Washington Post ammette: le sanzioni USA causano danni e confusione pure in USA e in Occidente, senza portare alcun risultato utile

Washington Post ammette: le sanzioni USA causano danni e confusione pure in USA e in Occidente, senza portare alcun risultato utile

5 Agosto 2024 0

Una lunga analisi condotta da Washington Post rivela risultati sconcertanti a proposito dello strumento di coercizione americano per eccellenza: le sanzioni. La politica estera di presidenti sia repubblicani che democratici si è basata per decenni sul sistema delle sanzioni contro i soggetti sgraditi in giro per il mondo. Eppure finora nessuno degli avversari colpiti è caduto, anzi alcuni sono sopravvissuti alle raffiche sanzionatorie e in certi casi si sono pure rinforzati. Cuba, Siria, Iran e Russia sono esempi lampanti. Nell’ottica americanocentrica in cui chi gli Stati che non aderiscono all’ordine mondiale a guida USA vengono automaticamente descritti come “dittature” e “regimi autoritari”, lo Washington Post ha osato portare alla luce la parte scomoda di questa visione.

Qualche piccolo esempio

– Cuba: le sanzioni imposte dagli USA più di 60 anni fa non sono riuscite a far crollare il regime comunista. In compenso hanno reso più difficile far arrivare sull’isola medicinali fondamentali.

– Iran: le sanzioni americane cominciate negli anni ‘70 non hanno tolto di mezzo i governanti teocratici, ma hanno spinto il Paese a creare strette alleanze con Russia e Cina.

– Siria: il “dittatore” Bashar al-Assad è ancora al potere nonostante 20 anni di sanzioni. Il suo Paese sta cercando di ricostruirsi dopo la guerra civile e per quest’anno si prevede che il numero più alto di sempre di siriani necessiterà di assistenza umanitaria.

Paese dopo Paese, le sanzioni sono emerse come lo strumento cruciale della politica estera americana. Oggi gli USA impongono sanzioni tre volte tanto rispetto a qualunque altro Stato o ente internazionale, colpendo un terzo dei Paesi del mondo con un qualche genere di penalità finanziaria contro individui, proprietà o organizzazioni. Le sanzioni sono divenute una sorta di arma automatica di una perenne guerra economica. Il loro utilizzo eccessivo è riconosciuto anche agli alti livelli del governo. Tuttavia, i presidenti americani trovano questo strumento sempre più irresistibile.

Il contenuto e le finalità delle sanzioni

Isolando i propri obiettivi dal sistema finanziario occidentale, le sanzioni possono piegare le industrie nazionali, erodere i patrimoni personali e far saltare gli equilibri del potere politico di regimi turbolenti, senza mettere in pericolo un solo soldato americano. Eppure, nonostante il proliferare delle sanzioni, sono cresciuti i dubbi sulla loro efficacia. A Washington, l’aumento delle sanzioni ha generato un settore multimiliardario. I governi stranieri e le multinazionali spendono somme incredibili per influenzare il sistema, mentre i gruppi di giuristi e di lobby hanno istituito pratiche sempre maggiori, in parte invitando funzionari governativi a impiegare le proprie conoscenze.

Altrove le sanzioni hanno spinto i regimi autocratici verso il mercato nero, sfruttando le reti criminali e le gang di contrabbandieri. Gli avversari degli USA si stanno impegnando sempre di più e collaborano per aggirare le penalità finanziarie. E proprio come per le operazioni militari, la guerra economica può provocare danni collaterali: le sanzioni al Venezuela, ad esempio, hanno contribuito a una contrazione di circa tre volte quella che causò negli USA la Grande Depressione.

Le sanzioni – o la minaccia delle stesse – può essere uno strumento politico efficace, un modo per punire un comportamento negativo o per fare pressione su un avversario senza ricorrere alla forza miliare. Le sanzioni hanno consentito ai governi americani di prendere una posizione di valenza morale ed economica contro gli autori di crimini di guerra. Hanno aiutato a mettere fine all’apartheid in Sudafrica e hanno agevolato il rovesciamento del dittatore serbo Slobodan Milosevic. E anche quando falliscono, sono comunque preferibili al non fare nulla o all’andare in guerra: così dicono i loro propugnatori.

Inefficacia ormai evidente

La Corea del Nord è sotto sanzioni da più di mezzo secolo, eppure non si sono fermati gli sforzi di Pyongyang di acquisire capacità militari nucleari e missili balistici intercontinentali. Le sanzioni americani al Nicaragua hanno fatto ben poco per indebolire il regime autoritario del presidente Daniel Ortega. Due anni di sanzioni contro la Russia a seguito dell’invasione dell’Ucraina hanno danneggiato le sue prospettiva economiche di lungo periodo e aumentato i costi della sua produzione bellica, ma hanno anche dato luogo a una “flotta fantasma” di navi che trasportano il petrolio aggirando le regole internazionali e hanno spinto il Cremlino a una solida alleanza con Pechino.

