Trittico. Elegia sull’America dei nostri giorni
Ci sono giorni in cui gli eventi della Storia accadono con tale velocità che è ben difficile che la riflessione tenga il passo. Eppure è come se da essi si sprigionasse una tale luce da illuminare anfratti rimasti tanto a lungo nell’oscurità.
Dopo l’attentato a Trump, il suo atteso discorso alla convention repubblicana di Milwaukee e il ritiro di Biden dalla competizione per le elezioni presidenziali, ogni volta ho sentito imperioso il bisogno di scrivere, perché quel che appariva non andasse perso.
Ne sono derivati tre testi, che non c’è stato tempo di pubblicare separatamente per l’accavallarsi incalzante degli eventi. Ho pensato alla fine di comporli in un testo unico, ma avrebbe richiesto ancora tempo, e ancor più sarebbe venuta meno l’immediatezza con cui li avevo composti, su una chat di amici con cui condividevo queste riflessioni.
Li ho lasciati dunque così, con una lieve revisione formale, a comporre un trittico il cui valore vuole essere innanzitutto di testimonianza di un coinvolgimento personale nelle sorti comuni. Tutto quello che il lettore potrà trovarvi scaturisce da questo.
Parte prima. Proiettili che cambiano la Storia
Tanto complesse e contrastanti sono le emozioni suscitate dall’attentato a Trump che non stupisce di non veder esplicitamente emergere la domanda che sarebbe ovvio porsi.
Si è trattato di un fatto imputabile a un’iniziativa del tutto individuale, sia pur collocabile dentro un clima che in America si sta radicalizzando, con una frattura sociale mai conosciuta dai tempi della Guerra di Secessione, oppure di altro ancora?
Una domanda preoccupante
È palpabile la paura che la domanda affiori.
Immediato è stato il far convergere l’attenzione sulle falle dei servizi di sicurezza, sulla personalità dell’attentatore, sulla incontrollabile circolazione delle armi in America e su altri punti del tutto inessenziali o palesemente fuorvianti. A lato, ma senza conferire troppa visibilità, si ridicolizza l’immediata circolazione di ipotesi definite complottiste. Dire infatti che in certi ambienti si ritiene che l’attentato sia stato ordinato da Biden è evidentemente un modo, sufficientemente efficace dal punto di vista comunicativo, per scoraggiare un ben diverso tipo di considerazione.
Ultimamente è stata fatta circolare la notizia di un complotto per assassinare Trump da parte dell’Iran. Come a dire: siccome il sospetto è inevitabile, meglio dirottarlo altrove…
La responsabilità di capire
In ogni caso si tratta di un pensiero che non necessita neppure di basarsi su una conoscenza più documentata rispetto ai fatti.
Chiunque abbia seriamente e onestamente riflettuto su eventi di questo genere sa bene quanto siaprobabile che non si saprà mai cosa davvero sia accaduto; o, quanto meno, quali condizioni l’abbiano favorito. Chiunque allora abbia seriamente e onestamente riflettuto – e ripeto e sottolineo entrambi gli avverbi – ha imparato a porre in atto un diverso tipo di comprensione. Ha imparato a cercare in un evento, non cosa sia fattualmente accaduto, ma quale funzione esso abbia svolto nel contesto in cui si è prodotto.
Dal punto di vista cognitivo si potrebbe dire che è passato da una comprensione riduzionistica e meccanicistica a una olistica e sistemica. Il che è del tutto coerente con i processi di comprensione effettiva della vita. Quando capiamo, capiamo così: perché cogliamo il senso delle cose. Quando non è così, quando la mente si sforza di radunare ogni singolo elemento, non tenendo conto che qualcuno sempre sfuggirà, e di tenerlo faticosamente insieme in assenza di un disegno in cui collocarlo, semplicemente non capiamo.
Certo, sotto questo aspetto verrebbe da constatare come, in una società che ritiene di basarsi sull’informazione e la conoscenza, tutto un apparato comunicativo paia finalizzato a ottenere che non si capisca. Anche questo però potrebbe non essere essenziale, perché comunque sempre nessuno ci esonera dalla responsabilità di capire anziché di non capire, come anche di operare per il bene anziché per il male – e può darsi che tra le due cose ci sia un rapporto stretto.
Origine e funzione della categoria di complottismo
Chi abbia anche solo per ragioni biografiche una sufficiente memoria storica non può non aver immediatamente pensato all’attentato a Kennedy.
Comprensibile che sui media si eviti il più possibile il confronto, perché in quel caso, sebbene mai nulla sia stato ufficialmente appurato, nessuno può davvero pensare che quell’atto sia imputabile all’iniziativa solitaria di Lee Oswald, peraltro a sua volta ucciso poco dopo. E giova ricordare che la categoria di complottismo venne coniata in quella circostanza, per screditare ogni tentativo di mettere in discussione la versione ufficiale, formulando ipotesi in direzioni tutt’altro che inverosimili.
