“Storia del mondo post-occidentale. Cosa resta dell’età globale?” Recensione del nuovo libro di Eugenio Capozzi

“Storia del mondo post-occidentale. Cosa resta dell’età globale?” Recensione del nuovo libro di Eugenio Capozzi

11 Giugno 2023 0

L’autore, ordinario di Storia contemporanea presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, ragiona senza censure sulla crisi della globalizzazione, e con realismo – senza le odierne polarizzazioni da stadio – constata che l’esito della cosiddetta età della globalizzazione non è stato quello che osservatori, élite e classi dirigenti occidentali si aspettavano.

Il libro è la risposta a interrogativi che, da tempo, chi non ha visioni fortemente ideologizzate si pone: dopo la caduta del muro di Berlino, nel novembre 1989, che cosa è stato il mondo globalizzato, che cosa ne è oggi, come è cambiato il nostro modo di vedere i processi di globalizzazione, e soprattutto che fine hanno fatto questi processi: continuano, sono finiti, sono cambiati?In esso, l’autore spiega bene come la “storia non sia finita”; anzi, come essa si sia ripresentata, e con essa le nazioni, gli imperi, le incertezze economiche e geopolitiche. La cosiddetta civiltà occidentale è passata dall’avere davanti, nella fase post guerra fredda, una prospettiva di egemonia mondiale a una sua non realizzazione, almeno nei termini in cui molti si aspettavano si realizzasse.

Lo scontro tra le civiltà, intravisto da Samuel Huntington non è stato fugato, giacché “al di sotto dei conflitti ideologici, tra anni Sessanta e Novanta (e oltre), tutti interni all’occidente, sotto l’oceano della storia, c’è un fondo roccioso resistente, che è il confronto tra identità diverse”. Storia del mondo post-occidentale è un’importante affresco di storia delle culture, al cuore del quale si trovano alcune fondamentali categorie storiografiche e politologiche, che il prof. Capozzi adotta alfine di analizzare il corso degli eventi degli ultimi decenni. Le categorie alle quali fa riferimento sono la globalizzazione, l’unipolarismo, il bipolarismo, il multipolarismo, la global polity e il mondo post-occidentale.

Al centro del saggio vi è la tesi secondo cui la globalizzazione avrebbe mandato in crisi l’idea stessa di occidente, e come? Lo avrebbe fatto attraverso una serie di elementi, quali ad esempio la concentrazione di potere nelle mani dei grandi oligopolisti dell’industria digitale (leggasi Gafam: Google, Amazon, Apple, Meta Platforms e Microsoft), lo strapotere della tecnoscienza che ha favorito la formazione di governi tecnocratici, la secolarizzazione radical che promuove una pedagogia del politically correct e tendenze censorie come quelle della cancel culture o del woke capitalism, fino a giungere ad un ambientalismo della decrescita, contraria allo sviluppo economico, anche quando è rispettoso della persona umana.

La dimensione post-occidentale

Attira l’attenzione uno degli argomenti addotto da Capozzi a sostegno della sua tesi, ossia la consapevolezza di essere ormai entrati in una dimensione “post-occidentale”, poiché l’aspirazione universalistica appare sempre meno realistica, di fronte alla tendenza ad un riequilibrio politico e culturale generale tra occidente e tutto il resto del mondo. Il che negherebbe non solo la “fine della storia” (No, Fukuyama non ha ragione) bensì parimenti la fine dello stesso processo di globalizzazione, intesa come progressiva interdipendenza nel campo politico, economico e culturale, e l’inizio di un altro processo, definito “de-globalizzazione”.

La “fine della storia”, che è da intendere come capolinea dei conflitti ideologici, e momento nel quale si sarebbe finalmente realizzata l’universalizzazione del modello occidentale, fondato su diritti umani, individualismo, economia di mercato, pluralismo, democrazia temperata dalle Costituzioni; essa, dunque, non è si è concretata e lo si poteva già capire sul finire degli anni Novanta, ma si dovette aspettare il 2001, annus horribilis, quello degli attentati islamisti alle Torri Gemelle di New York, per capirlo definitivamente.

“De-globalizzazione” che ha favorito e sta favorendo la «riaggregazione di una pluralità di spazi di condivisione economica e politica, non integrati tra loro». Si pensi, ad esempio, alla Cina, all’India, alla Russia, ai paesi islamici, all’America latina. La nozione di “Grandi spazi”, certo non molto rassicurante, e teorizzata da Carl Schmitt, sembra farsi largo, presentandosi come superamento della forma Stato e come rimedio ad un astratto universalismo liberale.

