Nuovi cieli, nuova terra e nuovi mari? L’assalto del dragone cinese all’ordine mondiale

Nuovi cieli, nuova terra e nuovi mari? L’assalto del dragone cinese all’ordine mondiale

5 Giugno 2023 0

Le lontane radici della crisi imperiale statunitense

Il decennio compreso tra il 1965 e il 1974 può essere considerato come un arco di tempo cruciale per il sistema di regole internazionali fondato sulla vittoria conseguita dagli Stati Uniti nel corso del secondo conflitto sistemico del Novecento (1939-1945) ovvero sulla supremazia del dollaro come valuta di riferimento internazionale dopo gli Accordi di Bretton Woods (1944). Sopra tutti, furono tre gli episodi indicatori.

Il 4 febbraio 1965, durante una conferenza stampa, il Presidente francese Charles de Gaulle, confermando la linea già indicata dal suo ministro delle Finanze, Valéry Giscard d’Estaing, attaccò esplicitamente il Gold Exchange Standard che garantiva agli Stati Uniti – in quanto potenza egemone erede del British Empire – il “privilège exorbitant” di ricorrere all’indebitamento con l’estero, pagando in dollari inflazionati anziché in oro. L’attacco al dollaro statunitense – giustificato dal fatto che le riserve auree di quello che allora era il MEC[1] equivalevano oramai a quelle della FED[2] – era rappresentato dalla conversione in oro delle riserve in dollari possedute dalla Francia. Sei anni dopo (esattamente il 15 agosto ’71) il Presidente statunitense Richard Nixon firmava l’Executive Order n. 11615, per mezzo del quale dichiarava lo stato di emergenza nazionale, con il fine di attuare restrizioni valutarie, imponendo controlli sul commercio estero e sospendendo, motu proprio, la conversione della valuta statunitense in oro. L’aumento del tasso di convertibilità da 35 a 38 dollari l’oncia, deciso con lo Smithsonian Agreement del dicembre successivo, non impedì un’ulteriore svalutazione pari al 10% della divisa statunitense, annunciata il 14 febbraio 1973, inaugurando così il sistema di fluttuazione delle monete.

Nel settembre 1974 si assistette all’atto conclusivo di tale decennio. Gli extraprofitti OPEC[3], generati dallo shock petrolifero conseguente alla Guerra del Kippur (o Guerra del Ramadan), determinavano il problema del reimpiego del surplus, il cosiddetto petrodollar recycling. Questo aspetto fu messo in luce nel 1999 dallo studioso statunitense David E. Spiro, all’interno del volume dal titolo (indicativo) The Hidden Hand of American Hegemony: Petrodollar Recycling and International Markets (“La mano nascosta dell’egemonia americana: riciclo di petrodollari e mercati internazionali”), pubblicato dalla Cornell University Press. L’impasse – secondo Spiro – sarebbe stato aggirato con gli accordi segreti Kissinger-Simon, mediante i quali parte del surplus saudita veniva destinato al finanziamento del debito statunitense.

FOTO - Jiang Zemin e Henry Kissinger
FOTOJiang Zemin e Henry Kissinger

Gli accordi segreti Kissinger-Simon (stipulati con la Casa al-Saud) avrebbero così rappresentato il rinnovarsi di una special relationship tra Stati Uniti e Regno dell’Arabia Saudita che perdurava sin dal primo dopoguerra, quando l’ex agente dell’intelligence britannica Harry Saint John B. Philby (padre del più famoso Kim Philby), in aperta rottura con la politica filo hashemita perseguita dal suo governo, in qualità di consigliere particolare di Re Abdulaziz aveva convinto la Casa Reale ad aprire il mercato petrolifero del nuovo regno arabo-saudita alle compagnie statunitensi: la società di Stato incaricata di gestire le vaste riserve del regno nascerà infatti nel 1933 grazie anche a capitali forniti dai Rockefeller e, non casualmente, si chiamerà Aramco, contrazione di Arabian American Oil Company.

Veniva così rinsaldato – dopo l’attacco frontale gollista al sistema di Bretton Woods – il terzo pilastro, di natura finanziaria, affermante la predominanza globale dell’America, che, nel 1973, Raymond Aron, significativamente, aveva definito “République impériale”. Le altre due colonne portanti di quest’architrave egemonica possono essere identificate nella supremazia esercitata sugli oceani dalla US Navy e nel controllo delle propaggini occidentali e orientali dell’Isola Mondo, l’Eurasia, vale a dire l’Europa (con il predominio a stelle e strisce all’interno della NATO) e l’Arcipelago giapponese.