È del resto plausibile che un attentato, particolarmente se colpisce personaggi la cui morte può mutare la direzione della Storia, abbia certi esecutori materiali, talvolta inoppugnabilmente identificabili talvolta no, ma a monte e collateralmente troviamo quasi sempre grovigli di interazioni in cui si muovono soggetti diversi, tra cui soprattutto, perché questo è il loro mestiere, i servizi segreti. I quali spesso, per quanto ufficialmente rispondano delle loro azioni al potere politico, si muovono secondo logiche proprie, e non potrebbe forse essere diversamente. In ogni caso il loro operato deve rimanere coperto dal segreto, e, se si pensa a questo, la categoria di complottismo si presta bene a scoraggiare la tentazione di violarlo.
Strategie inconfessabili
È anche plausibile, e non credo di dire nulla di particolarmente eccentrico, che il ruolo dei servizi segreti possa assumere particolare rilievo qualora nella sfera istituzionale, o anche in ambiti determinanti della società, come il potere economico e quello militare, si aprano laceranti conflitti, da cui può anche venire messa in discussione la politica estera, con tutto il sistema delle alleanze.
Sono condizioni particolarmente delicate, in cui la stessa sopravvivenza di un assetto può essere considerata in pericolo, e sarebbe ingenuo ignorare quanto sia evidente che ci sono eventi, per quanto inconfessabili, che possono indirizzare in un senso o nell’altro il corso delle cose.
Non è facile dire quanto nell’America dell’epoca di Kennedy fossero presenti quelle condizioni, ma è presumibile che lo fossero – cioè che fosse in atto un conflitto profondo nel cuore del potere americano, seppure non emerso più di tanto allo scoperto; è presumibile, e si possono anche avanzare ipotesi in merito, perché un evento così traumatico come l’assassinio di un presidente non è spiegabile se non pensando a situazioni estreme. È verosimile cioè pensare che l’uccisione di Kennedy abbia mutato il corso della Storia, anche nel senso eventualmente di impedire mutamenti che la sua presidenza avrebbe prodotto. È verosimile; mentre assai poco lo è, in casi come questi, pensare a squilibri personali o ad azioni che rivestano un valore essenzialmente simbolico, tipo l’uccisione di monarchi ad opera degli anarchici ottocenteschi.
Ebbene, quelle condizioni di conflitto che sono in gran parte solo presumibili nell’America di Kennedy, lo sono platealmente in quella odierna. Dove è evidente che c’è uno scontro aperto a tutti i livelli della società.
Ci sono ormai due modi radicalmente contrapposti di intendere l’identità americana e il suo ruolo nel mondo, e ciascuna sembra vedere nell’altra una minaccia vitale.
Proprio l’evidenza di tali condizioni potrebbe naturalmente avvalorare l’ipotesi di un’iniziativa individuale, e non mi permetto naturalmente di escluderla; mi limito però a considerare che, poiché un’altra pesantemente incombe, meglio sarebbe non rimuoverla.
Il senso dell’accaduto è comunque chiaro
Potrei addirittura aggiungere che, a rischio di smentirmi, il fatto che la domanda sulla reale natura di questo attentato non venga posta potrebbe addirittura denotare un’inconsapevole saggezza.
Quali cioè che siano le effettive circostanze in cui l’attentato ha preso forma, il suo senso è molto chiaro, e l’ormai già famosa immagine di Trump, col rivolo di sangue sul viso e il pugno alzato, la esprime con un’intensità comunicativa incomparabile.
Se è presumibile che l’attentato a Kennedy abbia cambiato il corso della Storia, così anche è per l’attentato a Trump. L’avrebbe cambiato in un senso se fosse riuscito; e il suo fallimento è probabile che lo cambi in un altro.
Chi è Donald Trump?
Si potrebbe obiettare che Kennedy e Donald Trump sono due ben diversi personaggi, e certo le loro immagini suscitano sentimenti differenti. Eppure c’è ragione di pensare che non manchi qualche profonda analogia, non foss’altro per il fatto che anche Kennedy dev’essersi trovato in qualche situazione di conflitto non da poco con gli assetti profondi del potere americano.
Quanto a Trump, bisognerebbe provare a pensare la sua figura al di là di tratti che, al di fuori di certi ambienti, quelli a cui propriamente si rivolge, possono facilmente respingere. Bisognerebbe provare a riconoscere che non ci sono del tutto chiari i suoi intenti, soprattutto perché espressi in forme culturali che ci sono estranee, o ancor peggio veniamo indotti a coglierli in una luce tutt’altro che favorevole. Può anche darsi che lui stesso non abbia una visione del tutto chiara dei suoi propositi, oppure invece che, al contrario, non la si sia intesa a sufficienza. E può anche darsi che l’accaduto renda necessaria, tanto in lui quanto in noi tutti, a questo punto una maggior chiarezza.
A Milwaukee, dove è in corso la convention repubblica, che non potrà che designarlo come candidato alla presidenza, ha annunciato che farà un discorso ben diverso da quello che aveva immaginato. E dirà qualcosa che andrà capito con attenzione
Parte seconda. Provare a capire
Consiglio, a chi naturalmente ne abbia il tempo e la pazienza, di leggere la trascrizione del discorso tenuto da Trump alla convention di Milwaukee. Lo consiglio per la semplice ragione che giungono dai media singoli passaggi decontestualizzati.
