Scontro Francia-Turchia, il punto con Marco Lombardi: “Erdogan difende il suo progetto di espansione ottomana”
Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, sulla scia del Qatar, ha lanciato un appello a boicottare i prodotti francesi inasprendo lo scontro con il presidente Emmanuel Macron, a cui poche ore prima, il sultano aveva consigliato di sottoporsi a “cure mentali”. Al centro dello scontro sono le frasi pronunciate da Macron durante la solenne cerimonia in onore di Samuel Paty, l’insegnante decapitato da un giovane ceceno dopo aver mostrato durante una lezione sulla libertà d’espressione alcune delle vignette sul profeta Maometto, pubblicate da Charlie Hebdo. “Non rinunceremo alle vignette, anche se altri indietreggiano, perché in Francia i Lumi non si spengono”, aveva tuonato l’inquilino dell’Eliseo, che in questi giorni ha anche denunciato un “separatismo islamico” e affermato l’esigenza di strutturare l’Islam sul territorio francese. Dopo il richiamo dell’ambasciatore di Parigi ad Ankara, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan torna alla carica sposando la campagna #Boycott_French_Products che invita i musulmani dall’astenersi dall’acquistare i prodotti made in France. Sul dilagare del clima d’odio e violenza, abbiamo intervistato Marco Lombardi, professore di sociologia, comunicazione e crisis management all’Università Cattolica, direttore di ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies che è conosciuto per essere uno dei maggiori centri di analisi e studio del terrorismo.
Il presidente turco ha rilasciato delle dichiarazioni forti definite un insulto dalla Francia. Secondo lei Erdogan difende l’Islam o gli islamisti?
“Erdogan difende il suo progetto di espansione ottomana semplicemente. Ha in piedi un rilancio della presenza turca in tutta la vecchia area di influenza ottomana. Di conseguenza, usa in maniera strumentale tutte le occasioni che ha. Non mi sento di dire che Erdogan appoggia gli islamisti o attacca la Francia, appoggia uno o usa l’altro, in funzione di quello che gli serve. Indubbiamente Erdogan in questo momento ha avuto buon gioco ad usare gli islamisti, la guerra siriana ne è un esempio, l’espansione in Libia un altro, e via di seguito. D’altra parte, tutto l’Islam che sta con i Fratelli Musulmani di cui Qatar, Erdogan e compagni sono i campioni”.
La maggior parte degli autori degli attentati che hanno colpito la Francia e l’Europa negli ultimi anni non avevano collegamenti con i Paesi arabi ma si sono radicalizzati in Europa. Chi è che diffonde l’odio ed incita alla violenza in casa nostra e come è avvenuto questo processo di radicalizzazione?
“Negli ultimi anni stiamo vivendo un clima diffuso e persuasivo di violenza che è entrato nelle culture di tutte le società. L’aumento del conflitto c’è stato, basta vedere quanto è accaduto a livello internazionale non solo per quanto riguarda il terrorismo, ma da Hong Kong ai gilet gialli, alle proteste, vediamo che in un attimo sfocia nella violenza. Questo è il clima generale. Nel corso di quest’anno il COVID-19 è diventato un booster, un acceleratore di dinamiche preesistenti. Quindi ancora più velocemente oggi, e lo vediamo in Italia, la protesta diventa violenza. Questo ha dato buon gioco a tutti i seminatori di violenza a fare più efficacemente e rapidamente il loro lavoro. I processi di radicalizzazione sono diventati molto più veloci. Il passaggio da selezionare, indottrinare, convincere a passare alla violenza ormai si è ridotto nel tempo in maniera estremamente significativa. Le ragioni profonde per cui si sceglie la violenza si sono anche perse. Vediamo che gli ultimi attentatori quanti erano dei radicali convinti che lo facevano per la loro idea di religione? Anche gli ultimi in Francia, lo hanno fatto perché si sono sentiti offesi per le caricature del loro Profeta ecc. ecc., ma non l’hanno fatto per rispondere ad una idea collettiva di riaffermazione dell’Umma o del progetto del Califfato, o quant’altro. Insomma, la incazzatura personale ha ampiamente superato le ragioni ideologiche religiose che stavano dietro al terrorismo. Ciò ha dato spazio a tanti cattivi maestri di fare forza su disagio personale, disagio collettivo, con un mix ideologico religioso”.
