Per il noto storico Gerard Libaridian per i leader di Turchia, Israele e Azerbaigian la violazione del diritto e delle norme internazionali è diventata la regola. Con il crollo dell’Urss si è persa l’occasione di pacificare il mondo
“Una terza guerra mondiale a pezzi” era l’allarme che papa Francesco lanciava nel 2014, a proposito delle guerre che infuriano nel mondo. Sono passati quasi due lustri da allora e le parole del sommo pontefice, scomparso il 21 aprile scorso, appaiono tristemente profetiche: almeno 50 i conflitti in corso, censiti e classificati per livelli di gravità dall’Armed Conflict Location & Event Data (Acled). L’Ong americana, con sede nel Wisconsin, ha rilevato che dal 2020 al 2024 gli episodi associabili a situazioni di conflitto sono quasi raddoppiati, passando da oltre 104mila a quasi 200mila, causando solo lo scorso anno 233mila decessi.
Una persona su otto nel 2024 è stata esposta ad un conflitto e quasi 100 milioni di altre sono state costrette a migrare, per sfuggire alle violenze. Nella top ten dei Paesi a rischio estremo, Palestina, Myanmar, Siria, Messico sono fra i primi quattro, a seguire Libano, Sudan, Camerun, Messico e Ucraina quattordicesima. «L’esposizione dei civili alla violenza, gli incidenti nel conflitto e il numero di gruppi armati coinvolti nelle violenze stanno proliferando», avvertono i ricercatori dell’Acled. In tutti questi anni, i moniti del successore di Pietro sugli orrori delle guerre sono rimasti inascoltati e l’uso ormai inflazionato, da parte di chi lo celebra dopo la sua morte, della definizione di guerra mondiale a pezzi da lui coniata, suona come una beffa.
Su cosa dobbiamo ancora aspettarci e quali potrebbero essere i futuri assetti geopolitici in uno dei fronti più caldi della terra, il Medio Oriente, lo chiarisce Gerard Libaridian, storico di chiara fama di origine libanese, già professore di Storia moderna armena presso l’Università del Michigan, nonché ex consigliere senior del primo presidente dell’Armenia, Levon Ter-Petrossian.
Il nostro è un pianeta in guerra: potrà mai essere realistico un futuro ordine mondiale e cos’è mancato alla comunità internazionale per evitare questi flagelli?
La comunità internazionale non è stata in grado di trovare il proprio equilibrio dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la prima guerra in Iraq del 1991, quando ci fu una cooperazione per estromettere Baghdad dal Kuwait. L’opportunità che gli anni ’90 offrivano di sviluppare un nuovo ordine mondiale realistico è stata mancata.
Per una serie di ragioni, i riflessi della Guerra Fredda sono sopravvissuti e sono diventati dominanti, senza i benefici del chiaro bipolarismo che essi offrivano, cioè il controllo che ogni superpotenza aveva sugli attori più piccoli. Non è più possibile utilizzare i paradigmi Est/Ovest, democrazia/autoritarismo per comprendere le politiche e le posizioni dei Paesi. È difficile etichettare gli Stati come appartenenti all’Occidente o all’Oriente, poiché le linee di demarcazione si sono fatte più sfumate. Il vecchio ordine mondiale non è stato seguito dal nuovo; con le politiche trumpiane, il disordine è diventato ancora più accentuato. Gli Stati hanno relazioni complesse, soprattutto nelle aree di conflitto: ad esempio due di essi possono essere d’accordo su alcune questioni e in conflitto su altre.
La Russia ha perso alcune delle sue capacità, ma ha anche sviluppato la volontà di dominare nuovamente i suoi vicini in nome della sua sicurezza; la Cina è diventata il principale concorrente degli Stati Uniti dal punto di vista economico e persino militare. Nel frattempo, gli Usa preferiscono relegare la diplomazia al piano B o C. La normale diplomazia ha lasciato il posto a discorsi duri e alla proiezione del potere sul terreno, a ultimatum, e solo in seguito a una simulazione di negoziazione.
Come vede la posizione dell’amministrazione Trump?
