Alla scoperta della Sacra di San Michele, grande tesoro delle Alpi occidentali (Parte II)

Alla scoperta della Sacra di San Michele, grande tesoro delle Alpi occidentali (Parte II)

8 Luglio 2024 0

Dopo aver ben compreso con il rettore della Sacra, don Claudio Papa, che essa non è il mero simbolo del Piemonte, ma anche, e soprattutto, il luogo d’incontro tra la terra e il Cielo, è il momento di portare a compimento tale approfondimento, ponendo l’attenzione sugli aspetti storico-artistici dell’abbazia micaelica della Chiusa, in compagnia della dott.ssa Miriam Cuatto, studiosa valsusina di storia dell’arte medievale presso l’Università di Siena e per diversi anni guida culturale presso la Sacra.

Qual è stato lo sviluppo storico-politico ed ecclesiastico dell’abbazia?

La presenza benedettina, declinata nella congregazione cluniacense (nata a Cluny e tra le molte congregazioni nate in seno all’ordine di San Benedetto, istituita il 2 settembre 909 d.C.), dura per circa otto secoli, nei quali la Sacra si sviluppa, da quello che era un piccolo nucleo di chiese, a cavallo tra l’epoca paleocristiana ed epoca longobarda, attraverso la piena epoca romanica, fino a diventare la grande Abbazia che domina ancora oggi la Valle.

Dunque, a partire da questi tre nuclei principali, costruiti nel corso della storia prima dell’anno mille, si arriva ad avere il primo insediamento benedettino e il primo grande ampliamento attorno al 1100 circa; si tratta dell’ampliamento che dona alla sacra il volto che oggi conosciamo, ovvero la costruzione del basamento, erroneamente ritenuto una facciata, l’ampliamento della chiesa e l’inizio della costruzione del monastero nuovo, sul lato nord-ovest. La costruzione della chiesa, cuore della vita monastica, si ipotizza abbia occupato oltre 250 anni di cantiere, a causa dell’insolito luogo in cui questo edificio è stato costruito.

Dal punto di vista più storico-politico ed ecclesiastico possiamo dire questo. Come sappiamo nel Medioevo, che si parli di Alto o di Basso, le abbazie avevano un ruolo fondamentale, un ruolo che purtroppo è andato decadendo nel momento in cui iniziarono ad affermarsi le grandi città, soprattutto in  Italia. La fama della Sacra, a livello politico ed ecclesiastico, iniziò, possiamo dire, ancor prima della sua stessa fondazione, perché – ed è una cosa poco nota – San Giovanni Vincenzo incoronò con le sue stesse mani l’imperatore Ottone III; perciò, un’importanza che si fece strada già a partire dal fondatore. L’importanza politica della Sacra si rispecchiava innanzitutto nella sua indipendenza, cioè nel fatto che possedesse, come poche altre abbazie in Europa, il privilegio dell’Abbazia Nullius ovvero quello di sottostare soltanto al Papa e a nessun altro potere, sia che fosse vescovile, cardinalizio, imperiale etc.

L’autonomia rendeva le decisioni dell’abate incontrastabili. Un fatto che sfata l’immagine dei luoghi religiosi come isolati dal mondo. Inoltre, sappiamo, grazie a una bolla del Duecento parafata da Papa Innocenzo III, che la Sacra possedeva territori oltre i propri confini, in quasi tutta Europa, fino in Germania e ai confini con la Spagna. Essa, soprattutto nel Basso Medioevo, vide i propri abati in veste di consiglieri di re e imperatori, che addirittura comandavano eserciti, facevano comprare o costruire castelli e città. Questa situazione durò fino alla fine del Trecento (tra 1375 e 1390), quando avvenne una svolta importante, seppur drammatica; in quel frangente ricopriva il ruolo di abate Pietro III, che venne scomunicato e tale pena sancì la fine dei grandi abati del monastero e l’entrata in scena dei Savoia. Da quel momento in poi, entrò in vigore un nuovo ente, quello della “commenda”: sostanzialmente Casa Savoia iniziò a scegliere l’abate commendatario, che spesso non era neanche un monaco, il quale avrebbe governato la Sacra. Questo Ente reggerà per qualche tempo, e prima della fine riuscirà a sostenere delle importanti opere di abbellimento artistico. Però, tra il Seicento e il Settecento avverranno dei grandi crolli, in seguito soprattutto a un devastante terremoto del 1680, i cui effetti sono tuttora visibili. Così iniziò il periodo di decadenza più nero, durato quasi duecento anni, fino all’arrivo dei rosminiani.

Come possiamo definire lo stile architettonico della Sacra di San Michele?

Dare un nome preciso a uno stile, nel mondo della storia dell’arte, e soprattutto della storia dell’arte medievale, è incredibilmente difficile. Si intende spesso e volentieri la sacra di San Michele come un emblema del grande romanico settentrionale italiano; questo non è sbagliato, ma non c’è solo quello. Come ho già riportato più sopra, il cantiere della chiesa occupò 250 anni, se non di più; dunque, è impossibile pensare che lo stile sia rimasto fisso. È sbagliato fare distinzioni nette quali “il romanico è cupo e severo, mentre il gotico è imponente e luminoso”.

