Oltre Gaza. Implicazioni geo-economiche della crisi mediorientale

Oltre Gaza. Implicazioni geo-economiche della crisi mediorientale

13 Maggio 2024 0

ANTEFATTO IN SIRIA

Il conflitto armato che attualmente vede opposti il gruppo islamista palestinese Hamas (arakat al-Muqāwama al-Islāmiyya / Movimento di Resistenza Islamica) e lo Stato di Israele, oltre a non essere di natura strettamente diadica, per via della compartecipazione della Repubblica Islamica dell’Iran e dei suoi proxy, è anche un confronto militare con annessi geo-economici che coinvolge attori regionali ed extraregionali aventi obiettivi divergenti. Il bellicismo espresso da Tsahal e Hamas può così essere considerato come il risultato più immediatamente percepibile di una decennale contesa che attiene allo sfruttamento delle risorse energetiche del Medio Oriente e alla potenziale rimodulazione dei relativi flussi verso l’Europa occidentale (UE) attraverso il Mediterraneo orientale.

Se si volesse individuare un dies a quo in tale contesa esso potrebbe essere ricondotto al sorgere della crisi siriana nel 2011. Nelle acque del Golfo Persico il Qatar condivide con la Repubblica Islamica dell’Iran (potenza regionale non araba e di confessione sciita duodecimana) lo sfruttamento di uno dei più grandi giacimenti off-shore di gas naturale nel mondo, il South Pars/North Dome. Poco prima che la guerra civile siriana deflagrasse in tutta la sua intensità Doha aveva proposto la costruzione di una underground pipeline con terminale in Turchia, attraverso i territori di Arabia Saudita, Giordania e Siria, per l’esportazione di idrocarburi verso il mercato europeo-occidentale.

Nel gennaio 2011, l’effettiva fattibilità dell’infrastruttura fu oggetto di uno studio prodotto dal Center for Middle Eastern Strategic Studies, pubblicato, con il titolo Is the Qatar-Iraq-Turkey-Europe Natural Gas Pipeline Project Feasible? Il regime del presidente siriano Bashar al-Assad – alleato regionale di Mosca – si sarebbe però opposto a tale progetto, a cagione del fatto che esso avrebbe danneggiato gli interessi della Federazione Russa, che della UE era uno dei principali fornitori energetici, in particolare tramite i gasdotti in Ucraina e il Nord Stream nel Baltico.

Nel 2010 Damasco fece una contro-proposta per la costruzione di una pipeline che trasportasse gas dal South Pars, di competenza dell’Iran (alleato della Siria e della Russia), attraverso l’Iraq. Baghdad diede il proprio benestare al progetto siriano il 19 febbraio 2013, con la firma di un accordo quadro che faceva seguito a un memorandum d’intesa già siglato da siriani, iracheni e iraniani nel luglio 2012. L’opera avrebbe coperto una lunghezza complessiva di 3,450 miglia e avrebbe dovuto essere inaugurata nel 2016, con un costo stimato pari a 10 miliardi di dollari e una capacità di 3,6 miliardi di piedi cubi al giorno.

ECONOMIC WARFARE CONTRO MOSCA

Sulla base di queste premesse, quello che pare emergere è un quadro secondo cui, almeno sin dal 2010, una grande partita energetica è andata delineandosi dal Baltico al Golfo Persico, in cui la posta in gioco è rappresentata dalle forniture all’Europa occidentale e dall’obiettivo strategico di escludere o perlomeno ridurre considerevolmente il peso della Russia. Un indizio circa la validità di tale tesi viene offerto dal precedente siriano, prima citato, chiamando in causa anche il ruolo dell’Arabia Saudita, indicata come sostenitrice, insieme al Qatar, dei ribelli anti-Assad[1].

Nel 2013 Riad avrebbe esercitato pressioni su Mosca affinché abbandonasse l’alleato siriano, in favore di un vantaggioso accordo sulla fornitura di armi del valore di oltre 15 miliardi di dollari e ulteriori investimenti[2]. Così concepito il do ut des poteva apparire allettante per il [Gran Palazzo del] Cremlino: il governo saudita avrebbe inoltre assicurato alla Russia che non avrebbe firmato alcun futuro accordo in grado di mettere a repentaglio le esportazioni di gas russo. Tuttavia, nel medio periodo i danni geopolitici avrebbero di gran lunga surclassato i vantaggi geo-economici immediati. Per comprendere questo aspetto è utile ricordare alcuni dati.