La Francia sembra aver preso coscienza del pericolo islamisti. Abbiamo letto anche nel suo articolo pubblicato su ITSTIME scritto insieme a Giovanni Giacalone e Marco Maiolino che le autorità francesi hanno predisposto la chiusura di alcune moschee e centri islamici ricollegabili alla Fratellanza Musulmana, è corretto?
“Finalmente ha preso coscienza. Ricordiamoci che l’Inghilterra, in Finsbury Park giusto per fare un esempio, in tante moschee del Regno Unito, ha lasciato parlare degli Imam o sedicenti tali che inneggiavano alla violenza. Parigi lo ha fatto fino a quando la misura non è stata colma. Nel senso che – lo comprendiamo anche – per l’Europa la libertà di espressione, e soprattutto in Francia la separazione tra Stato e Chiesa, è veramente un dogma, qualcosa di indiscutibile. Significa molto che la Francia abbia deciso di arrivare a queste scelte per fermare queste derive. Sono interventi a cui non eravamo abituati, ma è assolutamente opportuno farlo. Forse non è il momento ideologico più rilevante, ma è il momento in cui i cattivi maestri possono sfruttare le occasioni che si moltiplicheranno da parte dei singoli.
Com’è la situazione nel nostro Paese, ci sono anche in Italia moschee finanziate dai Fratelli Musulmani e dai Paesi che li sponsorizzano? E soprattutto Roma ha sempre preferito la strada del dialogo e della cooperazione con questi Paesi. Ritiene che questa sia una strada ancora percorribile? Siamo in pericolo, oppure no?
“Nessuno è salvo. Siamo in pericolo perché questa forma di violenza può esplodere dovunque anche se non mi aspetto attacchi strutturali formalizzati. In questo momento è difficile trovare una organizzazione formale che stia strategicamente promuovendo degli attacchi utilizzando il terrorismo. Però la difficoltà attuale ricca di imprevedibilità è che attacchi come quello del ceceno o dell’ultimo mese in Francia, sono attacchi che si fondano sulla disponibilità e l’incazzatura del singolo, che è imprevedibile, e lo sfruttamento di questo da parte di alcuni attori. Quindi bisogna stare attenti a ciò che accade nei luoghi di promozione della violenza. In Italia, rispetto a questo abbiamo delle moschee meno diffuse che negli altri Paesi. C’è anche una radicazione dell’Islam meno formalizzata, e di conseguenza anche meno per certi versi pericolosa. O meglio, l’Italia da anni sta cercando di capire chi è il suo referente nel variegato mondo dell’Islam nazionale. Abbiamo moltissime associazioni, gruppi, congregazioni che si fanno avanti come rappresentanti dell’Islam nazionale. Per ora né l’Italia ha fatto una scelta, né alcuno è apparso così rilevante da definirsi come l’unico vero rappresentante dell’Islam nazionale. Ciò ha fatto sì che in un mondo di incertezza com’è l’attuale, si continui a dialogare intorno ad un tavolo molto ampio. Il fatto che da una parte, le istituzioni non abbiano fatto alcuna scelta e che dall’altra non ci sia nessuno così forte da palesarsi come unico vero rappresentante, fa sì che ci sia ancora un tavolo aperto in cui tutti sono interessati a dialogare con tutti. Questo secondo me, è una situazione ancora positiva. Bisognerà capire quanto dura perché ovviamente soprattutto i Fratelli Musulmani stanno spingendo molto per presentarsi come l’Islam pacifico e politico col quale negoziare. Da qui, le interpretazioni diventano le più diverse. Io credo che la Fratellanza non possa cambiare pelle e ciò che sono in realtà lo hanno dimostrato, magari non in Italia, ma nel resto del continente e in Nordafrica. Non credo rappresentino un Islam così vicino alla cultura europea tale da poter trovare con loro una soluzione che vada bene per tutti. Io diffido di questi innamoramenti e mi riservo di poter avere ancora un tavolo aperto a tutte le componenti musulmane presenti oggi in Italia”.