“Spartiacque divisivi”

La consunzione di un certo ordine internazionale unipolarista, e cioè quello che ha visto, da dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti quali attori protagonisti, e la fine di un multipolarismo “non sistemico”, hanno favorito il processo di de-globalizzazione, sviluppatosi nel trentennio successivo alla fine della guerra fredda. Ciò ha spinto Capozzi ad immaginare una nuova sistemazione fondata su differenti “spartiacque divisivi”, accomunati dal ridimensionamento dell’occidente e dall’emergere di culture che, sebbene nascano dal ventre occidentale, si contraddistinguono per una radicale critica alla sua cultura tradizionale.

È il caso, ad esempio, della cosiddetta “utopia diversitaria”, così definita dal sociologo Mathieu Bock-Côté, che raccoglie una pluralità di matrici culturali che vanno dall’esistenzialismo di Sartre agli epigoni della Scuola di Francoforte, dal post-strutturalismo di Jacques Derrida alla critica di Michel Foucault.

Un “diversitarismo”, afferma l’autore, che vede “nell’assenza di una verità e di un’identità universalmente condivisibile il fine della storia umana”. È Il tema dell’età dell’incertezza di cui parlava Christopher Lasch quando teorizzava, trent’anni fa, la ribellione delle élite e la conseguente disgregazione delle società occidentali, per cui da una parte abbiamo una élite autoreferenziale e dall’altra un popolo senza orientamento politico e culturale.

Classi dominanti che percepiscono se stesse come lontanissime dalla “mentalità della plebe”, espressione quest’ultima di un mondo ancora “primitivo”, da “convertire” attraverso una supponente “pedagogia civile”, intrisa di secolarizzazione radicale e di relativismo estremo, dai quali sono nati il wokismo, il politicamente corretto e la cancel culture. “È naturale – ci ricorda lo studioso – che in un clima del genere, con un occidente disgregato e senza cultura e religiosità comune, pressato dalla conflittualità con altri poli emergenti, vengano fuori le degenerazioni che vediamo: l’attacco alle libertà personali, il passaggio dal capitalismo della sorveglianza ai regimi di sorveglianza, la tecnocrazia come alternativa pedagogica alla politica”.

La minaccia del wokismo e del politicamente corretto

Il fatto che in ampi settori della cultura e della politica occidentale sia prevalsa l’idea che la vittoria sul sistema socialista potesse indicare la fine stessa della storia ha significato l’abbandono del “pluralismo fallibilista” come categoria fondante l’Occidente liberale e ha comportato l’assunzione della nozione di egemonia, culturale e non (lezione imparata da militanti come Antonio Gramsci e Saul Alinsky), che si manifesta quale censura nei confronti di chiunque non sia allineato alla moda e al costume del momento; e nel negare la cittadinanza democratica a coloro che si permettono di avanzare visioni alternative. Una mutazione genetica che ha portato la democrazia a presentarsi con la stessa arroganza e fallacia metodologica con le quali il socialismo si era imposto e per le quali è fallito, mostrandosi disumano e incapace di imparare dai propri errori.

Un “demone nella democrazia”, come ricorda un celebre libro del filosofo polacco Legutko (ne avevamo parlato in una intervista ospitata proprio da StrumentiPolitici). Ma non solo. Un altro fattore che contribuisce alla frammentazione dell’identità tradizionale dell’occidente, e l’esoterismo del populismo estremo (pensiamo a Qanon), che vede complotti dappertutto e che si trova in “guerra civile” con il wokismo. «Esse – ricorda sempre lo storico – sono forme di una nuova religiosità che sostituisce la religiosità tradizionale intesa non solo come fede, ma come approccio alla politica e alla società fondato sul valore universale dell’essere umano, non di una categoria».

Come uscirne?

L’occidente, asserisce l’autore, in un mondo multipolare, ha come primo dovere quello di distinguere tra l’impulso all’occidentalizzazione e la riflessione sulla propria identità e sulle proprie radici, che richiedono: “L’amore per l’umanesimo ebraico-cristiano”, messo gravemente in pericolo dalle ideologie come, appunto, il wokismo. Radici e amore che garantiscono un futuro migliore: «Quel ricongiungimento con l’identità che vediamo in altre civiltà, piaccia o meno, riflette una tendenza.

Se l’occidente ha un futuro, io penso che dovrebbe passare da una tematizzazione consapevole della propria identità rimessa in discussione dalla secolarizzazione. Siamo in un’epoca in cui serve l’ars e non l’epistème (come ricorda Platone: il sapere certo, acquisito, che si contrappone all’opinione del singolo), e l’occidente deve cercare alleati e chiedersi in cosa credere».

 

Daniele Barale
Daniele Barale

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