Infatti, la Sacra ha una chiesa ben illuminata e allo stesso tempo si slancia verso l’alto, nel rispetto delle migliori tradizioni gotiche. Insomma, essa è un edificio di transizione, che presenta, com’è tipico delle opere che hanno avuto lunghi cantieri, una commistione di stili, e pertanto, nel susseguirsi dei secoli, è venuta arricchendosi. Consideriamo, ad esempio, il periodo della “commenda”, quello degli inestimabili affreschi del Quattrocento e del Cinquecento (quelli del Ferrari, del Bosco da Poirino etc, per intenderci). Per quanto preziosi, essi riprendono, però, una retorica abbastanza medievale. Questo accadde perché la Sacra era diventata marginale (non arrivavano le grandi novità della Roma del ‘500 o di altre città, o altri enti religiosi, più centrali), e si avvicinava il periodo di maggiore decadenza. Una volta superato, con l’arrivo dei rosminiani, e avviata la fase di riqualificazione, affidata al d’Andrate, l’architettura si avvicina al neogotico, attraverso alcuni rampanti e l’innalzamento del finto matroneo della chiesa abbaziale. Il restauro ottocentesco è stato fatto con l’intento di dare alla sacra un aspetto il più omogeneo possibile.

Tutte le opere conservate all’interno e tutti i locali, come ad esempio “lo scalone dei morti”, le varie cappelle e i vari locali, fanno parte dello sviluppo della Sacra, che, come abbiamo visto, non è stato sempre lineare; spesso è stato corretto, ha subito delle aggiunte o delle sottrazioni. Di conseguenza, l’abbazia è passata dall’essere tre cappelline sperdute su una montagna a essere uno dei santuari-monasteri più importanti d’Europa; dipoi ha percorso la china della decadenza, per poi risorgere nella prima metà dell’Ottocento, riuscendo a tornare ad avere un ruolo significativo allora e ancora oggi.

Opere pittoriche e scultoree del Defendenti Ferrari (1490-1540), Secondo del Bosco di Poirino (XIV secolo – XV secolo), Nicolò di Pietro, noto anche come Nicolò Paradiso (XIV secolo – XV secolo), ne arricchiscono gli interni. Cosa ci può dire al riguardo di ciò e quali sono gli altri tesori che caratterizzano la Sacra? Ve ne sono anche di altrettanto importanti ma meno noti, non facilmente accessibili al pubblico?

Sicuramente gran parte delle committenze in epoca medievale si collocano in quella che è detta la rinascenza del XII secolo, che si protrae ancora nel Duecento. Dunque, la Sacra si inserisce all’interno di questa nuova concezione dell’arte; non è la capofila, giacché rimane comunque marginale rispetto alle grandi cattedrali padane, o del Centritalia, però ottenne lo stresso un ruolo di primo piano, attraverso il coinvolgimento di maestri quali il Paradiso.

Dunque, sicuramente i grandi nomi menzionati rendono ricca la sacra, soprattutto quando si parla di un artista come il Niccolò, così avanti, nel suo tempo, da lasciarci la sua firma in tutte le sue opere. La bellezza artistica della sacra sta sì in questi elementi, e in altri – sia fisici, pensiamo ai 140 capitelli, alcuni instoriati, sui pilastri che reggono gli archi della chiesa, sia incorporei quali, ad es., la luce – ma anche in quello che potremmo definire l’accordatura generale di un edificio romanico, ossia l’unione armonica di tutte le sue parti. Purtroppo, con il passare della storia, le chiese cambiano. Vi sono aggiunte, rifacimenti, restauri – non sempre azzeccati – che rischiano di far perdere questa armonia generale, ma per fortuna non sempre ciò accade.

Vale ancora la pena soffermarsi su un altro prezioso tesoro (e non ne parlo solo perché era l’oggetto della mia tesi di laurea), il gruppo scultoreo attorno all’altare maggiore e al finestrone absidale, che costituisce un vero unicum nella storia dell’arte, per ciò che conosciamo: attorno all’altare maggiore vi sono le colonne con sopra i quattro evangelisti, che raramente si trovano accostati in questo esatto modo; al finestrone, invece, stanno lungo due colonne tortili, quattro dei profeti maggiori in alto, l’arcangelo Gabriele e la Vergine Maria in basso.

Il significato di queste sculture va oltre la loro obiettiva bellezza estetica, sebbene siano rovinate, e sta proprio nel fatto che esse indicano qualcosa di preciso, che la luce che filtra dal finestrone centrale, altri non è che la luce della salvezza, la stessa che è stata annunciata dai profeti (rappresentati qui dai quattro), dall’arcangelo dell’annuncio a Maria, dalla Vergine stessa e infine dagli evangelisti, i quali abbracciano l’altare maggiore. Il tutto permette l’accordatura generale citata all’inizio di questa risposta.