Anche qualora si sia voluto in buona fede mettere in rilievo le tesi fondamentali, considerando che molto del discorso è un fare appello ai sentimenti, bisognerebbe tenere conto che ciò assume un rilievo prioritario.
Si può dire che Trump abbia voluto fondamentalmente trasmettere un sentimento, e le singole tesi sono piuttosto in funzione di questo che non viceversa.
Cosa viene suscitato in noi?
È inevitabile che, nel leggere o nell’ascoltare, siamo a nostra volta sollecitati sul piano dei sentimenti. Cosa ci suscita quel che Trump sta comunicando?
È importante che ci poniamo la domanda, e che in tutta sincerità proviamo a rispondere; anche se, una volta che l’abbiamo fatto, e abbiamo quindi preso consapevolezza dei nostri vissuti, c’è da precisare che quel discorso non è esattamente rivolto a noi. Chi l’ha pronunciato ha inteso porsi in rapporto con un nucleo profondo dell’identità americana, dandone naturalmente una certa lettura, del quale non partecipiamo, se non indirettamente.
Il meno che si possa dire è che a noi l’America suscita contrastanti reazioni. Si tratta di qualcosa che è profondamente in noi, come lo è in genere una cultura egemone: che ci attrae ma al tempo stesso ci respinge. E, siccome Trump porta alle conseguenze estreme certi tratti di quella visione culturale, sarebbe troppo facile rifiutare lui senza fare i conti con quella visione nel suo complesso.
Verso una comprensione empatica della storia
Il modo in cui personalmente cerco di mettermi di fronte agli eventi della storia è non dissimile da quello che penso sia da usare verso gli eventi della vita: non rifiutare, ma capire.
Si dirà che non è semplice, perché in particolare la politica pare basata sulla contrapposizione, per cui si è chiamati a essere o da una parte o dall’altra; ma proprio questo andrebbe forse superato. Bisognerebbe pensare a una politica che, pur non potendo prescindere dalla competizione, su un piano più profondo miri a unire.
Bisognerebbe pensare che una forza politica si rende degna di governare, non quando banalmente conquista lì per lì il consenso della maggioranza – consenso che può rapidamente perdere -, ma quando è capace di unire quanto più possibile la popolazione, venendo tendenzialmente incontro alle esigenze più irrinunciabili di tutti, e chiedendo d’altra parte a tutti di fare la loro parte.
È pura utopia, questo? Potrebbe certo essere un modello ideale, che mai troverà piena corrispondenza nella realtà dei fatti; ma come indirizzare questi ultimi, in assenza di un modello ideale a cui il più possibile approssimarsi? Come uscire dal groviglio degli interessi particolari, per lo più difficili da conciliare, se non assecondando il prevalere dei più forti? Non sarà questa, in fondo, la radice dell’attuale crisi della politica?
Il timore verso i grandi sentimenti
Cerco quindi di capire, ascoltando le parole di Trump.
Ben poco, come cultura, sensibilità e storia personale, potrebbe collegarmi a lui, ma non posso non pensare che in quel che lo riguarda, tanto più dopo il drammatico evento dell’attentato, e in ogni caso per ciò che ha saputo suscitare in una parte considerevole dell’America, ci sia qualcosa di importante da capire. E, oso dire, anche qualcosa di autentico sul piano personale.
So di usare parole che solo con estrema cautela dovrebbero venire usate – in genere per un leader politico, e forse tanto più per un leader come Trump. Difficile non pensare che in un leader non sia in primo piano il calcolo, la strategia, e che semmai sia indotto a fare della sua persona una sorta di maschera, a cui moltitudini talora immense possano guardare con sentimenti intensi, vedendovi rispecchiata qualche esigenza così profonda da essere disposti a dare, in alcuni casi, addirittura la propria vita.
Parlo naturalmente di qualcosa a cui è lecito guardare anche con timore, nella consapevolezza di quanti orrori nella storia questo possa avere provocato; eppure al tempo stesso non si può non avvertire un segno della grandezza dell’umano, del suo sentirsi chiamato a ciò che è più della sua stessa sopravvivenza.
Oso dire che c’è in questo un che di spirituale, pur sospendendo il giudizio sulla sua natura – perché è spirituale anche l’esperienza del male. Mi limito a osservare che seppero suscitare un sentimento simile tanto Hitler quanto Gandhi. E che in genere non siamo ormai avvezzi a che questo accada nelle nostre democrazie, e tanto più allora una figura come Trump risulta sconvolgente.
Dove cercare quel che davvero è importante?
Tornando a lui, avevo netta la percezione che, dopo l’attentato, nel discorso che già era previsto avrebbe pronunciato a Milwaukee, e che lui stesso aveva subito preannunciato come diverso da quello concepito in precedenza, ci sarebbe stato qualcosa di importante.
Eppure dai resoconti dei media non risultava: sembrava una banale ripetizione delle posizioni ben note, sebbene non sfugga un preciso impegno a porre fine alla guerra in Ucraina – cosa che già sta cambiando gli equilibri mondiali, per quanto gli ultimi ad accorgersene siano quelle emerite mediocrità delle dirigenze europee. Non risultava perché, per coglierlo, bisognava entrare nella dimensione propriamente umana del discorso, laddove talvolta accade la maschera diventi autentica e il leader si dimostri davvero tale.