Nel 2005 la Russia svolse un ruolo cruciale nel rilanciare l’economia di Damasco, cancellando circa il 70% del debito siriano. Mosca deteneva inoltre investimenti sostanziali in diversi settori dell’economia della Siria. Fatto ancora più significativo, a Tartus, sulla costa siriana, la Russia usufruiva e tutt’ora usufruisce di una base navale. Accettando la proposta saudita Mosca avrebbe compromesso l’amicizia con Damasco, presupposto all’ingresso dell’influenza statunitense in Siria, con il conseguente cambiamento del sistema di alleanze regionali, circostanza che avrebbe significato per la Russia la perdita dell’unica base militare di cui dispone in Medio Oriente in grado di garantire la proiezione del suo sea power nel Mediterraneo.

Peraltro, recentemente l’ipotesi di un asse energetico mediorientale che veda protagonista la Siria di Assad è riemersa, precisamente nel2023, anno in cui il governo iracheno si era detto pronto a discutere con Damasco la riattivazione del gasdotto Kirkuk-Baniyas (costruito nel 1952), non più operativo dal 2003[3] quando fu bombardato da forze statunitensi durante le operazioni militari condotte nel corso della Seconda guerra del Golfo[4].

DAL GOLFO PERSICO AL MEDITERRANEO ORIENTALE

Per gli interessi statunitensi la natura pivotale dello Stato siriano rispetto agli equilibri mediorientali ha cominciato a palesarsi soprattutto a seguito della rivoluzione khomeinista del 1979. In un rapporto segreto del 14 settembre 1983[5] la statunitense Central Intelligence Agency (CIA) suggeriva, con riferimento al conflitto Iraq-Iran, che gli Stati Uniti prendessero in considerazione la possibilità di esercitare pressanti minacce militari nei confronti di Damasco – militarmente alleata di Teheran sin dal marzo 1982 – che in quel frangente sembrava essere prossima ad aprire un secondo fronte in cui tenere impegnate le forze irachene. Per realizzare ciò Washington – secondo la CIA – avrebbe dovuto fare ricorso ai tre Stati confinanti e ostili alla Siria: l’Iraq, Israele e la Turchia.

In quello stesso marzo ’82, mentre Siria e Iran firmavano un’alleanza militare segreta, la CIA focalizzava la sua attenzione sul progetto di pipeline europeo-sovietico Urengoi-Yamal[6], le cui principali criticità – secondo l’ottica statunitense – sarebbero consistite nell’afflusso di valuta pregiata verso l’URSS (che avrebbe consentito all’economia sovietica di assorbire risorse per il fabbisogno tecnologico e gli armamenti), la dipendenza pressoché totale dell’Europa occidentale dal gas sovietico e, per conseguenza, la capacità di ricatto politico che Mosca avrebbe potuto esercitare verso i membri europei della NATO.

Dopo il crollo dell’URSS il quadro non appare mutato nella sostanza. Per gli Stati Uniti gli obiettivi sembrano, infatti, essere ancora i medesimi: spezzare l’asse Damasco-Teheran (azzerando contemporaneamente l’influenza russa in Siria e la profondità strategica iraniana) e conseguire il decoupling tra Europa occidentale e Federazione Russa. Ed è soprattutto in rapporto a quest’ultimo aspetto che – insieme al Golfo Persico – il Mediterraneo orientale rappresenta un’area fondamentale.

Non è frutto del caso, infatti, se in questo quadrante nel corso degli ultimi anni si stia consumando un contenzioso geopolitico e geo-economico che, in gergo, viene riassunto con l’espressione territorializzazione marittima. Questo ossimoro racchiude tutta l’essenza di una partita energetica che le potenze coinvolte, tra cui l’Italia, giocano soprattutto mediante il ricorso alla creazione delle cosiddette Zone Economiche Esclusive (ZEE), aree marittime in cui gli Stati interessati rivendicano diritti di esplorazione e sfruttamento.