Possiamo dire che l’Europa ha per fondamenta i monasteri?

Esiste un testo che si chiama “Il filo infinito” di Paolo Rumiz che, tra l’altro, ha proprio la Sacra in copertina. Il testo racconta del viaggio compiuto dall’autore attraverso alcuni monasteri benedettini ancora oggi attivi in Europa. La sua interessante riflessione parte  da uno scenario un po’ catastrofico, per provare a rispondere alla domanda “cosa sono e cosa sono stati i monasteri dei benedettini in Italia”. Lo scenario è quello del terremoto che il 30 ottobre 2016 colpì l’Umbria, ed ebbe l’epicentro tra Norcia e Preci, in provincia di Perugia. Gli edifici rasi al suolo furono molti, compresa la Basilica di San Benedetto, di cui rimane ancora in piedi la facciata gotica. Il libro di Rumiz sottolinea un fatto incredibile, che si collega ai bombardamenti di Montecassino durante la seconda guerra mondiale: in entrambi questi casi la statua di San Benedetto (posta nella piazza davanti la Basilica, nel caso di Norcia) è rimasta in piedi.

Da qui parte una sorta di ampio paragone fra la situazione di incertezze dell’Europa odierna e quella dell’Europa di San Benedetto (480-547 d.C.), sconvolta dalla caduta dell’impero romano, dalle invasioni germaniche, dal calo demografico. Come le statue in mezzo alle macerie del terremoto, così stava San Benedetto e con lui i suoi figli e le loro opere; in mezzo alle macerie materiali e spirituali del loro tempo, essi posero le basi della ricostruzione, senza avere “nostalgie passatiste” e azioni plateali. Ragion per cui possiamo dire, senza paura di esagerare, che i benedettini hanno salvato l’Europa, mantenendola unita e rendendola migliore, traghettando i tempi antichi verso quelli nuovi della “Risurrezione”, e in pieno stile paolino: “vagliando ogni cosa e trattenendo il valore”, cioè il buono, il bello e il vero.

Un altro aspetto che colpisce non poco è la capacita dell’Abbazia di essere ben integrata nell’ambiente boschivo e montano del Pirchiriano. Si deve ciò alla Fede dei monaci, la quale insegna che l’uomo è invitato a prendersi cura del creato in quanto esso è frutto dell’amore di Dio, che si è compiaciuto di donarlo all’uomo stesso; quindi da Dio «reso sovrano sulle opere delle sue mani» (cf. Sal 8,7)?

Gli ordini monastici nacquero con l’ambizione di cercare la solitudine della preghiera, sempre in contrapposizione a qualche cosa, in primis alle cose mondane. Non è tanto il disprezzo del mondo, che esiste e ove vivono le anime di cui prendersi cura, ma il distacco da esso, allo scopo di trovare il silenzio della preghiera; e il Pirchiriano costituì un ottimo luogo per raggiungere tale scopo. Pertanto, la vita alla Sacra, specialmente nel suo periodo di maggior gloria (tra l’anno Mille e i primissimi del ‘400) non fu priva di contatti con il mondo esterno. Sia perché la devozione a San Michele in quel luogo precedeva la stessa abbazia e sia perché essa sorge in prossimità della Via Francigena, che all’epoca era percorsa da molti pellegrini (persone comuni, nobili, religiosi etc) provenienti da tutta Europa. Certamente, il Pirchiriano ha aiutato questa vocazione al distacco e al silenzio. Difatti, nella sua “Regola”, San Benedetto parla spesso del silenzio e della preziosità che questo ha nella vita comune dei monaci cenobiti.

L’attenzione dei benedettini per l’ambiente (Dio ci ha fatto custodi-sovrani del creato, come ricorda Gen 1,28) è ben testimoniata dalla presenza, nei vari locali della Sacra, a partire dallo “Scalone dei Morti”, fino al cuore sacro dell’Abbazia, ossia la chiesa, della “roccia vergine” del monte.

Non è stata fatta violenza sul monte che li ospitava, così come se il santuario poggiasse sulla vetta del monte. Anche il campanile, che purtroppo non è mai stato completato, è una bella testimonianza di ciò; vedendolo dalla parte del “salto della bell’Alda”, esso sembra la continuazione della montagna: uno sperone di roccia spunta dalle mura e va a fondersi direttamente con il campanile. Romanticamente parlando, questa è una cosa incredibile, al limite del sublime.

Infine, è bene ricordare un altro fatto straordinario, ossia che nessuna delle pietre con cui è stata costruita la Sacra proviene dal monte Pirchiriano; sono state tutte importate da altre cave, proprio perché l’edificio di culto rende sacro il suolo su cui poggia e il suo territorio.

Daniele Barale
Daniele Barale

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