Il Presidente degli Stati Uniti disprezza i suoi alleati e amici, compresi quelli della Nato, e ha una naturale propensione ad amare, se non emulare, i leader forti dei vari schieramenti. Pur essendo l’architetto delle istituzioni internazionali del secondo dopoguerra, come la Nato, Washington attualmente preferisce, nel migliore dei casi, ignorare queste istituzioni e trattare con i singoli Paesi, senza tenere conto delle norme stabilite e seguite dai precedenti governi statunitensi e dei paradigmi che hanno dato alla comunità internazionale un senso di chiarezza e prevedibilità.
Questo stato di cose ha permesso agli uomini forti di sentirsi a proprio agio con la repressione in patria e di rimanere incontrastati a livello internazionale. Costoro hanno anche sviluppato ambizioni regionali che, a loro avviso, costringerebbero i grandi attori a invitarli a sedersi al tavolo delle decisioni su questioni di rilevanza non solo regionale ma anche internazionale. Gli esempi più evidenti di questa categoria sono Netanyahu in Israele, Erdogan in Turchia e Aliyev in Azerbaigian. Le azioni di questi governanti dipendono solo tangenzialmente dalla volontà di qualsiasi grande potenza; inoltre, sono spesso in grado di far accettare ai loro ex padroni la loro volontà.
Ha citato come esempi di uomini forti i leader di Turchia, Israele e Azerbaigian: crede che le loro politiche siano aderenti alle norme internazionali?
Per questi governanti la violazione del diritto e delle norme internazionali sta rapidamente diventando la regola piuttosto che l’eccezione, ognuno con una propria giustificazione per le proprie politiche. Le Nazioni Unite non sono mai state meno utili. L’Assemblea Generale approva risoluzioni senza senso e i membri del Consiglio di Sicurezza si assicurano che l’organo sia paralizzato. Non c’è più un arbitro in un gioco che, essenzialmente, non ha regole.
Quali sono, a suo avviso, gli obiettivi della Turchia di Erdogan?
Le radici islamiche della visione del mondo del Presidente Erdogan hanno reso l’Impero Ottomano la fonte di ispirazione storica e di emulazione preferita, rispetto alle origini laiche e kemaliste della Repubblica turca. Come la maggior parte dei regimi post-imperiali, il periodo di dominio imperiale nella storia è visto nostalgicamente come un tipo di governo benevolo, durante il quale i vari gruppi religiosi ed etnici che dominavano vivevano in armonia. Per Erdogan, estendere l’influenza sua e della Turchia su quante più terre ex ottomane possibile, è un obiettivo legittimo.
È difficile stabilire fino a che punto questo obiettivo rappresenti un nuovo imperialismo turco o una convinzione dell’innata bontà del dominio islamico, che era alla base della governance ottomana; Erdogan è anche un politico scaltro con un forte istinto e una volontà di sopravvivenza, che rimandano all’abilità diplomatica ottomana. E’ anche proiettato verso le prossime elezioni, che gli richiederanno di mantenere una mano forte nel trattare con l’opposizione, pur equivocando su alcune questioni di politica estera.
Erdogan può essere compreso al meglio tenendo conto di tre dimensioni della sua politica estera e di sicurezza: la sua visione generale del mondo islamico, la tradizione della diplomazia ottomana-turca di trarre vantaggio dall’incertezza negli affari mondiali e il suo pragmatismo, che alcuni hanno definito opportunismo.
La sicurezza interna e il conseguente rafforzamento dei propri confini sono il target di molti Paesi, fra questi anche Turchia e Israele, che hanno creato delle “zone cuscinetto”. Tutto diventa lecito in nome della sicurezza?
Israele ha approfittato dell’indebolimento de facto del sistema internazionale, per perseguire quella che può essere formulata come una soluzione definitiva al problema palestinese, una soluzione che comporta la pulizia dei territori che occupa, la Cisgiordania e Gaza, dai suoi abitanti palestinesi. Inoltre, Netanyahu ha esteso il controllo israeliano nelle regioni meridionali di Siria e Libano. Tutto in nome di una sicurezza che è stata irraggiungibile con i metodi attuali. Metodi che creano le condizioni per ulteriori conflitti e danni ai civili piuttosto che alle cause profonde delle ostilità.
