L’epidemia travolge l’Italia, il Governo Draghi i partiti e le coalizioni. Pd in testa.

L’epidemia travolge l’Italia, il Governo Draghi i partiti e le coalizioni. Pd in testa.

16 Marzo 2021 0

Nel paese nuovamente travolto dall’epidemia, che accanto al problema sanitario si porta dietro la crisi economica e sociale altrettanto drammatica, con nuove restrizioni e chiusure distribuite sull’intera penisola, si avverte comunque un comune sentire positivo nei primi passi del governo di Mario Draghi, equamente distribuite tra inevitabili speranze e caute convinzioni: decisioni rapide e spesso solitarie del capo dell’esecutivo e tuttavia accettate dai partiti e dall’opinione pubblica forse anche un po’ per amor di patria e un po’ perché tutto sommato gradite; ferme rivendicazioni di autonomia nei confronti dell’Europa e di chicchessia; impegno silenzioso e poche chiacchiere.

Certo, c’è il problema del vaccino e dei vaccinatori che viaggiano come a corrente alternata, quando c’è l’uno non ci sono gli altri e viceversa, ma a quanto pare molto lentamente quanto faticosamente si sta cercando di porre rimedio. Ovviamente non è una questione nata ieri, le responsabilità ricadono in parte nei politici e nei funzionari europei, e per altra parte in chi ha guidato il paese fino a qualche settimana fa. Un governo di tutti insieme tranne uno, ma con un uomo solo al comando che magari, c’è da pensare, quantomeno informa i capipartito, probabilmente ne cerca il consenso, e subito dopo però decide con o senza il consenso, senza estenuanti e vuote trattative che durano settimane fino a diventare inconcludenti – ne sappiamo qualcosa col governo precedente -: insomma, quello che ci vuole in una fase così difficile come questa, ma forse anche in periodi di normalità. Eppure un esecutivo che riscuote un così largo consenso, e forse paradossalmente proprio per questo, è riuscito suo malgrado a scompaginare, chi più chi meno, i singoli partiti e quel che resta delle coalizioni: le traumatiche dimissioni del segretario Nicola Zingaretti nel Pd; le scissioni ed espulsioni nei Cinquestelle; le virate neoeuropeiste della Lega; le polemiche e i malumori in Forza Italia; la frantumazione di LeU.

Nel Partito Democratico la soluzione della crisi di identità è stata individuata nella figura di Enrico Letta, che gode di autorevolezza e prestigio anche internazionale; all’ex Presidente del Consiglio il compito di tenere unite le diverse  anime del partito alquanto litigiose e contribuire a un auspicabile buon governo di Draghi. La sua nomina si può prestare a una lettura che forse rende più grave quanto avvenuto al Nazareno: il Pd per individuare una guida nel dopo Zingaretti si è dovuto rivolgere a un reduce! Una figura del passato, seppure non lontanissimo, che ben sette anni fa aveva lasciato la politica attiva, forse continuando ad esercitare quella passiva, sebbene sia di gran lunga preferibile l’impegno politico, come si dice con una brutta espressione, mettendoci la faccia. Tante e tali erano le divisioni nel partito, le accuse reciproche, le competizioni, le rivalità manifeste e sotterranee, che non si è riusciti a trovare una figura militante cui affidare la guida del partito. Più brutalmente, si può pensare che nessuno tra i tanti nomi illustri o sconosciuti sia stato ritenuto capace di sostituire Nicola Zingaretti. Il quale ex segretario nel dimettersi brutale lo era stato davvero, accusando gli altri, senza fare nomi per carità, di cercare solo poltrone! Detto dal segretario del partito gli si può anche credere. E non solo, nel motivare le improvvise dimissioni, aveva parlato di uno stillicidio di accuse nei suoi confronti, di trame per metterlo in difficoltà, di attacchi subdoli, di guerriglia. Per poi concludere: mi vergogno del Pd!

C’è peraltro da chiedersi se nel partito non ci fosse qualcuno che si vergognasse di Zingaretti. Ne è venuto fuori l’immagine di un Pd allo sbando, da sciogliere. Nelle vicende della politica del passato si erano viste in tante occasioni polemiche furibonde all’interno dei partiti, divisioni e scissioni. Ma nessuno tra i segretari in polemica con il proprio partito era mai arrivato a tanto. Le cronache peraltro non hanno riportato, o forse non hanno messo in evidenza, qualche accenno di autocritica dell’ex segretario, il riconoscimento di un pur minimo errore. No, questo no, Zingaretti errori non ne ha fatti. Eppure c’è chi, all’interno del partito e tra i commentatori più o meno indipendenti, ne fa elenchi chilometrici. E non possono essere tutti di mera opposizione interna o di critica dettata da ostinato pregiudizio. Ma se possibile fa ancor più rabbrividire, dopo le gravissime parole di Zingaretti, la pletora di inviti a ripensarci, a ritirare le dimissioni, a restare, che sono piovuti sul segretario dimissionario dai suoi compagni di partito. Certo, la mozione degli affetti non si nega a nessuno, l’ipocrisia fa parte della politica e talvolta può essere necessaria, ma a un segretario che usa quei termini e quei concetti non si può chiedere di restare, e comunque è lecito pensare che tra coloro di cui il segretario si vergognava ci sia anche qualche suo estimatore del giorno dopo. 

