Charlie Hebdo: dieci anni dopo, la satira blasfema vive sotto scorta in un bunker
(Parigi) – Un freddo pungente attanaglia le gambe e le mani delle decine di giornalisti e curiosi che s’affollano, dieci anni dopo, attorno a ciò che resta della redazione di Charlie Hebdo che un tempo sorgeva qui, in rue Nicolas-Appert, dove la mattina del 7 gennaio 2015 ha avuto luogo il più sanguinoso attentato contro la stampa mai visto in Francia.
Oggi la redazione non esiste più, la maggior parte dei giornalisti è stata decimata dal commando dei fratelli Kouachi che fece irruzione nella redazione del giornale satirico, giustiziando dodici persone e ferendone molte altre. Che fine ha fatto da allora Charlie Hebdo? Dopo il massacro, coloro che hanno deciso coraggiosamente di portare avanti il suo pesante fardello hanno dovuto abbandonare la vecchia redazione dell’XI arrondissement e andare a vivere e lavorare sotto scorta in una sorta di bunker in località ignota.
La paura
Dieci anni dopo, la mattina del 7 gennaio 2025, di buon’ora, mi reco presso l’edicola di un giornalaio del XIX arrondissement per acquistare il numero speciale di 32 pagine confezionato per il giorno del decimo anniversario del massacro della rue Nicolas-Appert. Ma non è semplice trovarlo. Malgrado la facciata buonista ed accondiscendente, alcune edicole preferiscono nascondere discretamente Charlie Hebdo sotto altri quotidiani e lo tirano fuori piegandolo verso l’interno solo se qualcuno chiede al giornalaio di acquistarlo. Temono forse ritorsioni, minacce, le coltellate di uno squilibrato? Dopo un paio di edicole a vuoto, mi affaccio ad un’edicola del quartiere Jourdain.
Ancora prima di entrare vedo il gestore che discute con una donna, probabilmente sua moglie. Riconosco l’accento algerino. Lui mi guarda, io con un filo di voce gli chiedo: “Avete Charlie Hebdo?”. Cala il gelo ed un certo imbarazzo. Guardo gli occhi di lui. Capisco immediatamente la sua posizione scomoda: schiacciato tra due mondi, apparentemente inconciliabili, il diritto alla blasfemia della società laica francese in cui vive, da un lato e le offese al Profeta che sono un’onta per la comunità musulmana di cui fa parte, dall’altro.
Dopo un attimo di silenzio, che sembra durare un’eternità, la donna accanto prende la parola: “Non lo abbiamo, monsieur, riprovi domani”. Il suo sguardo è duro e impaurito al tempo stesso. Mi rendo conto di quanto sia diventato difficile acquistare, leggere, condividere le idee di questo giornale. Resta, dieci anni dopo, una bomba ad orologeria per chiunque viva qui. Acquistarlo è problematico, leggerlo in pubblico lo è ancora di più. Lo trovo non a caso qualche centinaio di metri più in giù, a Place de la République, la piazza madre di tutte le battaglie politiche, la piazza del laicismo e del trionfo della ragione rappresentata dalla statua colossale della Marianne, allegoria della repubblica, che svetta in mezzo ai palazzi eleganti della città.
Ma dov’è oggi la redazione di Charlie Hebdo?
Dieci anni dopo l’attentato che ha massacrato dodici membri della redazione, Charlie Hebdo vive sotto scorta. La nuova sede parigina, trasferita nel settembre 2015, è un vero e proprio bunker: indirizzo tenuto segreto, porte blindate e sorveglianza armata 24 ore su 24. Ci sono ben settantotto agenti di polizia assegnati alla sicurezza del giornale. “È un fardello. Lo è sempre stato, inutile negarlo,” sbotta Riss, direttore di Charlie, in un’intervista al quotidiano parigino Le Parisien.
Sopravvissuto all’attacco, Riss porta ancora sul suo corpo le cicatrici fisiche e psicologiche di quell’attentato al quale è scampato per puro miracolo. Oggi Riss non può improvvisare ed è obbligato a seguire sempre un copione già scritto, di cui i registi occulti sono gli uomini della sua scorta. Ogni movimento deve essere pianificato nel minimo dettaglio. La vita quotidiana nella redazione di Charlie Hebdo poi è come la vita in una prigione di massima sicurezza. Ironia della sorte, la satira che avrebbe dovuto liberare la risata (“una risata vi seppellirà”, titolava trionfalmente il giornale), vive invece sotto scorta in una specie di Alcatraz del giornalismo. Fabrice Nicolino, uno dei sopravvissuti dell’attentato, non risparmia dettagli quando racconta il suo periplo per entrare al lavoro.
Prima, una massiccia porta di metallo. Poi, una camera di compensazione. E poi un’altra porta blindata, un’altra camera di compensazione, e così via. L’ultimo ostacolo è una stanza brulicante di poliziotti armati fino ai denti, come in un film di guerra. “Non conto nemmeno più quante porte devo attraversare: sei? Sette? È surreale,” racconta Nicolino a Franceinfo. E non finisce qui. Solo alla fine di questo percorso labirintico si arriva agli uffici e, ironia della sorte, è qui che si riesce a respirare e a ridere, si fa per dire.