Il revisionismo russo-cinese

Le rivelazioni del Wall Street Journal del marzo scorso relative alla circostanza che governo saudita e cinese starebbero valutando la possibilità di regolare gli scambi petroliferi in yuan piuttosto che in dollari secondo alcuni osservatori sarebbero il segnale d’inizio della de-dollarizzazione dell’economia globale. Al di là di tali audaci speculazioni, di fatto, Repubblica Popolare Cinese e Federazione Russa da tempo rappresentano quelle che Robert Kagan ha definito potenze revisioniste rispetto all’ordine internazionale fondato sulla vittoria degli Stati Uniti nella Guerra Fredda. Mosca ritiene, invece, che la fase attuale sia ancora quella basata sulla sconfitta delle potenze del Tripartito nel 1945, accusando Washington di egemonismo e rifiutando di percepirsi come potenza perdente nello scontro bipolare che ebbe termine nel 1991 con la dissoluzione dell’URSS e del Patto di Varsavia ovvero dello spazio imperiale (ex) sovietico.

Questo cortocircuito geopolitico, geo-economico e diplomatico, ha dato luogo a due diverse interpretazioni della realtà: da un lato quella russa, secondo cui la comunità internazionale starebbe tutt’oggi vivendo in un tardo secondo dopoguerra, dall’altro quella statunitense che propugna la narrativa di un terzo dopoguerra post 1991. Le crisi internazionali degli ultimi decenni, ivi compresa quella attualmente in corso tra Kiev e Mosca, sono anche il frutto di questo collidere. La difficoltà nel trovare una sintesi che regoli la coesistenza pacifica tra le potenze nel XXI secolo pare quindi avere spinto Russia e Cina a scelte unilaterali nel campo dei world affairs con fughe in avanti che, in molti casi, hanno messo la comunità internazionale dinnanzi al fait accompli.

L’odierno asse russo-cinese affonda le sue radici nella creazione della Shanghai Cooperation Organization sorta nel 2001, ma solo recentemente ha visto accresciuta la sua importanza in termini potenzialmente strategici. Due settimane prima dell’inizio dell’offensiva russa in Ucraina (esattamente il 4 febbraio 2022) il Presidente russo Vladimir Putin insieme a quello cinese, Xi Jinping, aveva affermato che le relazioni internazionali stessero entrando in una nuova era. Da quel momento l’espressione “nuova era” è divenuta di uso comune negli interventi pubblici del capo del Cremlino. Il tema del diciannovesimo meeting del Club di Valdai, tenutosi nell’ottobre scorso, era indicativo di questa visione russo-cinese tendente alla costruzione di un nuovo ordine mondiale multicentrico, poiché faceva riferimento a un mondo post egemonico, dove l’egemone è rappresentato dagli Stati Uniti.

FOTO – Mosca, 5 Giugno 2019 – Il presidente russo Vladimir Putin e il presidente Cinese Xi Jinping 

Nel suo intervento Putin aveva infatti affermato che: “Washington continua a riferirsi all’attuale ordine internazionale come liberale [e] di stampo americano, ma in realtà questo famigerato <<ordine>> sta moltiplicando il caos ogni giorno[4]. I colloqui russo-cinesi del marzo scorso hanno segnato il culmine di questa amicizia senza limiti tra Mosca e Pechino, soprattutto per via di due documenti bilaterali: una Dichiarazione congiunta sull’approfondimento del Partenariato globale russo-cinese e della cooperazione strategica per una Nuova Era e la Dichiarazione congiunta del Presidente della Russia e del Presidente della Cina sul piano di promozione degli elementi chiave della cooperazione economica russo-cinese fino al 2030. La società per l’energia atomica russa Rosatom e l’Autorità per l’Energia Atomica della Cina avevano inoltre siglato un accordo chiave di cooperazione sui reattori a neutroni veloci e sulla chiusura del ciclo del combustibile nucleare.

Secondo un report di Bloomberg questo accordo contribuirebbe alla produzione cinese di plutonio per armi nucleari. Già nel dicembre scorso Rosatom aveva terminato il trasferimento di 25 tonnellate di uranio altamente arricchito al reattore nucleare cinese CFR-600, che avrebbe la capacità di produrre 50 testate nucleari all’anno. Secondo una valutazione di analisti del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, il CFR-600 potrà essere fondamentale per il riarmo nucleare cinese, consentendo a Pechino di passare dalle attuali 400 testate a 1.500 entro il 2035[5] e quindi di raggiungere la parità strategica (almeno per quanto concerne gli ICBM[6]) con Washington.

La strategia di Washington e la profezia di Reinsch

Nel discorso intitolato The Administration’s Approach to the People’s Republic of China, tenuto il 26 maggio 2022 alla George Washington University, il Segretario di Stato, Antony J. Blinken, aveva rimarcato l’importanza della diplomazia quale strumento indispensabile per plasmare il futuro dell’ordine internazionale, aggiornando le regole stabilite dopo le due guerre mondiali. In un passaggio, aveva inoltre implicitamente respinto le accuse russe di occidentalcentrismo, affermando che la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti umani, che sanciscono concetti come l’autodeterminazione, la sovranità e la risoluzione pacifica delle controversie, non sono costruzioni occidentali, bensì il riflesso di aspirazioni condivise a livello mondiale. Secondo Blinken, l’attuale ordine mondiale sarebbe minacciato dalla postura fatta assumere alla Federazione Russa dalla visione geopolitica di Putin.