L’allarme sull’eccessivo ricorso alle sanzioni si è sentito fino ai più alti livelli del governo americano. Alcuni funzionari dell’attuale amministrazione hanno apertamente detto al presidente Biden che l’abuso rischia di rendere lo strumento meno efficace. Però, nonostante tale ammissione, il governo USA tende a giustificare ogni singola misura, rendendo così difficile fermare la tendenza. Quest’anno gli Stati Uniti stanno nuovamente imponendo sanzioni a un ritmo da record, con più del 60% di tutti i Paesi a basso reddito che si trovano sotto una qualche forma di penalità finanziaria.

I problemi del Dipartimento del Tesoro

Le sanzioni sono l’unica cosa che sta in mezzo tra la diplomazia e la guerra e come tale è divenuta lo strumento principale della politica estera americana, afferma Bill Reinsh, ex funzionario del Dipartimento del Commercio e oggi a capo dello Scholl Chair per gli studi di business internazionale allo CSIS (Center for Strategic and International Studies), think tank di Washington. Reinsh aggiunge: Purtuttavia nessuno al governo è sicuro che l’intera strategia stia effettivamente funzionando.

Nel 2014 l’invasione e l’annessione della Crimea costituirono per il Dipartimento del Tesoro una sfida enorme. Mentre Paesi come la Corea del Nord e l’Iran erano visti come serie minacce alla sicurezza nazionale, nessuno pensava che fossero parti integranti del sistema finanziario globale. Ora invece il Tesoro doveva confrontarsi con una delle dieci maggiori economie del mondo. Una mossa sbagliata poteva scuotere alle fondamenta i mercati internazionali.

Funzionari in crisi

I suoi funzionari, che di solito lavoravano lontano dai riflettori, ora prendevano consigli direttamente dai funzionari di Gabinetto, che a loro volta sentivano il parere degli amministratori delegati delle grandi aziende di Fortune 500 e dei capi delle banche di Wall Street. Le sanzioni erano così improvvisamente una caratteristica chiave nella rinata competizione fra le grandi potenze di Washington, Pechino e Mosca. Ricevevamo richieste e opinioni praticamente da qualsiasi elemento del governo. Ci dicevano “Perché non avete imposto sanzioni su questa o quella persona? E cosa farete con quegli altri? È questa la testimonianza di Adam M. Smith, funzionario di alto grado dello Office of Foreign Assets Control (OFAC) e direttore per gli affari multilaterali del Consiglio di sicurezza nazionale sotto l’amministrazione Obama. Non importava se fossero Democratici o Repubblicani; il loro ragionamento era sempre lo stesso: “Perché non continuare a imporre sanzioni?”.

I funzionari del governo iniziarono a notare dei problemi con nuovo complicato regime del Tesoro. Le sanzioni alla Russia che andavano a colpire gli alleati del presidente Putin e le banche statali parevano non fare effetto sul controllo della Crimea. I leader europei si arrabbiano a proposito delle multe imposte alle loro banche. I potenti broker di Wall Street mugugnavano per i costi di adeguamento ai nuovi e confusi regolamenti. Il numero di enti sanzionati sembrava aumentare troppo in fretta e l’OFAC non riusciva a stare al passo. Certi dettagli disorientavano e venivano chiesti chiarimenti, mentre triplicavano le cause intentate contro l’Agenzia. Si intensificava anche il ricambio dello staff, perché la posta in gioca spingeva i funzionari del Tesoro a fuggire nel settore privato, dove la paga era quattro volte tanto i loro guadagni.

Faranno a meno del dollaro!

Sorse però un problema esistenziale ancor più serio: il potere delle sanzioni sta nel negare agli attori stranieri l’accesso al dollaro. Ma se le sanzioni rendono rischioso dipendere dal dollaro, allora i Paesi possono trovare altri modi per commerciare che permettano di scansare completamente le penalità imposte dagli USA. Nel marzo 2016 il segretario del Tesoro dell’amministrazione Obama Jack Lew ammonì pubblicamente che le sanzioni si stavano spingendo troppo oltre, col rischio che il loro abuso alla fine potesse ridurre la nostra capacità di utilizzare efficacemente le sanzioni. Tuttavia la nuova amministrazione Trump trovò nuovi sbocchi a questa arma finanziaria e applicò più sanzioni di sempre. Da presidente, Trump le usò come punizione in modi mai concepiti prima, ad esempio contro funzionari della Corte Penale Internazionale dopo che avevano aperto un’inchiesta per crimini di guerra sulle truppe americane in Afghanistan.

L’amministrazione Trump ha colpito pure il Venuezela con sanzioni molto dure, cercando di screditare la dittatura di Maduro e incoraggiare un movimento di opposizione. Ma queste pene fallirono: oggi sono spesso accusate di aver inasprito uno dei peggiori collassi economici in tempo di pace della storia moderna. L’abuso di questo metodo è ridicoloso, ma non è colpa del Tesoro o dell’OFAC, che sono composti da ottimi professionisti i quali si vedono gettare addosso tutto il lavoro politico. Anzi costoro vorrebbero un sollievo da tale inarrestabile sistema senza fine, che dice loro, a volte letteralmente, di “sanzionare tutti e ciascuno, e pure le loro sorelle”, sostiene Caleb McCarry, ex membro di alto grado della Commissione relazioni estere del Senato ed ex capo della sezione politica di Cuba del Dipartimento di Stato sotto l’amministrazione di Bush senior. È una pratica estremamente abusata, finita fuori controllo, dice.

