L’eredità strategica di Biden
Una guerra su tre fronti?
Il prossimo Presidente degli Stati Uniti, Donald J. Trump – uscito nuovamente vincitore dalle urne il 5 novembre scorso – troverà sulla scrivania dello Studio Ovale un’agenda internazionale assai complessa. Progressivo deterioramento della situazione globale, con due guerre in corso in altrettanti cruciali teatri di crisi (Europa e Medio Oriente), a cui se ne deve aggiungere una terza pericolosamente latente nella regione Asia-Pacifico, tra Repubblica Popolare Cinese (RPC) e Repubblica di Cina (Taiwan), sono solo alcuni degli argomenti all’ordine del giorno con i quali l’Amministrazione statunitense, che si insedierà a partire dal prossimo 20 gennaio, dovrà confrontarsi.
Nell’approcciarsi a questi dossier il nuovo inquilino della Casa Bianca potrebbe avvantaggiarsi, tra gli altri, di una recente direttiva strategica classificata lasciatagli in eredità dal suo predecessore democratico, Joseph Biden. Secondo quanto riportato dal The New York Times[i], nel marzo scorso Biden avrebbe infatti aggiornato il documento noto come Nuclear Employment Strategy of the United States (NESUS), ordinando alle forze armate degli Stati Uniti di prepararsi per un possibile confronto nucleare simultaneo con tre potenze ostili: Federazione Russa, RPC, Repubblica Popolare Democratica di Corea (RPDC).
La direttiva presidenziale, riprendeva ovvero ampliava quanto già riportato nel 2018 in seno alla National Defense Strategy Commission con il documento Providing for the Common Defense in cui si affermava che una guerra con “Russia or China would also involve significant risk of nuclear escalation”[ii]. L’adeguamento della NESUS risponderebbe alle esigenze di deterrenza derivanti dalla situazione internazionale odierna, incluse la decisione cinese di procedere a un incremento del proprio arsenale nucleare, in particolare della sua componente strategica, e le minacce di crisi armata (potenzialmente nucleare) nella penisola coreana.
La risposta russa
L’iniziativa statunitense ha trovato, anche a motivo delle operazioni ucraine condotte in profondità soprattutto nell’oblast’ di Kursk, una risposta simmetrica nell’approccio russo alla teorizzazione dell’uso del proprio nucleare in ambito bellico. Il 25 settembre scorso, presiedendo una riunione del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa, espressamente convocata per discutere la questione inerente agli arsenali non convenzionali, Vladimir Putin aveva annunciato l’intenzione di procedere all’aggiornamento del documento noto come Principi base della politica di Stato sulla deterrenza nucleare.
Secondo il pensiero del leader del Gran Palazzo del Cremlino la componente nucleare delle forze armate russe rappresenta l’ultima risorsa da impiegare a difesa della sovranità della nazione russa. In particolare, l’esistenza, il mantenimento e l’adeguamento della triade nucleare completa, formata da vettori di aria, terra, mare, rappresenta la più importante garanzia a riguardo. Secondo Putin, tuttavia, la più recente situazione politico-militare regionale e globale è in fase di progressivo e rapido deterioramento, in misura tale che possano emergere nuove minacce e rischi di natura militare per la Russia e i suoi alleati (in primis la Bielorussia). Tale scenario rende perciò necessario numerosi adeguamenti in termini di definizione delle condizioni per l’uso di armi nucleari ad opera della Russia.
Il sostanziale principio che Mosca intende introdurre è quello riguardante lo scenario di un’aggressione proveniente da qualsiasi Stato non nucleare (il riferimento all’Ucraina è implicito) ma che coinvolga, o sia supportato, da uno Stato nucleare (si può intuire il nesso con gli Stati Uniti e/o ad uno o più dei Paesi NATO dotati di armamenti nucleari propri o condivisi). Una simile eventualità verrebbe considerata dalla (futura) nuova dottrina nucleare di Mosca come un attacco congiunto contro la Federazione Russa.
Per “aggressione” Putin intendere l’esistenza di informazioni attendibili su un massiccio lancio di armi (anche unicamente convenzionali) offensive aeree (ad esempio i missili balistici a corto raggio statunitensi ATACMS forniti a Kiev con il via libera per colpire il territorio russo) o dallo spazio. In particolare, tra questi armamenti offensivi, il cui utilizzo contro la Federazione Russa consentirebbe l’uso del suo deterrente nucleare, sono inclusi: velivoli strategici e tattici, missili da crociera, UAV, sistemi ipersonici. L’annuncio del 25 settembre è stato infine formalizzato il 19 novembre con la firma di un decreto presidenziale che aggiorna ufficialmente la dottrina di risposta nucleare russa[iii].