Provare ad ascoltare l’uomo
Non occorre ormai essere studiosi di scienze cognitive per sapere che, se si vuole capire davvero, bisogna mettersi in un rapporto empatico. Prego dunque di farlo, e di leggere, o ascoltare, soprattutto la prima parte del discorso, ripresa dall’ultima, in cui Trump racconta dell’attentato.
E non è ovvio, per chi non abbia spento in sé la comprensione empatica, che lo faccia? Che dica che avrebbe potuto non essere lì? E come si può essere tanto disumani da non concedergli di attribuire la sua salvezza a una grazia divina? Perché mai avrebbe dovuto attribuirla solo alla fortuna?
Dal pulpito di quale sconsolato disincanto gli si vieta di riconoscere un senso negli eventi? E perché non avrebbe dovuto esprimere la sua fede – perché così si chiama – in una situazione in cui la sua persona era stata così intimamente unita alla causa politica dal rapido ma indubitabile trascorrere su di lui dell’ombra della morte?
La maschera e la persona
Sto applicando interamente la comprensione empatica.
Prescindo del tutto, almeno per il momento, dai contenuti del discorso, quelli su cui si sono soffermati i resoconti. Arrivo a dire, anche se non è completamente vero, che avrebbero potuto non esserci del tutto. Il centro del suo discorso – è il caso di dire il cuore – è interamente nel racconto dell’attentato.
Si può fin da adesso dire che, se sarà rieletto presidente, sarà fondamentalmente per quello: per come la persona ha saputo intimamente unirsi alla maschera, con parole che, a dispetto di quel che di lui si pensa, sono addirittura di grande semplicità. Non ha fatto in fondo che raccontare il suo vissuto rispetto a ciò che il mondo intero ha visto sugli schemi, che è di una tale plasticità da aver fatto pensare molti a una finzione – il che significa semplicemente che, anche nell’epoca in cui la finzione è più facile, la realtà non cessa di sorprenderci.
Ricordiamo bene. Lui che, colpito, si butta giù e gli agenti su di lui; poi lui si rialza col viso rigato di sangue, solleva il pugno, con un gesto che in altri tempi avrebbe richiamato tutt’altre suggestioni, e grida: combattete, combattete, combattete! E tutti gridano: “U-S-A, U-S-A!”
Potremo mai dimenticare quella scena? Quale regista avrebbe osato immaginarla in questo modo? E perché mai quest’uomo, che si è trovato a viverla così, e non senza probabilmente suo stupore hariscontrato quanto il suo senso della spettacolarità si sia intimamente fuso con la vita – perché mai quest’uomo non avrebbe dovuto rivisitare quei momenti, senza la spacconeria che senz’altro gli è consueta e che è parte della sua maschera?
Di fronte alla morte, si può essere autentici
Può darsi che la decisione di cambiare il suo discorso non riguardasse tanto i contenuti, quanto una diversa disposizione personale. Forse ha davvero trovato la sua autenticità.
Non si è vantato di un comportamento personale in cui chiunque potrebbe riconoscere un coraggio assai vicino all’eroismo. Essendosi davvero trovato a incarnare ciò che la sua maschera voleva rappresentare, ha colto dell’eroismo un significato più profondo e – forse è il caso di ripeterlo – autentico.
Chi è allora quest’uomo?
Scusate se insisto su qualcosa che pare così trascurato. Ma quest’uomo si ripropone a rivestire quello che, almeno sulla carta, è il ruolo di maggior potere mondiale – se lo sia davvero merita altre considerazioni, e la sua stessa precedente esperienza mostra quanto sia difficile fare fronte a poteri che nessuno elegge. In ogni caso è comprensibile che gli elettori americani siano particolarmente attenti, più ancora che al programma, alla persona. E allora, data la funzione che quella carica comunque riveste, ben al di fuori dei confini americani, dovremmo esserlo noi tutti.
Chi è allora quest’uomo? Forse, addirittura: chi è oggi?
Il mito si è incarnato
Ecco, quello che mi ha colpito è, dicevo, che non attribuisca l’indubbia grandiosità di quel che è accaduto particolarmente a sé, ma veda se stesso, all’interno di un contesto dal forte valore provvidenziale, in stretta unione con tutti coloro che hanno partecipato agli eventi di Butler.
Non solo a lungo si sofferma a commemorare chi è morto e a esprimere vicinanza ai feriti, per le cui famiglie sono state raccolte ingenti somme, ma si sofferma su un aspetto che io stesso non ero riuscito a mettere bene a fuoco, nonostante avvertissi qualcosa di insolito.
In questi casi, non appena si coglie che è corso un attentato e vi è quindi pericolo di essere colpiti, avviene che tutti si volgano alla fuga, col pericolo che la calca provochi altre vittime. Invece è impressionante, quasi irreale, che tutti restino al loro posto, come nel video si vede chiaramente per coloro che sono alle spalle del palco. Non avrei saputo come interpretare la cosa, ma Trump lo attribuisce al fatto che tutti pensino che lui sia stato ucciso.