A volte dimentichiamo che il conflitto israelo-palestinese non è iniziato con l’attacco di Hamas del 7 ottobre, contro cittadini israeliani all’interno di Israele. Poi, c’è il conflitto in Siria, che ha molte dimensioni. Una di queste è lo scontro tra due serie distinte di interessi e istinti esterni: il sostegno turco a un movimento di ispirazione religiosa, salito al potere oggi e quello che in realtà può essere definito l’espansionismo territoriale israeliano in nome della sicurezza, senza tener conto delle persone che vivono su quelle terre e delle norme, come il rispetto della legge sull’integrità territoriale.
All’indomani della presa del potere di al-Sharaa in Siria, ma anche con la guerra a Gaza, ci sono state molte tensioni fra Tel Aviv e Ankara. Come crede finirà?
E’ difficile stabilire se queste due serie di interessi distinti porteranno i due Stati ben armati, Turchia e Israele, a finire in lotta tra loro. Entrambi non hanno esitato a usare le loro forze armate per raggiungere i loro obiettivi. La Turchia non è riuscita a risolvere il suo problema curdo e Israele quello palestinese, hanno fatto ricorso alla forza sia nei propri territori che in quelli dei vicini.
Turchia e Israele hanno visioni opposte su come dovrebbe essere la Siria del futuro. Entrare in guerra l’uno contro l’altro è una possibilità, ma non è nell’interesse di nessuno dei due. Tuttavia, è abbastanza ovvio che Ankara vorrebbe una Siria stabilizzata, mentre Israele preferirebbe che gli antagonismi nel Paese levantino si accentuassero, portando a una costante instabilità, compresi i conflitti intersettoriali e interreligiosi.
Lo scorso marzo si sono verificati attacchi spietati contro la popolazione alawita, che vive nelle zone costiere siriane. Il governo di Damasco riuscirà a mettere a tacere l’odio e la sete di vendetta contro chi è accusato di appartenere allo stesso credo del deposto Bashar al-Assad?
Non c’è dubbio che il nuovo governo siriano non sia ancora in grado di controllare le forze centrifughe che gli si oppongono. Inoltre, la rabbia repressa nei confronti degli alawiti, precedentemente al potere, non si è esaurita con l’unico episodio di massacro di questa minoranza. Infine, è difficile stabilire in quale direzione si evolverà l’attuale fazione al potere: uno Stato islamico o uno che coinvolga le varie fazioni politiche e religiose dello variegato spettro che compone la politica siriana. I diplomatici europei e statunitensi hanno spinto Damasco verso la seconda ipotesi, ma il loro peso è limitato. L’influenza iraniana, un tempo considerevole, a questo punto non è destinata a tornare in misura significativa.
Quale crede sarà il futuro della Siria, che ha una posizione strategica nel Mediterraneo orientale?
In definitiva, saranno le dinamiche interne a determinare il carattere della Siria futura e saranno la Turchia e Israele a determinare l’aspetto della mappa della Siria futura. Tuttavia, in una Siria indebolita, le forze interne sono vulnerabili all’interiorizzazione dei paradigmi di sicurezza ed economici sviluppati dall’esterno.
La sopravvivenza del regime, soprattutto per un nuovo governo istituito da una fazione politica, può facilmente portare a un altro regime autoritario. La violenza settaria è un percorso certo, per spingere il regime verso un autoritarismo di un tipo o di un altro, con un’ideologia o un’altra come base di legittimità.

Nasce a Palermo. Laureata in Lingue e letterature straniere all’Università degli studi del capoluogo siciliano, master in Giornalismo e comunicazione pubblica istituzionale, è giornalista pubblicista. Ha iniziato la sua carriera di giornalista, scrivendo di sprechi, inadempienze nella Pa e di temi ambientali per il Quotidiano di Sicilia, ha collaborato per alcuni anni col Giornale di Sicilia, svolto inchieste e approfondimenti su crisi libica e questione curda per Left, per poi collaborare alle pagine Attualità e Mondo di Avvenire, dove si è occupata di crisi arabo-siriana e di terrorismo internazionale. Ha collaborato col programma Today Tv 2000, l’approfondimento dedicato all’attualità internazionale. Premio giornalistico internazionale Cristiana Matano nel 2017.