Enigmi iraniani
L’iniziativa russa ha trovato eco anche nell’alleato iraniano, oramai impegnato in uno scontro diretto con Israele. In ottobre l’Ufficio della Guida Suprema aveva rilasciato una dichiarazione secondo cui in “base ai principi islamici, non è consentito costruire e utilizzare armi nucleari, e l’Iran ha sempre annunciato che non lo farà. Ma quando c’è la necessità di proteggere le vite, la proprietà e l’onore dei musulmani e del popolo iraniano, Teheran prenderà le misure necessarie e certamente rivedrà la sua politica […] Secondo il diritto islamico, quando un musulmano o una società islamica si trovano sotto minaccia sono autorizzati a intraprendere un’azione che era considerata haram (religiosamente proibita) in condizioni normali“[iv]. Sulla questione del nucleare iraniano da tempo va trascinandosi un equivoco di fondo.
Secondo i vertici iraniani il loro Paese non potrebbe raggiungere capacità militari nucleari in virtù di una fatwa che sarebbe stata messa dalla Guida Suprema Seyyed Ali Khamenei. In realtà non si tratterebbe di una fatwa ovvero di una proibizione giuridicamente vincolante, bensì di una semplice (per quanto significativa) dichiarazione rilasciata da Khamenei all’interno del suo messaggio inaugurale per la sessione della Prima Conferenza Internazionale sul Disarmo e la Non Proliferazione, tenutasi a Teheran nell’aprile del 2010, in cui il leader religioso sciita affermava che l’uso delle armi nucleari debba considerarsi haram. La distinzione – per quanto apparentemente sottile – è sostanziale, poiché non implicherebbe stricto sensu la necessità di una modificazione giuridica nel caso in cui l’Iran decidesse di dotarsi di un arsenale nucleare per fini militari. A questo giallo se ne sommerebbe un secondo, pure a esso correlato. Secondo fonti di Stato statunitensi e israeliane, durante l’attacco condotto da Israele contro il territorio iraniano il 26 ottobre scorso sarebbe stato distrutto un centro segreto di ricerca sulle armi nucleari nella base di Parchin, ubicata a sud-est di Teheran. Le autorità iraniane si sarebbero tuttavia affrettate a smentire, adducendo che il sito colpito fosse in realtà inattivo.
È plausibile ritenere che la volontà russa di modificare la propria dottrina nucleare, le destrezze semantiche iraniane, la decisione cinese di incrementare nei prossimi anni il proprio arsenale non-convenzionale e la sempre maggiore assertività del regime nordcoreano in termini di capacità e minaccia nucleare nel Sud-est asiatico saranno al centro dell’agenda estera di Donald Trump già dai primi giorni del suo insediamento alla Casa Bianca. Secondo indiscrezioni di stampa, anzi, lo sarebbero già, poiché è filtrata la notizia secondo cui Elon Musk, membro in pectore della prossima Amministrazione repubblicana, a metà novembre avrebbe incontrato il rappresentante diplomatico iraniano alle Nazioni Unite.
Il fatto che tale incontro sia stato però smentito dal governo di Teheran aumenta il grado di ambiguità cui sembrano attualmente soggette le relazioni internazionali in merito ai dossier mediorientale e nucleare. Si potrà, quindi, forse assistere al dipanarsi di questa intricata matassa solamente dopo l’insediamento del Presidente eletto Trump, quando anche all’interno del regime iraniano le opposte fazioni di intransigenti (i Pasdaran) e accondiscendenti (governo e diplomatici i quali sembrano premere per un nuovo accordo sul nucleare con Trump in cambio di un allentamento delle sanzioni anche con l’obiettivo di preservare il regime) saranno giunte a una soluzione univoca delle controversie che rischiano di fare deflagrare all’unisono l’intera regione mediorientale.
[i] https://www.nytimes.com/2024/08/20/us/politics/biden-nuclear-china-russia.html
[ii] [trad.] “[una guerra con] la Russia o la Cina comporterebbe un significativo rischio di escalation nucleare”.
[iii] https://tass.com/politics/1874507.
[iv] https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2024/10/07/iran-se-minacciati-rivedremo-la-politica-su-armi-nucleari_e8f45dd7-fa4f-4dfb-8574-6e57f4a1904c.html.
Si è formato all’Università Cattolica del Sacro Cuore (sede di Milano) conseguendo la laurea magistrale in Storia con indirizzo specialistico storico-religioso. In qualità di studioso di storia delle relazioni internazionali e geopolitica, si è dedicato soprattutto al Medio Oriente pubblicando due studi brevi per i paper digitali curati dalla Fondazione De Gasperi dedicati all’area mediterraneo-mediorientale: Libia: radici storiche di un caso geopolitico (agosto 2016) e Un Califfato improbabile. Genesi e dinamiche storico- contemporanee di Daesh (febbraio 2017). Nel 2017 ha pubblicato il saggio Medio Oriente conteso. Turchi, arabi e sionisti in un conflitto lungo un secolo, con prefazione dell’ambasciatore Bernardino Osio.