IL GAS DI GAZA

 La Striscia di Gaza non si sottrae a questa condizione. Benché de facto controllata da Hamas, essa è formalmente[7] parte dello Stato di Palestina. Il 31 agosto 2015 il presidente palestinese Mahmūd Abbās (kunya Abū Māzen) trasmise al Segretario Generale della Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il testo della Dichiarazione dello Stato di Palestina riguardante i confini marittimi.

Negli articoli 7, 8 e 9 si faceva menzione della ZEE palestinese estesa fino a 200 miglia nautiche, entro le quali la Palestina, richiamandosi alla United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), rivendicava diritti sovrani di esplorazione e sfruttamento. A quel documento ne fece seguito, il 24 settembre 2019, un secondo, con la medesima titolatura, ma recante in calce la firma del ministro degli Esteri palestinese, Riad Malki. I contenuti di quella seconda dichiarazione erano nella sostanza identici alla prima, con l’aggiunta però di una mappa a colori riproducente la ZEE palestinese, le cui coordinate geografiche erano state determinate utilizzando il World Geodetic System 1984.

Nel 1999 l’Autorità Palestinese aveva già concesso una licenza venticinquennale alla britannica BG Group (90%) e alla Consolidated Contractors Company (10%), con sede ad Atene, per l’esplorazione dell’off-shore di Gaza. L’anno seguente la BG Group scoprì riserve di gas nel Gaza Marine Field, la cui produzione stimata sarebbe di circa 57 miliardi di piedi cubi all’anno, per un periodo di vent’anni. Nel settembre del 2000 il leader palestinese Yasser Arafat affermò che quella scoperta fosse un dono di Dio, aggiungendo che avrebbe fornito “una solida base […] per la creazione di uno Stato indipendente con Gerusalemme santa come capitale[8].

I negoziati commerciali per accordi di fornitura a Israele (Stato che non aderisce alla UNCLOS) si interruppero tuttavia nel 2007, per decisione del primo ministro israeliano Ehud Olmert e a causa della presa del potere di Hamas nella Striscia di Gaza. Lo stato di quiescenza dei negoziati fu interrotto il 19 ottobre 2022, quando il Gaza Marine fu oggetto di un giallo mediatico-diplomatico. Secondo il Middle Easter Monitor, una fonte anonima palestinese smentì le notizie israeliane secondo cui fosse stato stipulato un accordo egiziano-palestinese-israeliano per estrarre gas, descrivendole come inesatte[9]. La fonte avrebbe riferito all’agenzia di stampa turca Anadolu Ajansı che le consultazioni con l’Egitto sullo sviluppo del giacimento non menzionassero affatto la parte israeliana.

Il governo palestinese annunciò la formazione di un comitato ministeriale per dare seguito al Fondo di investimento necessario alla conclusione di un accordo con l’Egitto, così da finanziare e gestire il Gaza Marine Field. Contemporaneamente, la Israeli Broadcasting Corporation (Kan) riferiva che Egitto, Israele e Autorità Palestinese avessero concordato di mettere in produzione il giacimento, specificando che i profitti sarebbero spettati ai governi palestinese e israeliano.

CONTENZIOSI LEGALI

Il 13 dicembre 2022 il Ministero dell’Energia e delle Infrastrutture israeliano lanciava il 4th Offshore Bid Round[10] per l’esplorazione e produzione di idrocarburi nell’off-shore di Israele. La gara è stata chiusa il 16 luglio 2023 e il 29 ottobre successivo – ossia a poche settimane dall’attacco di Hamas – il Ministero ha annunciato i vincitori delle licenze per due aree: la Zona G e la Zona I.

Una delle tre compagnie che si sono aggiudicate le sei licenze di sfruttamento nella Zona G è l’italiana ENI, in qualità di operator. Commentando la circostanza, il ministro israeliano dell’Energia, Israel Katz, ha affermato: “lo straordinario successo della quarta tornata di candidature testimonia la posizione dello Stato di Israele in prima linea nel mercato energetico globale. L’attuale gara d’appalto aumenterà la concorrenza e la stabilità nella fornitura del mercato energetico locale, rafforzerà lo status geopolitico di Israele nella regione e in Europa […] come [hub] energetico che collega est e ovest[11].