L’Ambasciata degli Stati Uniti in Turchia ha rilasciato una nota di sicurezza, avvertendo i propri cittadini di aver ricevuto rapporti credibili su potenziali attacchi e rapimenti, nonché di attacchi alle sedi consolari nel Paese. Hanno sospeso il rilascio dei visti e dato istruzioni ai propri connazionali sui comportamenti da adottare. Secondo lei perché proprio ora? Lo spiega con questo momento di violenza generalizzato o ci sono ragioni politiche dietro?
“Da anni l’Ambasciata americana sconsiglia di andare a Bari, leggendo i warning americani andare in questa città sembrerebbe peggio che andare a Tripoli, quindi leggere gli avvertimenti delle ambasciate hanno più una valenza burocratica amministrativa. È interessante che ci sia un allarme sulla Turchia, perché se Ankara è riuscita a fare gran parte di ciò che ha fatto è stato grazie all’approvazione di Washington. Gli Stati Uniti sono ancora sponsor, magari a giorni alterni, della Turchia. Se Erdogan è potuto diventare il tiranno che sta cercando di mettere a ferro e fuoco il Mar Mediterraneo è grazie agli Stati Uniti, così come gran parte della penetrazione che la Turchia ha potuto fare nei Balcani, che gli hanno lasciato ampi spazi di manovra che erano del tutto impensabili. Potrebbe essere anche un messaggio politico quello di mettere un warning, come per dire guardate che iniziamo a fidarci poco. Ma sicuramente viene un po’ tardi in questo momento. Ha il senso di sottolineare preoccupazione, ha il senso di dire occhio che come la pensavamo non è detto che vada avanti così, quindi prestate attenzione. Mi sembra corretto che emerga ora, considerato il momento di grandissima ambiguità. La Turchia, come l’Italia, come la Grecia che sembra essere da sempre nemico della Turchia, così come gli Stati Uniti che ha emesso il warning, facciamo tutti parte della NATO. Questo è un problemino se si pensa che centrali nell’alleanza sono proprio gli americani. Se vogliamo, potrebbe essere un segnale di ‘attenzione’ da parte degli USA sulla Turchia, secondo me di basso livello e non così significativo”.
Tutti i giornali ne stanno parlando, Turchia e Qatar stanno promuovendo la campagna mediatica #Boycott_French_products. Questa guerra per cui i prodotti francesi vengono tolti dagli scaffali dei negozi in alcuni Paesi ha veramente dei motivi ideologici? O visto che il Qatar in Europa sta comprando di tutto, dalle squadre di calcio ai media, e che Doha investe oltre 40 miliardi di dollari all’anno in Francia. ci troviamo di fronte al tentativo da parte di Doha di indebolire le compagnie francesi per poi acquistarle a prezzi ridotti?
