Al lento logoramento politico del Governo ‘dell’indispensabile’ Draghi ora si somma l’attacco dei sindacati

Al lento logoramento politico del Governo ‘dell’indispensabile’ Draghi ora si somma l’attacco dei sindacati

15 Dicembre 2021 0

Una stagione politica completamente nuova, carica di variabili e di incognite, quella che si apre in queste prossime settimane. Si può dire che salvo qualche eccezione – e in quanto tale rara – è sempre stato un po’ così fin dagli albori della Prima Repubblica, con maggioranze e governi che hanno vissuto i loro giorni, più che i loro anni, nel segno di una sostanziale instabilità e precarietà, e questo momento politico rientra a pieno titolo nella lista delle più tormentate per i nodi che in breve tempi, non di più di un paio di mesi, dovranno essere sciolti. In primo piano si staglia il fattore che dà il senso della complessità della situazione: l’elezione del Capo dello Stato ormai alla vigilia. Un rebus, quest’ultimo, che se ne porta dietro almeno altri due: la necessità di una nuova maggioranza con un nuovo governo, e anche se fosse una riproposizione della formula per così dire uscente si dovrebbero rivedere i programmi e gli stessi motivi che terrebbero insieme i partiti, e la durata della legislatura. E il tutto condizionato anche dall’andamento dell’epidemia, con la nuova recrudescenza dei contagi e la conseguente proroga di altri tre mesi dello stato di emergenza, situazione sanitaria che a sua volta è in grado di incidere sulla tenuta dell’economia, peraltro ormai da settimane ritenuta in congiuntura favorevole. 

È un fatto ormai evidente che la larghissima compagine governativa, con l’uomo che da Palazzo Chigi la guida, abbiano subito un logoramento che per molti osservatori segna una sorta di fine corsa. E dopo diversi momenti di tensione, il più eclatante dei quali (accanto ad altri meno clamorosi risolti con colloqui informali tra il capo del governo e qualche partito in vena di obiezioni) è stato quello che aveva visto la Lega di Matteo Salvini minacciare di disertare il Consiglio dei Ministri che si apprestava a introdurre il cosiddetto super green pass, proposito leghista poi accantonato. E così è arrivato il primo vero strappo tra la maggioranza e Draghi, che sul contributo di solidarietà di fronte alla netta posizione contraria di Lega, Forza Italia e Italia Viva per la prima volta si è trovato in minoranza e ha dovuto cedere. E questo caso ha segnato anche una spaccatura per così dire “ufficiale” tra le due componenti della maggioranza, la parte destra, alla quale si è arruolato in questa occasione che forse ne prelude altre anche il piccolo ma importante partito di Renzi, contro la parte sinistra di Pd, Leu e Cinquestelle – il partito di Grillo, Conte e Di Maio ormai dice di essere di sinistra e bisogna credergli. Lo scollamento, che peraltro arrivava da lontano, a questo punto è risultato chiaro. 

E ad aggiungere elementi di tensione in una situazione politica già compromessa è arrivato anche lo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil, dal quale si è tirata fuori la Cisl. Con il risultato, quello dello sciopero, di una spaccatura profonda anche nel sindacato. Il contributo di solidarietà è stato comunque soltanto un casus belli, giacché tante sono le critiche delle organizzazioni sindacali alla manovra di bilancio e alla politica economica del Governo, in un elenco che vede insieme innumerevoli temi quali fisco per lavoratori e pensionati, sanità, contratti pubblici, caro bollette, politiche sociali, pensioni. Ma c’è da notare un dettaglio: il capo della Cgil Landini si è premurato di precisare che lo sciopero non è propriamente contro il governo nel suo insieme e in tutte le sue componenti, e tantomeno contro il presidente Mario Draghi, ma contro i partiti. E – è appena il caso di dirlo – solo contro quelle forze politiche che non hanno voluto quel provvedimento: la destra, naturalmente. Un’operazione politica non particolarmente raffinata e tuttavia utile alla causa della sinistra, o pseudo tale, che cerca di non perdere occasioni per dare addosso a quelle famiglie che del tutto impropriamente quanto sconsideratamente agli occhi di chi stenta ad arrivare alla fine del mese vuol far passare per ricche. Draghi “il buono” si è detto sorpreso della proclamazione dello sciopero generale, pur sapendo che non è contro di lui. Insomma non se l’aspettava: sciopero ingiustificato e immotivato, ha detto. E perfettamente consapevole che la giornata di astensione dal lavoro non cambierà le cose, comunque non più di tanto (qualcosa tuttavia dovrà pur “concertare” con Cgil e Uil, naturalmente senza escludere la Cisl)  non fa mancare ai due sindacati di lotta il suo conforto convocandoli, certo, ma dopo la giornata di sciopero. E intanto il premier ha un altro fronte sul quale impegnarsi, quello dei partiti, in questo caso tutti, naturalmente compreso l’unico partito di opposizione, Fratelli d’Italia. E tutti in Parlamento avanzano richieste di modifiche alla legge di bilancio, ognuno tirando la coperta, peraltro cortissima, dalla sua parte, e rivendicando l’accoglimento di proprie proposte soprattutto in presenza dell’accettazione da parte di settori del governo di modifiche sollecitate da altri partiti. 