Il 5 febbraio scorso Adalah – organismo per la protezione dei diritti della minoranza araba con sede in Israele – ha inviato una lettera[12] al ministro Katz domandando la cancellazione delle licenze perché considerate entro i confini marittimi [rivendicati dai] palestinesi. Il giorno seguente, lo studio legale statunitense Foley Hoag, in rappresentanza di tre Ong palestinesi, Al-Mezan (con sede a Gaza/Jabalia), il Palestinian Center for Human Rights (anch’essa con sede a Gaza) e Al-Haq (con centro a Ramallah), notificava un avviso a ENI SpA. La Law Firm statunitense informava che “Israel’s Zone G substantially overlaps with maritime areas the State of Palestine claims in accordance with the U.N. Convention on the Law of the Sea […] we urge you to desist from undertaking any activities in areas of Zone G that Palestine claims, as any such activities would constitute a flagrant violation of international law[13].

La natura particolare del contenzioso è frutto anche delle differenti metodologie attuate da palestinesi e israeliani per la delimitazione dei rispettivi confini marittimi. I primi, in ottemperanza agli articoli 74 e 83 della UNCLOS, hanno fatto ricorso al criterio equitable principles, che contempla l’esigenza di un accordo tra Stati. Diversamente, Israele – il quale come ricordato non aderisce alla UNCLOS – adotta il principio della median equidistance line che consente invece di eludere il vincolo di un modus vivendi tra Stati rivieraschi. Andrebbe altresì considerato che l’assenza di uniformità, in seno alla comunità internazionale, circa il pieno riconoscimento delle prerogative sovrane dello Stato di Palestina costituisce una criticità aggiuntiva. Nel caso dell’Italia basti ricordare che nella votazione del 10 maggio scorso all’Assemblea Generale della Nazioni Unite per l’ammissione dello Stato di Palestina in qualità di membro a pieno titolo essa è stata tra i venticinque Paesi astenuti.

La soluzione alle criticità derivanti dai diversi approcci giuridico-internazionali alla questione della territorializzazione marittima nel Mediterraneo orientale sembra al momento presentare tre vie. Una di natura ancora giudiziale (forum prorogatum) dinnanzi alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia. Una di natura diplomatica (by agreement o by conference), come, ad esempio, già suggerito nel settembre 2020 dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, il quale avanzò la proposta di una conferenza multilaterale dei Paesi mediterranei. Infine, la via più rapida, ma per sua stessa natura maggiormente foriera di instabilità e conflittualità, è quella che, facendo appello al sacro egoismo, tende ad affrontare le controversie attraverso il perseguimento di una mera politica di potenza. Ad oggi, come dimostrano i più recenti eventi mediorientali, sembra essere (ancora) quest’ultima a prevalere.

[1] https://oil-price.net/en/articles/crude-oil-syrian-conflict.php.

[2] https://www.reuters.com/article/idUSBRE9760OQ/.

[3] https://www.ice.it/it/news/notizie-dal-mondo/247888.

[4] https://www.reuters.com/article/russia-iraq-contract/russian-firm-signs-deal-to-fix-iraq-syria-pipeline-idINL2673766420080326/.

[5] https://www.cia.gov/readingroom/docs/CIA-RDP88B00443R001404090133-0.pdf.

[6] https://www.cia.gov/readingroom/docs/CIA-RDP84T00109R000100090012-9.pdf.

[7] https://www.un.org/unispal/document/auto-insert-203742/.

[8] https://www.washingtoninstitute.org/sites/default/files/pdf/Henderson20140301-GermanMarshallFund.pdf.

[9] https://www.middleeastmonitor.com/20221020-palestine-denies-deal-with-israel-egypt-on-gaza-gas-field/.

[10] https://www.energy-sea.gov.il/home/obr4/.

[11] https://www.gov.il/en/pages/news-160723.

[12] https://www.aa.com.tr/en/middle-east/israel-grants-gas-exploration-license-in-areas-considered-to-be-within-palestines-maritime-boundary/3138367.

[13]La Zona G di Israele si sovrappone sostanzialmente alle aree marittime che lo Stato di Palestina rivendica in conformità con la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare […] vi esortiamo a desistere dall’intraprendere qualsiasi attività nelle aree della Zona G che la Palestina rivendica, come qualsiasi attività di questo tipo costituirebbe una flagrante violazione del diritto internazionale”.

Roberto Motta Sosa
RobertoMottaSosa

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