Progetti di riforma

I programmi di riforma sono stati accantonati. Prima dell’inaugurazione di Biden si era creato un consenso all’interno del team transitorio sul fatto che qualcosa dovesse cambiare. Nell’estate del 2021, cinque membri del Tesoro elaborarono una bozza interna con la proposta di ristrutturare il sistema sanzionatorio. Secondo due dei membri coinvolti, era lunga circa 40 pagine e avrebbe rappresentato il maggiore rinnovo sostanziale fatto in decenni. Ma proprio come per le tre amministrazioni precedenti, anche il team di Biden trovò difficile abbandonare la posizione di potere.

I funzionari del Tesoro videro i propri capi eliminare parti cruciali del loro piano, compresa quella che avrebbe creato un coordinatore centrale, dissero coloro che conoscevano bene il documento e che parlano in anonimato per riferire colloqui riservati. A ottobre del 2021 il Tesoro rilasciò pubblicamente il suo “2021 Sanctions Review”, la sua bozza da 40 pagine che era stata ridotta a 8 e che conteneva i consigli più innocui del precedente documento. Due dei funzionari che conoscono la questione accusano i dissidi interni col Dipartimento di Stato per l’ampiezza dei cambiamenti e dicono che anche la dirigenza del Tesoro si oppose alle revisioni. Uno dei portavoce del Dipartimento di Stato non ha voluto rilasciare commenti in merito.

Quattro mesi dopo, le truppe russe entravano in Ucraina e Biden scatenava una raffica di oltre 6mila sanzioni in due anni. E non solo contro la Russia: l’amministrazione Biden ha imposto penalità anche a obiettivi come i coloni israeliani della Cisgiordania, ex funzionari governativi dell’Afghanistan, presunti trafficanti di fentanyl in Messico e un’azienda di spyware della Macedonia del Nord. Intanto le sanzioni che Biden aveva promesso di allentare, ad esempio quelle imposte da Trump su Cuba, venivano in larga parte mantenute, su pressione di Capitol Hill, nonostante gli alti funzionari pensassero che l’embargo fosse controproducente e fallimentare.

Palliativi

L’amministrazione Biden ha intrapreso dei passi per mitigare questi effetti involontari. L’anno scorso il Tesoro ha annunciato di aver ingaggiato degli economisti per creare un nuovo ufficio che studi l’impatto economico delle sanzioni. Le associazioni umanitarie hanno lodato gli sforzi di Biden per garantire l’accesso di cibo e forniture mediche essenziali nei Paesi sanzionati. E comunque alcune delle peggiori paure dei critici non si sono materializzate: il dollaro è rimasto la valuta di riserva principale del mondo, almeno per ora. Le sanzioni sono un mezzo importante per agevolare l’implementazione di una più larga strategia di politica estera, ha affermato in un comunicato il vicesegretario al Tresoro Wally Adeyemo. La 2021 Treasury Sanctions Review rappresenta un’importante mappa per il percorso di affinamento di questo nostro importante strumento.

Tuttavia ci sono altri problemi che sembrano peggiorare. I funzionari attuali e quelli precedenti descrivono il carico di lavoro dell’OFAC come “schiacciante”, con l’Agenzia che viene inondata di decine di migliaia di richieste dal settore privato. Due soggetti informati, che hanno accettato di parlare a condizione di rimanere anonimi, hanno rivelato che dalla Casa Bianca hanno appaltato le discussioni sulla sicurezza nazionali alle organizzazioni no profit, immaginando scenari in cui le sanzioni siano state massicciamente incrementate contro gli avversari degli USA. Alla fine del 2022, alcuni consiglieri della Casa Bianca hanno discusso sulla riforma del sistema sanzionatorio americano.

Una mentalità distorta

In colloqui a porte chiuse in cui è intervenuto anche Biden si è parlato della necessità di impostare linee guida sul modo di governare l’economia, compresa la limitazione del ricorso alle sanzioni a casi in cui “siano minacciati i principi internazionali essenziali che sorreggono la pace e la sicurezza”, dice uno dei partecipanti. Quelle idee, però, sono state accantonate di fronte a richieste più pressanti. A Washington la mentalità, dire quasi un bizzarro riflesso, è diventata questa: se succede qualcosa di brutto da qualche parte nel mondo, gli USA sanzioneranno delle persone. E ciò non ha alcun senso, afferma Ben Rhodes, ex vice consigliere sulla sicurezza nazionale dell’amministrazione Obama. Non pensiamo agli effetti collaterali della sanzioni nella stessa maniera in cui pensiamo ai danni collaterali di una guerra.

Redazione Strumenti Politici
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