Ma se questa diciamo dialettica, per usare un eufemismo, sulla legge di bilancio poteva essere considerata relativamente normale quando in altre passate stagioni politiche le parti di maggioranza e opposizione erano ben distinte e sancite dal voto degli elettori, qui siamo in presenza di un paradosso in cui favorevoli e contrari, appunto maggioranza e opposizione, sono nello stesso governo. E a questa situazione politica con rari precedenti, si aggiungono le posizioni critiche sulla legge finanziaria delle associazioni degli imprenditori, in molta parte speculari a quelle dei sindacati, con l’aggiunta dell’accusa al governo di un’insufficiente attenzione per la tassazione sulle imprese e per il conseguente loro sviluppo. Manovra espansiva, coraggiosa, si dice da una parte; no, è una manovra notarile, senza ambizioni, si risponde dall’altra. Con l’aggiunta che “una parte” e “l’altra”, hanno i confini talmente contigui e sfumati al punto di confondersi. Una strada molto accidentata, dunque, quella che sta faticosamente percorrendo l’atto politico più importante dell’anno, con i tempi strettissimi nei quali deve essere approvato. Una situazione che riflette il clima politico che si vive da tempo, con i partiti in una perenne competizione che include gli scontri più duri, sollecitata anche dai sondaggi ora in rialzo e ora in ribasso, con spostamenti di pur significativi decimali, ora incoraggianti e ora deprimenti: Pd primo partito ormai da diverse settimane e in ulteriore ascesa, seguito da Fratelli d’Italia e dalla Lega a loro volta in recupero, così come Forza Italia, mentre in forte calo viene dato il partito dei Cinquestelle, che ormai da mesi si trova nel pieno del guado rappresentato dalla guida di Giuseppe Conte, con i parlamentari divisi e Beppe Grillo e Luigi Di Maio che dietro le quinte spesso dettano la linea.           

Ma in queste settimane la competizione prevede una delle poste più alte, l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Politici e osservatori di lunga esperienza prevedono che il nome del nuovo Capo dello Stato verrà fuori nella notte di vigilia della votazione decisiva, e così alla fine sarà, ma ormai da tempo si discute di candidature più o meno fondate. Sergio Mattarella ha ribadito la sua indisponibilità, a quanto pare definitiva, per un nuovo settennato e tantomeno per una rielezione con la scadenza di un anno o poco più, giusto il tempo per arrivare alle elezioni del 2023, il termine della legislatura a sua volta incerto, giacché nessuno oggi può escludere una chiamata alle urne anticipata. Indisponibile, si dice Mattarella, nonostante quel “bis” urlato all’inaugurazione della stagione alla Scala, molto imbarazzante, più degno di un circo che di quella sceltissima platea, con tutto il rispetto per gli artisti circensi e il loro più che rispettabile pubblico. Eppure un ripensamento del Presidente uscente viene ritenuto ancora possibile, soprattutto se si dovesse determinare o un lungo stallo del Parlamento a Camere riunite, o viceversa una sorta di acclamazione alle primissime votazioni. Certo è che è apparsa quantomeno ingenua, se non fosse venuta da esponenti del Pd considerati esperti del ramo, o peggio furbesca, quella proposta di lanciare, a futura memoria, una riforma della Costituzione volta a escludere la possibilità di rielezione del Presidente della Repubblica e di abolire il semestre bianco. Come se una tale idea potesse convincere Mattarella a restare. Una mossa infelice che se presa sul serio – tant’è che non se n’è più parlato –  offenderebbe l’intelligenza dell’inquilino uscente del Quirinale, e quella di tanti altri, e che ha rivelato apertamente il fatto che il Pd, con l’intera sinistra più o meno “larga”, da una parte non ha un proprio candidato credibile, e dall’altra ha il fondato timore di perdere lo scranno più alto della Repubblica, ancora considerato cosa propria. 

L’opzione Draghi appare a tanti la più percorribile, dotata del più ampio consenso, eppure carica di molti noti, per così dire, inconvenienti che si possono riassumere con l’esigenza in una fase così difficile e complessa di una continuità di sua guida autorevole e prestigiosa del Paese da Palazzo Chigi. Il trasloco al Quirinale dell’attuale presidente del Consiglio si porterebbe dietro una tale mole di conseguenze, prevedibili e non, che lasciano poco spazio all’immaginazione. Beati quei Paesi che non hanno bisogno di uomini indispensabili, vien fatto di pensare: e purtroppo in questo lungo momento l’Italia non sembra essere tra quei beati. E allora, hanno più di una ragione coloro che vedono Draghi saldamente fermo dov’è ora. Dalla destra, seppure ancora senza l’unità e granitica convinzione lancia il nome di Silvio Berlusconi e i conteggi nei quali si esercitano gli esperti dicono che se si arriverà alla quarta votazione, quando potrà bastare la maggioranza semplice, potrebbe farcela. Da molte parti si auspica che il nuovo Presidente della Repubblica sia espressione di un vasto consenso. Sbaglia, tuttavia, chi parla di “risarcimento” e chi parla di “patriota”. Non può essere né l’uno e né l’altro l’approccio per individuare la figura del Capo dello Stato. Basterebbe semplicemente che, chiunque sia, mettesse in un cassetto la tessera del suo partito, che ce l’abbia oppure no, e la riprendesse solo dopo sette anni.              

Nino Battaglia
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