prima in Polonia, in Ungheria e nel Regno Unito con la Brexit, per Unger, cyber attacchi, fake news e corruzione di elementi politici di spicco da parte dei russi, avrebbero risolto anche le elezioni Presidenziali americane in favore del candidato gradito a Putin. Nell’esito delle elezioni, secondo l’autore, l’influenza russa sarebbe risultata determinante.
Alla fine – conclude Unger nelle ultime pagine del libro – sembra che tutto si concluda molto meglio di quanto Putin non abbia mai sognato: Mohylevyč e la mafia russa per trent’anni compromettono Trump, usano gli investimenti immobiliari per riciclare i loro soldi mentre l’Unione Sovietica crolla. Molto probabilmente invischiano Trump in qualche genere di kompromat, anche se non è chiaro esattamente quale e lo rendono schiavo del denaro e del potere di un paese straniero. Nel frattempo, era stata implementata la dottrina Gerasimov, e con questa un nuovo genere di guerra asimmetrica con pirati informatici e cyberattacchi, disinformazione e manipolazione dei media. Donald Trump ha più volte affermato di non avere nulla a che fare con la Russia. Di seguito un elenco di cinquanta nove personaggi russi legati a lui”.
Il libro Casa di Trump, Casa di Putin si chiude proprio coi nomi e cognomi di coloro che avrebbero contribuito a questa grandiosa e rocambolesca operazione in ‘salsa russa’.

Giornalista pubblicista dal 2000 presso l’Ordine dei Giornalisti del Piemonte, ha collaborato come cronista e commentatore politico coi quotidiani ‘TorinoCronaca’ , ‘laPadania’ , ‘RadioPadania’. Ha lavorato come addetto stampa presso diversi gruppi politici del Consiglio Provinciale di Torino, del Consiglio Regionale del Piemonte, del Ministero delle Attività Produttive ed è stato Portavoce del Presidente della Regione Piemonte dal 2010 al 2014. Esperto di comunicazione politica e di cultura ungherese, ha fondato e diretto il sito di notizie web PiemonteLife.it e ha pubblicato una raccolta di racconti tradizionali magiari.