Ora dunque un siffatto partito è affidato alle cure di Enrico Letta, che aveva lasciato la politica dopo le sue dimissioni da Presidente del Consiglio provocate dall’allora segretario Pd Renzi, del quale spesso si discute di un eventuale ritorno nel partito. Con Letta segretario può diventare impresa improba affrontare questa possibilità. E tuttavia il nuovo segretario nel suo discorso ha detto che parlerà con tutti, anche con quel Renzi che lo aveva fatto fuori. Allo stesso modo Letta dovrà tentare un recupero di Calenda, riaprire un serio confronto con i fuoriusciti di LeU e il resto della sinistra, allacciare un rapporto organico con Più Europa. Tanti frammenti di un sinistra che, fatte salve le inevitabili differenze di opinione che a un segretario spetta il compito di impegnarsi a ricondurre a sintesi, può ricostruire la propria identità. E così anche affrancarsi dall’abbraccio soffocante dei Cinquestelle, un’alleanza che Letta vuole approfondire ma che in tanti nel Pd osteggiano e che rappresenta uno dei punti più evidenti che hanno determinato la crisi del partito. Non resta dunque che aspettare, anche se già molti nel Pd pensano che una nomina di emergenza e “a chiamata diretta”, senza quelle primarie che pur essendo un feticcio rappresentano comunque un passaggio imprescindibile delle regole del Pd, non può avere un mandato a lungo termine, che la celebrazione di un congresso è necessaria prima della scadenza naturale tra due anni, che un segretario scelto senza dibattito sul suo programma, semplicemente enunciato, senza l’offerta di una figura e di linee politiche differenti su cui confrontarsi, non può decidere sulle sorti del partito e dei suoi aderenti – tra i temi più caldi la composizione delle liste elettorali e la scelta tra sistema elettorale maggioritario o proporzionale -, e alla fine sulle sorti del governo e del Paese. C’è ancora da notare che nell’assemblea nazionale che ha incoronato Letta con un plebiscito, c’è stata una corsa – da qualcuno nel partito definita comica – a firmare l’appello a sostegno della sua candidatura, una unanimità poi tradottasi nel voto,  che autorizza più di un sospetto sul riposizionamento di molti esponenti di primo piano.  Non se la passano meglio gli alleati più stretti del Pd, i Cinquestelle, un’alleanza che, anche perché recente e ancora tutta da inventare, molti annoverano tra gli errori di Zingaretti.

Anche la crisi del partito di Grillo è acclarata, le espulsioni di coloro che non hanno votato la fiducia al governo Draghi si contano a decine, e le defezioni, ogni giorno ne arriva qualcuna, ormai non sono lontane da una cinquantina di parlamentari tra Camera, Senato e Parlamento europeo. E non molto si sa di chi se ne va tra i semplici militanti senza incarichi sparsi nella penisola. Si aggiunge poi l’iniziativa di Casaleggio con il suo manifesto Controvento destinato a scompaginare ulteriormente le collocazioni all’interno del partito, iniziativa che si lega al contenzioso anche economico a un passo dai tribunali riguardante la piattaforma Rousseau. Certo è che chi aveva aderito a un “movimento” che voleva annientare la vecchia politica è fortemente deluso. Grillo ora vuole rifondare la sua creatura, pensa a un partito di governo che abbandona la sua radicalità, un “partito verde” disponibile al confronto con gli altri e al compromesso. Naturalmente tutto questo snatura l’essenza dei Cinquestelle, giacché si tratta di tutt’altro modo di far politica, né più né meno di quella che può portare avanti un vecchio partito, appunto. Ma nel caso specifico si tratta di un partito “giovane”, al quale finora è andato un consenso di protesta “giovanile” anche indipendentemente dall’età dei suoi elettori, che precocemente invecchia. In sostanza, i Cinquestelle così come li abbiamo conosciuti fino a qualche tempo fa, prima di diventare governisti, non ci sono più. Ora Grillo vuole trasformare la sua invenzione politica che voleva spaccare il mondo in un partito moderato, un partito ecologista che poco o niente si cura delle battaglie radicali di protesta contro tutti sulle quali era nato e cresciuto. E per questa operazione si vuole affidare a quel Giuseppe Conte che in tempi non lontani aveva annunciato che la sua esperienza in politica si sarebbe chiusa con la fine del suo primo governo. L’ex Presidente del Consiglio, secondo i sondaggi, porterebbe ai Cinquestelle una dote personale tra il cinque e il sette per cento di voti, facendoli così risalire al venti per cento e oltre. Consensi che verrebbero drenati dal Pd. La nuova linea del partito dunque è decisa, ma l’operazione politica è ancora da inventare, come del resto da sperimentare è la resa elettorale di tale cambiamento.