“L’altro giorno, sul Corriere e su altri giornali è apparso il titolo ‘I Paesi del Golfo boicottano i prodotti francesi’, in realtà chi lo sta facendo attualmente sono solamente Qatar e Kuwait, e cono loro la Turchia. È chiaro che questo è dovuto per la posizione che ha la Francia. Il lettore che legge ‘I Paesi del Golfo’ pensa dallo Yemen all’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti, nessun arabo compra più i prodotti francesi, ma in realtà si tratta di uno strumento di pressione da parte, come ha detto giustamente lei, da parte di Turchia e Qatar e quindi non credo che abbia molto valore. Lo shopping dei Qatarini è più a livello istituzionale che a livello spiccio. Il Qatar che faccia una campagna affinché qualcuno non acquisti dei prodotti credo che sia poco rilevante considerando anche che i suoi vicini Emiratini e Sauditi probabilmente faranno il contrario di ciò che dice Doha. Qualora tuttavia questa campagna avesse successo porterebbe ad un indebolimento delle aziende francesi a vantaggio di uno shopping istituzionale, cioè all’acquisto dell’intera azienda. Non so se c’è davvero questo dietro, io credo che sia più una campagna che ha senso all’interno del suo circuito comunicativo. Il Qatar, così come la Turchia, ha bisogno di affermarsi come leadership, c’è un discorso di leadership nel mondo musulmano in cui da una parte c’è Doha ed Ankara, e dall’altra, il resto dei Paesi musulmani. Un’iniziativa come ‘boicotta la Francia’, che ricorda molto ‘boicotta Israele’, non ha effetti sul mercato, ma pone chi la realizza un gradino sopra perché prende una iniziativa pubblica, identificando un nemico nei confronti del quale propone una azione collettiva. Più che il risultato, la narrativa pone Qatar e Turchia come coloro che dicono: compagni musulmani seguiteci, il grande cattivo è Macron che adesso si irrigidisce un po’ nei confronti dei musulmani. Secondo me è più questo l’interesse più che quello strettamente economico”.
La scorsa settimana, gli Stati Uniti hanno dichiarato il canale Al-Jazeera un agente di un Paese straniero, in quanto finanziato e controllato dallo Stato del Qatar. L’Italia e l’Europa in generale sta monitorando le informazioni che arrivano dai canali di casa nostra e quelle dai Paesi arabi?
Una dichiarazione degli americani che afferma che Al-Jazeera è un agente di uno Stato straniero vale esattamente come se lo dicessero della Rai, nel senso che tutte le televisioni nazionali fanno gli interessi del proprio Paese. Quando io ascolto la TV russa o sento una delle TV americane, ma anche quando ascolto Mediaset io mi aspetto che quel canale faccia gli interessi di chi sta pagando, che sia lo Stato, o un grande magnate che c’è dietro. Questo è lo status del giornalismo. La gente è consapevole di queste cose? Sicuramente no, la gente è poco consapevole che non solo Al-Jazeera è un agente di un altro Stato, come molti altri, ma che i media sono tutti interessati e questo è un problema generale, non a caso siamo precipitati quest’anno nell’era delle Fake-News. Perché ormai tutti i media sono assets strategici della guerra ibrida che stiamo giocando. Ci vuole un po’ di più di competenza da parte del cittadino. Io non trovo che sia possibile da parte di altri media fare da censori o da filtro per ciò che viene da altre parti del mondo, sono tutti troppo interessati a promuovere il loro prodotto”.
Vanessa Tomassini è una giornalista pubblicista, corrispondente in Tunisia per Strumenti Politici. Nel 2016 ha fondato insieme ad accademici, attivisti e giornalisti “Speciale Libia, Centro di Ricerca sulle Questioni Libiche, la cui pubblicazione ha il pregio di attingere direttamente da fonti locali. Nel 2022, ha presentato al Senato il dossier “La nuova leadership della Libia, in mezzo al caos politico, c’è ancora speranza per le elezioni”, una raccolta di interviste a candidati presidenziali e leader sociali come sindaci e rappresentanti delle tribù.
Ha condotto il primo forum economico organizzato dall’Associazione Italo Libica per il Business e lo Sviluppo (ILBDA) che ha riunito istituzioni, comuni, banche, imprese e uomini d’affari da tre Paesi: Italia, Libia e Tunisia. Nel 2019, la sua prima esperienza in un teatro di conflitto, visitando Tripoli e Bengasi. Ha realizzato reportage sulla drammatica situazione dei campi profughi palestinesi e siriani in Libano, sui diritti dei minori e delle minoranze. Alla passione per il giornalismo investigativo, si aggiunge quella per l’arte, il cinema e la letteratura. È autrice di due libri e i suoi articoli sono apparsi su importanti quotidiani della stampa locale ed internazionale.