Una redazione tagliata fuori da tutto
La sede di Charlie Hebdo è un luogo senza finestre, senza luce naturale, senza un vero contatto con il mondo esterno. I giornalisti sono tagliati fuori da tutto e tutti, vivono come in una bolla sospesa al di sopra della citta’, al di fuori della societa’ che pure aveva prodotto gli anticorpi al dogmatismo e al fanatismo. Oggi questi caricaturisti, vignettisti e giornalisti sono costretti alla clandestinità, se escono sono obbligati a girare in auto blindate, come se fossero pentiti di mafia.
Ogni evento pubblico diventa una sorta di operazione militare. Il prezzo da pagare non è solo emotivo: nel 2019, il costo della sicurezza era stimato in 1,5 milioni di euro l’anno, interamente a carico del giornale. In redazione, esiste persino una panic room.
E fuori da Charlie, che scrive e disegna in loculi di cemento armato sotterraneo senza finestre, cosa succede invece? Non tutto sembra perduto, scrive il direttore della testata Gérard Biard all’interno del numero speciale che apro e sfoglio soltanto quando sono a casa, dopo aver chiuso meticolosamente le tende. E ricorda numeri confortanti. Quelli di un sondaggio Ifop per la Fondation Jean-Jaurès e Charlie Hebdo che dipinge un quadro a tratti sorprendente.
Il diritto alla caricatura
Nonostante il clima teso, il diritto alla caricatura gode ancora di un solido consenso in Francia. Secondo il sondaggio, il 76% dei francesi considera la libertà di espressione un diritto fondamentale, comprensivo del diritto alla caricatura, rispetto al 58% del 2012. Un balzo sorprendente di quasi 20 punti, segno che le minacce contro la libertà di espressione hanno innescato una reazione a catena, una recrudescenza di liberta’, una nuova consapevolezza.
Anche il diritto alla blasfemia, ricorda Biard, registra un balzo significativo: il 62% dei francesi lo sostiene oggi, rispetto al 50% di cinque anni fa. Insomma per Biard i numeri parlano chiaro: contestare i dogmi, qualunque sia la loro origine, resta in Francia un valore condiviso. E Charlie Hebdo? Il sostegno alla sua linea editoriale resta solido. Il 55% dei francesi ritiene giustificata la pubblicazione delle caricature di Maometto, contro il 51% del 2012.
Dieci anni dopo il massacro di Charlie Hebdo dunque, nonostante le pressioni identitarie e religiose, la maggioranza dei francesi difende ancora il diritto alla caricatura e alla blasfemia, consapevole che queste libertà sono il cuore della democrazia francese. Questa consapevolezza però ha un prezzo altissimo. Ed è quello pagato dai giornalisti assassinati e da coloro che oggi portano avanti la missione sacrificale del giornale satirico: ridere di tutto, ridere per smascherare l’ignoranza, il dogmatismo, l’arroganza, il fanatismo.
È difficile essere amati dai cretini
Come ricordava il vignettista satirico Cabu nella celebre copertina di Charlie Hebdo: “È difficile essere amati dai cretini”. Ma è proprio questa lotta per la libertà che, nonostante i disaccordi, continua a unire la maggioranza dei francesi. Ritrovo un simbolo di questa lotta nella stessa rue Nicolas-Appert, la strada che fu teatro del massacro del 2015: gli ex-uffici della redazione di Charlie Hebdo non sono stati abbandonati al loro destino.
Ospitano oggi una scuola per la formazione della polizia municipale, un simbolo di rinascita voluto dagli stessi sopravvissuti: “Quei luoghi devono continuare a vivere”. E saranno allo stesso modo dei luoghi, ultra-sicuri e blindati, loculi senza finestre di una fortezza sotterranea degna di un romanzo da guerra fredda, a far vivere ciò che resta della satira in Francia. In trincea, insomma, ma col sorriso sulle labbra.
Giornalista professionista ed autore. Dopo la laurea in filosofia all’Università di Napoli ed un Master in filosofia alla Sorbona di Parigi lavora per l’agenzia nazionale ANSA, al desk di ANSAmed. Ha collaborato per ResetDoc e Gruppo Espresso. Da Parigi scrive per Strumenti Politici, Micromega, Linkiesta, Pagina99, The Post Internazionale, Atlantico, Valigia Blu, Focus On Africa, Imbavagliati.it, Articolo 21. Nel 2012 ha pubblicato un libro sulla censura in Turchia dal titolo « Sansür: Censura. Giornalismo in Turchia » (Bianca&Volta) che nel 2015 s’aggiudica un premio al Concorso Internazionale Giornalisti del Mediterraneo di Otranto. Nel 2016 per il suo libro « Medin. Trenta Storie del Mediterraneo » (Rogiosi), s’aggiudica il Premio di Letteratura Mediterranea Costa d’Amalfi Libri 2016. Dal 2016 coordina con la giornalista Désirée Klein il Festival Internazionale di Giornalismo Civile “Imbavagliati” al PAN di Napoli. Oggi lavora a Parigi presso l’agenzia stampa Kantar per conto della Commissione Europea, la NATO ed il ministero degli interni francese.