In ogni caso quel che vuole mettere in evidenza è la fortissima connessione fra tutti i presenti, che fa di quel che lui sta vivendo una straordinaria esperienza collettiva. E a confermarlo sembra proprio quel che grida lui (“Combattete, combattete, combattete!”) e quel che tutti rispondono (“U-S-A, U-S-A!”).
Quel che nel suo discorso dice Trump ha un tono epico, e si tratta davvero di un epos collettivo. Quel mito dell’America, che la maschera di Trump ha saputo suscitare, ha preso all’improvviso forma in un evento in cui, al cospetto della morte, il leader è diventato davvero tale, unito al suo popolo da un legame che difficilmente potrebbe essere più profondo.
Non a caso Trump nel suo discorso, per indicare quel legame, è arrivato a parlare di amore.
Verso un più ampio orizzonte storico
Potrei aggiungere altro. Potrei dire che, con toni insolitamente moderati, ha fatto appello all’unità del Paese e detto di voler essere il presidente di tutti, perché è insufficiente esserlo di una parte; e ha invitato a non demonizzare l’avversario. Poi ha ribadito un preciso impegno per la pace, rivendicando di essere il solo presidente che non ha iniziato alcuna guerra.
Preferisco però rimandare ad altro momento una più articolata valutazione su una figura evidentemente più complessa di quel che si è voluto pensare, e che lui stesso ha indotto a credere. Bisogna in ogni caso cercare di vederla in un più ampio orizzonte storico, e capire più profondamente cosa sia l’America in rapporto al mondo.
In queste brevi note ho semplicemente voluto provare a comprendere questa figura nella sua dimensione umana, per quel che in particolare questi giorni hanno messo in luce. Non voglio dire che sia tutto, ma ritengo che non se ne possa prescindere.
Circa cosa ne possa scaturire, propongo quello che raramente si sa fare e che però è spesso una grande prova di consapevolezza: sospendere il giudizio. Non voglio nascondere il mio sollievo al pensiero che una diversa direzione della politica americana possa mettere fine alla guerra in Ucraina, ma sul senso di tutto ciò mi ripropongo presto, come ho detto, una riflessione ulteriore.
Parte terza. Da Kennedy a Trump
Gli imbarazzanti problemi di salute di Joe Biden sono sembrati una evidente metafora della crisi delle leadership che hanno guidato la politica occidentale degli ultimi decenni, la cui ispirazione viene comunemente riferita a ciò che sembra essere stato il movimento neocon, il quale, dopo essersi connesso ad alcune presidenze repubblicane, pare aver preso il sopravvento nel Partito Democratico. Ora il suo ritiro mette clamorosamente in evidenza quella crisi.
D’altra parte la confusione in questo momento dominante nel Partito Democratico, a cui non sarà facile contendere la vittoria a Trump, pare riprodurre, in modo ovviamente ancora più amplificato,il vuoto di potere creatosi in Francia. Chiunque sia il candidato, la sua parola d’ordine fondamentale sarà quella di fermare Trump, più di quel che in positivo possa essere proposto.
Guardando indietro
Per una corretta valutazione della situazione occorre tener conto che gli scambi di ruolo tra i due partiti in America non sono nuovi.
Nell’Ottocento il Partito Repubblicano potremmo considerarlo più a sinistra di quello democratico, in quanto soprattutto rappresentato dalla figura di Lincoln, mentre il Partito Democratico appariva legato alla segregazione razziale, e in alcuni suoi settori questo legame si è mantenuto fino a tempi assai recenti. Il fatto poi comunque di essersi fatto espressione della classe operaia formatasi attraverso le successive ondate migratorie, quindi anche di gruppi di religione cattolica o ebraica, ha poi mutato la sua fisionomia, fino ad assorbire il consenso degli afroamericani, originariamente del tutto lontani da esso.
Questa composizione multietnica e multiculturale ha a un certo punto rappresentato una immagine dell’America che veniva a contrapporsi a quella più connessa al suo nucleo originario – bianco, anglosassone e protestante -, di cui si faceva interprete il Partito Repubblicano.
Le due anime dell’America
La competizione ma anche l’intreccio di queste due anime ha accompagnato nel corso del Novecento l’ascesa dell’America a un ruolo di egemonia mondiale.
Quella che per lo più si identifica col Partito Repubblicano ha fornito la fede in un particolare destino dell’America nel mondo, l’altra l’idea che questo destino non coincidesse solo con il predominio di un gruppo su altri, come nel colonialismo europeo, ma in un progressivo venir meno di ogni discriminazione tra i diversi gruppi.
Questa è la visione, naturalmente unita a una strabordante potenza economica e militare, che ha consentito la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, il prevalere nella competizione con l’Unione Sovietica e infine la globalizzazione di questi ultimi decenni. Si tratta di un processo che ha pervaso tutto il mondo, e anche tutti i movimenti di opposizione hanno dovuto confrontarsi con questa visione.