FOTO - Anthony Blinken, alla George Washington University
FOTO – Anthony Blinken, alla George Washington University

Se la Russia costituisce una minaccia attuale, la Repubblica Popolare Cinese – secondo l’analisi del Segretario di Stato – incarna invece una sfida di lungo termine, per via del fatto che essa è l’unico Paese che ha l’intenzione di deformare l’ordine internazionale e, nel medesimo tempo, il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per farlo. L’ambizione cinese di creare una sfera di influenza nell’Indo-Pacifico (espressione coniata da Karl Haushofer nel secolo scorso)[7] e gli strumenti scelti da Pechino per assurgere a prima potenza mondiale costituirebbero, alfine, una potenziale minaccia alla stabilità internazionale. La soluzione offerta da Blinken consiste in una triplice strategia, rispetto alla quale la diplomazia rappresenta la via privilegiata.

Tale strategia è stata illustrata dal Segretario di Stato nei seguenti termini: “We will invest in the foundations of our strength here at home – our competitiveness, our innovation, our democracy. We will align our efforts with our network of allies and partners, acting with common purposeand in common cause. And harnessing these two key assets, we’ll compete with China to defend our interests and build our vision for the future[8]. La creazione (nella regione Indo-Pacifico) di una coalizione anti-egemonica a guida statunitense era già riecheggiata nel pensiero di un autorevole esponente del ceto politico e diplomatico statunitense: Elbridge A. Colby, nipote di William E. Colby (1920-1996) che fu direttore della CIA[9] dal 1973 al 1976. Nel saggio The Strategy of Denial: American Defense in an Age of Great Power Conflict (“La strategia della negazione: la difesa americana in un’epoca di conflitti tra grandi potenze”), pubblicato nel 2021 dalla Yale University Press, Colby ha sostenuto la tesi che per preservare la propria supremazia in quella regione gli Stati Uniti dovrebbero optare per una postura più spiccatamente assertiva, anche in termini di dispiegamento militare, rafforzando il sistema di alleanze regionali e garantendo in maniera chiara e ferma la sicurezza della Repubblica di Cina (Taiwan).

Sebbene la Dottrina Blinken e la Dottrina Colby (se così possono essere chiamate) puntino a un medesimo obiettivo (preservare nel XXI secolo la predominanza statunitense nella regione Asia-Pacifico o Indo-Pacifico e ridimensionare le velleità imperiali del Partito Comunista Cinese) esse sembrano tuttavia divergere relativamente agli strumenti ritenuti necessari allo scopo. Questa dicotomia può costituire un considerevole oggetto di dibattito nell’establishment statunitense, soprattutto in vista delle elezioni presidenziali del 2024, quando il Partito Repubblicano tenterà di scalzare i Democratici dalla Casa Bianca.

In questo senso, la storia della diplomazia statunitense offre un precedente assai interessante in termini profetici riguardo alla Cina. Agli inizi del Novecento Paul S. Reinsch, studioso, diplomatico e ministro del Presidente Thomas Woodrow Wilson in Cina dal 1913 al 1919, sulle pagine del suo volume World Politics at the End of the Nineteenth Century, As Influenced by the Oriental Situation (“La politica mondiale alla fine del XIX secolo, così come influenzata dalla situazione orientale”), affermò che: “the general conclusion reached by all who have investigated the matter [is that] … the coal and general mineral wealth of China, taken in connection with the vast and highly trained, frugal, and capable population, will, during the coming century, make China the industrial centre of the world, and the Pacific che chief theatre of commerce[10].

[1] Mercato Europeo Comune.

[2] Federal Reserve System.

[3] Organization of the Petroleum Exporting Countries.

[4] http://en.kremlin.ru/events/president/news/69695.

[5] https://asiatimes.com/2023/03/russia-to-power-chinas-nuclear-weapon-ambitions/.

[6] Intercontinental ballistic missile.

[7] Ted. Indopazifischen Raum.

[8] [Trad.] “Investiremo nelle fondamenta della nostra forza qui in patria – la nostra competitività, la nostra innovazione, la nostra democrazia. Allineeremo i nostri sforzi con la nostra rete di alleati e partner, agendo con uno scopo comune e per una causa comune. E sfruttando queste due risorse chiave, competeremo con la Cina per difendere i nostri interessi e costruire la nostra visione del futuro”.

[9] Central Intelligence Agency.

[10] [Trad.] “la conclusione generale raggiunta da tutti coloro che hanno studiato la questione [è che] … la ricchezza carbonifera e mineraria in generale della Cina, considerata in connessione con la vasta popolazione altamente addestrata, frugale e capace, renderà la Cina, nel corso del prossimo secolo, il centro industriale del mondo, e il Pacifico il principale teatro del commercio”.

Roberto Motta Sosa
RobertoMottaSosa

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