Sussulti vengono registrati anche nella Lega, che il segretario Salvini in virtù della partecipazione al governo Draghi sta portando su posizioni moderate che tuttavia hanno delle variazioni, come degli alti e bassi, in base all’argomento di giornata. Dalla voce grossa ma non troppo sull’immigrazione, alle sollecitazioni per indennizzi subito per le perdite economiche causate dalle chiusure delle attività commerciali, al diverso parere sulle restrizioni per il contenimento dell’epidemia, si passa dai toni alti a quelli più misurati e concilianti. E in parallelo alti e bassi registra il consenso attribuito al Carroccio, che tuttavia nei sondaggi rimane sempre primo partito. All’elaborazione del nuovo corso della Lega al governo, si aggiunge la presunta svolta filoeuropeista, o pseudo tale, impressa al partito da Salvini nel volgere di una notte. Certo, stando al governo con Draghi l’incessante polemica anti europea del segretario della Lega con il suo acceso sovranismo doveva necessariamente diventare più sfumata, ma a questo nuovo atteggiamento è tutt’altro che estranea la figura del numero due della Lega, Giancarlo Giorgetti, che con il Mise ha conquistato uno di quei ministeri chiave che non possono essere guidati senza un ragionato confronto con l’Europa. E non solo, alla nuova politica europea di Salvini viene anche attribuito un progetto di lungo termine, una possibile futura adesione al Partito popolare europeo. Ma si tratta, appunto, di un eventuale termine a lunghissima scadenza, sempre che gli spostamenti progressivi verso una politica moderata abbiamo corso.Anche Forza Italia vive qualche disagio dovuto all’attribuzione dei ministeri a figure non propriamente allineate e di incarichi parlamentari che avevano diversi pretendenti che a loro dire avrebbero ricevuto promesse seppur vaghe da Silvio Berlusconi; il partito viene dato in buona salute dai sondaggi che gli attribuiscono l’otto e oltre per cento, ma tra i parlamentari scontenti si registra qualche defezione che potrebbe rendere instabile questo consenso. E all’interno fa anche discutere la composizione del vertice del partito, che passa da cinque componenti a quattordici ora riuniti in un Direttorio. 

L’unico partito che appare granitico è Fratelli d’Italia, anche se perfino qui si registra qualche voce dissonante timida e solitaria, molto ma molto meno di quel che si dice una minoranza, che fa sapere che tutto sommato sarebbe stato meglio tentare di raddrizzare qualche stortura dall’interno della maggioranza e dunque del governo, piuttosto che vedersi respingere regolarmente qualunque proposta o emendamento ritenuti anche di poco peso a leggi che fino a qualche settimana fa erano patrimonio comune della compagine di destra e financo di qualche settore dei partiti avversari. E ancora, la disponibilità di Fratelli d’Italia ad essere parte del governo Draghi, senza tralasciare l’effetto senso di responsabilità che poteva portarsi dietro nel sentimento di qualche parte di opinione pubblica – un orgoglioso “noi ci siamo” -, avrebbe potuto provocare veti ed effetti dirompenti su altre componenti della maggioranza fino a rendere difficile, se non impossibile, la nascita della grande coalizione, e dunque portare alla ricerca di altre soluzioni, con una destra decisamente protagonista nella compagine governativa.

Ma a giudicare dall’opinione derivata dai sondaggi il sessanta per cento degli italiani sembra ben disposta nei confronti del governo, e del resto non potrebbe essere diversamente se si considera che la compagine che sostiene la compagine di Palazzo Chigi non è lontanissima dal novanta per cento delle forze politiche – solo i bulgari nei tempi del socialismo reale sapevano fare di meglio. Potrebbe essere la classica luna di miele che non si nega a nessun governo. E anche i commentatori in larghissima maggioranza dànno credito all’esecutivo, anche se non manca un brusìo, per ora, ma in verità crescente, di lamentele per le nuove misure e restrizioni per cercare di contenere la crescente diffusione del virus. Da questo punto di vista niente di nuovo rispetto al recente passato, ad eccezione di alcuni aspetti del metodo: ancora decreti del presidente del consiglio in persona ma annunciati per tempo, assenza delle prolisse, retoriche e demagogiche – e in quanto tali offensive – comunicazioni del precedente capo del governo. Almeno ci si può consolare col metodo. Ma quello che ci si aspetta che cambi è, tra le tante cose, la tempestività e la generalità degli indennizzi per le mille piccole attività anche individuali o familiari allo stremo e per chi da dipendente da queste attività trae di che vivere.  

Al vertice delle attenzioni dei cittadini e del governo tuttavia c’è la questione dei vaccini, e in parallelo le decisioni definitive riguardanti la destinazione dei fondi del Recovery plan. Sulla disponibilità delle fiale antivirus e la capacità di iniettarle con efficienza e rapidità in tutte le latitudini della penisola l’esecutivo Draghi si gioca buona parte della sua credibilità. Non a caso già per un paio di volte il capo del governo ha ritenuto di bacchettare duramente la presidente della Commissione in persona che attraverso i suoi funzionari non ha saputo gestire i rapporti con le case farmaceutiche e con i singoli Paesi che si sono fidati della centralizzazione europea degli acquisti, salvo poi girarsi dall’altra parte quando gli Stati sono ricorsi al fai da te.  

Nino Battaglia
NinoBattaglia

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