Il mito della nuova frontiera
È probabile che il più grande tentativo di fondere queste due anime, con prevalenza di quella democratica, si sia avuto con la presidenza Kennedy.
Si trattava allora di fornire una convincente alternativa alla soverchiante forza ideologica del comunismo. È verosimile che Kennedy abbia inteso portare la competizione militare su un piano di possibile convergenza su valori comuni.
Siamo negli anni del Concilio Vaticano II, e non è inverosimile che il primo presidente cattolico abbia nutrito la convinzione che la lotta contro il comunismo potesse venire vinta non solo con la maggior potenza economica e militare, ma riconoscendo certe esigenze umane profonde di cui il comunismo si faceva portatore. Di qui la nuova frontiera, che includeva la lotta contro la povertà, la discriminazione…
Il fascino personale della sua figura si univa a tutto ciò. L’egemonia americana nel mondo avrebbe dovuto essere sorretta da un ideale in cui il mondo intero potesse riconoscersi.
La Storia è andata diversamente
Sappiamo come il suo tentativo sia finito: con l’attentato di Dallas.
L’atmosfera ideale suscitata in quegli anni, a cui contribuiva un marxismo critico verso l’Unione Sovietica, avrebbe comunque plasmato la coscienza collettiva incarnandosi soprattutto in quell’ampio fenomeno storico che è il Sessantotto, ma non avrebbe più di tanto determinato gli esiti della Guerra Fredda. Determinante sarebbe piuttosto stato il logoramento interno del sistema sovietico, incapace di sostenere la pressione di due forze opposte: da un lato lo strapotere materiale dell’economia occidentale, in grado di dare alle masse un benessere di gran lunga superiore a quello promesso dal comunismo; dall’altro il risorgere della fede religiosa, che il comunismo non era riuscito a sostituire nella coscienza collettiva.
Queste sono le due forze che hanno consentito la vittoria nella Guerra Fredda. Lì per lì hanno operato congiuntamente, poi si sono immediatamente divise, e il nuovo scenario mondiale ha visto la loro contrapposizione.
Le radici della guerra in corso
Penso che il movimento neocon, a cui si attribuisce un ruolo guida nell’America nel nuovo scenario, nasca dalla consapevolezza di quale fragilità vi fosse in quella vittoria.
L’America aveva vinto, ma non convinto. Anche nel momento in cui pareva svanita qualsiasi alternativa, non era riuscita a parlare al cuore delle moltitudini mondiali; anzi, la globalizzazione senza freni, che veniva dissolvendo ogni identità dei popoli, avrebbe fomentato un’ostilità implacabile, verso cui a un certo punto non avrebbe trovato riparo.
La stessa prevalenza economica avrebbe iniziato a declinare. I sacrifici umani che era costata altri avrebbero saputo affrontarli, e le dinamiche stesse della globalizzazione, soprattutto il decentramento produttivo, avrebbero fornito ad altri le armi decisive. Come avrebbe potuto mantenersi il predominio americano, una volta che il suo sistema industriale fosse stato portato in Cina?
Ecco, la strategia neocon nasce dalla consapevolezza di questo inevitabile declino, e dal tentativo disperato di arrestarlo, o almeno rallentarlo, attraverso il mezzo di cui si ritiene di essere ancora interamente in possesso: l’apparato militare. Di qui tutta una serie di azioni militari volte a mantenere, attraverso l’uso della forza, una posizione altrimenti insostenibile, in particolare legata all’imposizione del dollaro come riferimento negli scambi internazionali.
E di qui l’esigenza di venire a capo della Russia, che costituisce l’unico soggetto in grado di contrastare il predominio militare, facendosi ombrello protettivo di quelle ampie aree mondiali, in cui vive la stragrande maggioranza dei popoli della terra, che tentano di emanciparsi dalla sudditanza del dollaro.
Ecco, in poche parole, le radici della guerra in corso. Nella quale l’Europa è interamente ostaggio. I suoi leader non possono dire quel che è difficile pensare non sappiano – e, se non lo sanno, è ancor più grave.
L’ideologia delle nuove élite
Questo è il contesto nel quale prendono forma in Occidente i vari movimenti considerati di destra, che tanta inquietudine suscitano negli ambienti delle élite economiche.
Qualsiasi riflessione in merito è del tutto fasulla se non si tiene conto di un elemento. Quell’atmosfera culturale che ha assunto un notevole rilievo in Occidente a partire dagli anni sessanta, che avrebbe potuto avere un ruolo nel mutare il corso della storia ma non l’ha avuto, perché le sorti della Guerra Fredda sono state decise diversamente, ha comunque preso forma in un ceto sociale capace di influenzare diffusamente l’opinione pubblica, e a questo ceto, e alle sue convinzioni, i vincitori della Guerra Fredda hanno in gran parte delegato le funzioni politiche e mediatiche.
Abbiamo già avuto presidenti americani e segretari della NATO che in gioventù hanno manifestatocontro la guerra in Vietnam. Persone che allora sognavano una rivoluzione, e a cui, quando è stato consegnato loro il potere, o almeno la sua parvenza, forse non è sembrato vero.
Si ipotizza che negli stessi ambienti neocon vi siano elementi originariamente ispirati da idee di sinistra. Ma, dovrebbe sapersi, quando non si riesce a fare una rivoluzione, l’idea del potere ètalmente penetrata nell’animo che si è facilmente disposti a farne un’altra, tanto più se a questo punto non basta che seguire le correnti dominanti. Non c’è forse qualcosa del genere all’origine della strategia dell’esportazione della democrazia?
Ruoli invertiti
È un fatto che in ogni caso in Occidente ciò che comunemente si intende con sinistra, che un tempo si faceva interprete delle esigenze dei ceti più umili, non da oggi ha cambiato natura ed esprime piuttosto quelle dei ceti medio-alti, in stretto collegamento con le élite.
Non è dunque difficile capire come queste destre, il cui dilagare tanto preoccupa, si siano fatte portavoce di quel che preme tra i meno fortunati. E il disprezzo di cui facilmente sono fatte oggetto, nonché la paura che si diffonde nei loro confronti, non è esente da sospetto. Non è del resto il termine “populismo” senza difficoltà leggibile come disprezzo e paura di quel popolo che in teoria dovrebbe, in un sistema che si definisce democratico, essere la fonte della sovranità?
È d’altronde qualcosa che noi qui in Italia, dove talora certe cose si anticipano, conosciamo da tempo. Non ci ricordiamo di quando sorse un fenomeno così scomposto e impresentabile, ma così autentico, come fu e continua a essere la Lega? E ricordiamo un certo personaggio dell’economia, in anticipo di decenni su Trump, che si conquistò il voto dei quartieri operai di Torino? Un personaggio che si è cercato di fermare in ogni modo – per i suoi deprecabili costumi sessuali o per le pericolose amicizie internazionali?
Il monopolio dei principi universali
Certo, un problema è innegabile. La sinistra sembra detenere il monopolio di un bene di incommensurabile valore: un patrimonio di principi universali sui quali pare indiscutibile debba fondarsi la convivenza umana. Chi, volendo davvero essere in accordo con la sua coscienza, e soprattutto poterla esibire a tutti, può essere contrario al riconoscimento della pari dignità di ogni essere umano, della sua libertà di autodeterminarsi, del suo diritto a essere accolto ovunque si rechi e considerato prezioso per chi lo accoglie?
È subito evidente quanto il contrario sia riprovevole, e chi lo afferma è immediatamente avvolto da un’aura di vergogna; diventa la rappresentazione stessa del lato oscuro che in ogni essere umano si cela, di egoismi inconfessabili e paure profonde – come se la luce dell’umanità non fosse interamente penetrata in lui. Ed è così che nella democrazia si insinua un paradosso, per cui, per essere pienamente democratici, bisogna che l’orientamento personale sia inequivocabilmente volto in una direzione.
È così accaduto che, mentre un tempo si può pensare che si fosse di sinistra per rivolta, talora a caro prezzo, contro un sistema ingiusto, oggi lo si è prevalentemente per conformismo, perché è impensabile essere diversamente.
Si sarebbe detto un tempo: extra Ecclesiam nulla salus. E, come un tempo, si chiede di ignorare le incongruenze che la realtà non può mai del tutto celare, al prezzo naturalmente che la realtà si fa sempre più lontana.
Domande quasi impossibili da formulare
Com’è, ci si dovrebbe altrimenti chiedere, che, dietro il paravento di quei principi così universali, per cui un uomo di colore è potuto accedere alla presidenza degli Stati Uniti, suscitando aspettative tali da essere insignito subito di un premio Nobel per la pace – com’è che dietro questo paravento è avvenuta la più grande concentrazione di ricchezza della storia, oltre che il diffondersi nel mondo di quella guerra che era nella strategia neocon, quella “guerra mondiale a pezzi” di cui parlava il Papa, i cui frammenti pareva non si componessero secondo un senso, e un senso invece, e ben preciso, lo avevano?
E chi sono questi intoccabili, questi ignobili fuori casta che non si sono vergognati di prendere su di sé tutto quel che è moralmente oggi più riprovevole, la cui colpa simbolicamente più imperdonabile pare esser quella di non voler accogliere lo straniero?
Chi sono i razzisti, i sovranisti, spesso e volentieri omofobi, nemici della democrazia e anche solo inconsapevolmente alleati della Russia?
Un uomo che è una rivelazione
Si sarebbe dovuto capirlo molto prima, ma a Milwaukee c’è stata una rivelazione, ed è quando Trump ha indicato come suo vice una figura che non ci si aspettava: J.D. Vance. Un nome che vale più di qualsiasi programma elettorale.
Un uomo che è uscito dalla miseria in cui è precipitata la classe operaia bianca americana rimasta senza lavoro a seguito del decentramento produttivo. Uno scrittore di talento che ha raccontato la sua storia in un libro (tradotto in italiano col titolo Elegia americana), diventato anche un film: la storia commovente di un’epopea di non minore dignità di quella di chi emigra, e non si capisce perché dovrebbe essere dimenticato; e che, a dimostrazione di quanto poco sia razzista, ha una moglie intensamente amata originaria dell’India.
Uno che è stato tra i marines, come tanti poveri d’America nella disperata ricerca di un riscatto, e che proprio in Iraq ha capito quanto fossero sbagliate le guerre americane – e ha una ragione molto forte oggi per voler porre fine alla guerra in Ucraina.
Una persona di cultura originariamente contrario a Trump, evidentemente perché urtato dai modi in cui si presentava, ma che poi suppongo abbia capito, e forse non pensando tanto a Trump quanto a quella sua gente da cui non si è voluto separare; e c’è qualcosa di grande nel fatto che Trump l’abbia accolto come suo vice e forse fin da adesso come successore, vedendo in lui quel che egli stesso non può essere.
E quando Vance è per fermare l’immigrazione, non penso sia per insensibilità verso sofferenze altrui, ma perché non può essere innanzitutto estraneo a quelle della sua gente; perché sa che l’immissione incontrollata sul mercato di nuova forza lavoro crea quello che Marx chiamava esercito industriale di riserva, che abbassa il livello dei salari peggiorando la condizione della classe operaia.
Perché non vedere questo? Perché non vedere, anche da noi, oltre le sofferenze di chi arriva, anche quelle di chi si sente sprofondare, come umanità ormai superflua? Non riusciamo a vedere quello che ha vissuto e rappresentato Vance anche nelle nostre periferie?
Riusciamo ad avere sentimenti autentici, e non solo quelli che ci è richiesto di avere?
Verso un orizzonte davvero universale
Notevole infine che quest’uomo, a partire dalla sua storia e dalla crisi delle sue convinzioni in Iraq, abbia maturato anche un cammino religioso. È diventato cattolico.
Non mi permetto di esprimere giudizi su cosa possa significare questo rispetto all’originario ambiente protestante; voglio però pensare che comporti, magari congiuntamente all’amore per la moglie indiana, una ricerca di quella dimensione universale di cui si avverte più che mai il bisogno spirituale, ma che va purificata da mistificazioni troppo avvilenti.
Se ci dev’essere pari dignità per tutti, deve esserci anche per gli impresentabili di cui quest’uomo ha sentito di doversi fare portavoce. E può darsi addirittura che qualcosa di Kennedy ritorni alla luce, dopo tanto travaglio, tanto dolore e tanti tradimenti.
E può capitare che persino uno come Trump contribuisca a questo. Uno che è forse meno peggio di quel che sembra, non foss’altro perché non ha voluto sembrare quello che non è. E, come ha detto, è stato il primo presidente a non avere iniziato alcuna guerra. E ha detto che non bisogna demonizzare l’avversario. E sono parole che valgono tanto.
Qualcosa si è mostrato
Non voglio essere impietoso con nessuno, ma, nell’improvviso precipitare della situazione che ha reso inevitabile il ritiro di Biden, anch’essa umanamente meritevole di rispetto, non posso non vedere la nemesi per un nodo che si è tanto voluto aggrovigliare da renderlo inestricabile.
Tanto si è voluto mentire, che la realtà non si sa più cosa sia.
Non so se il Partito Democratico, al di là di individuare un candidato, riuscirà a compiere uno sforzo di verità che implica fare i conti con tutta la sua storia: non è assolutamente facile, data l’entità del groviglio, ma non si deve mai escluderlo.
Soprattutto non so come andranno le elezioni. Molto può ancora succedere, né si può in assoluto escludere che un secondo attentato possa infine andare a segno. O altro ancora, non prevedibile ma non meno grave, data la frattura nella società americana e nel sistema di potere occidentale.
Quel che in ogni caso è avvenuto in questi giorni ha un valore di verità indubbio. Qualcosa si è mostrato chiaramente. E questo è di per sé importante. Ciascuno se ne renda responsabile.
E’ nato nel 1956 a Torino. Dopo la partecipazione giovanile alle vicende politiche degli anni settanta, di cui è testimonianza il libro-intervista I non garantiti, pubblicato da Savelli nel 1977, si è laureato in filosofia con Gianni Vattimo e ha iniziato a insegnare nella scuola superiore. Nel frattempo ha intrapreso un cammino religioso caratterizzato soprattutto dall’incontro con il Dharma buddhista, che paradossalmente lo ha riavvicinato alla fede cristiana. Da tale cammino sono frutto la rivista Interdipendenza (dal 2005 al 2008), l’associazione Interdependence e un ampio numero di articoli, convegni e iniziative educative. Nel 2009 ha pubblicato (con Cristiana Cattaneo) Tornare a educare, un’ampia riflessione filosofica, sociologica e psicologica sulla crisi dell’educazione nella società contemporanea, e nel 2017 Famiglia culture e valori, una ricerca antropologica sul rapporto uomo-donna, la famiglia e l’educazione presso le comunità immigrate di Torino – entrambi i libri da Effatà. Nel 2013 ha curato per Aracne Raimon Panikkar filosofo e teologo del dialogo. Nel 2018 è diventato monaco buddhista, cominciando a dare avvio a un nuovo cammino spirituale, in cui il Dharma si incontra con le due radici dell’Occidente: la filosofia greca e la tradizione religiosa ebraico-cristiana.