Diciotto mesi dopo la cattura, Sairan Mostafa Jindo è ancora dietro le sbarre turche

Diciotto mesi dopo la cattura, Sairan Mostafa Jindo è ancora dietro le sbarre turche

5 Marzo 2021 0

E’ scomparsa da Afrin il 16 settembre del 2019 da allora è mistero sulla sorte toccata a Sairan Mostafa Jindo, una donna curda di 23 anni. La giovane, madre di due bambini, sarebbe stata prelevata dalla sua casa nel villaggio di Miske Jor, nei pressi di Jendeiress un sottodistretto di Afrin nella Siria nord orientale, dalle milizie di Jaish al-Sharqiyya. A riferirlo è l’Organizzazione dei diritti umani di Afrin, dopo la denuncia dei parenti preoccupati da due lunghi anni di silenzi calati sul suo destino. Gli stessi familiari avevano tenuto il massimo riserbo sulla vicenda per paura di ritorsioni.

«Il fatto è avvenuto poco dopo che il marito, Hannan e il cognato erano stati arrestati dietro falsa accusa di progettare un attentato contro Abu Fawwaz, comandante del gruppo islamista sostenuto da Ankara. Pare che la giovane abbia subito violenze e sia stata ridotta a schiava sessuale. Entrambi i coniugi sono stati portati in centri di detenzione segreti – prosegue la ong – prima di essere consegnata a uomini dell’intelligence turca, il Mit. Ma mentre il marito è stato rilasciato dopo sei mesi, di Sairan si sono perse per lungo tempo le tracce. Solo di recente si è appreso che un parente sarebbe stato informato che la donna sta scontando una condanna a due anni nella prigione di Marate».

L’organizzazione umanitaria traccia un quadro della figura del capo di Jaish al-Sharqiyya, gruppo di opposizione noto come l’Esercito dell’Est, una fazione armata di spicco all’interno dei ranghi dell’Esercito nazionale siriano (Sna) e della Coalizione siriana sostenuta dalla Turchia. «Abu Fawaz al-Dairi è un ex combattente del Daesh e un arabo beduino della provincia orientale di Deir Ez Zor. Controlla i villaggi di Qiyla, Berjekkeh, Miskeh Tahtani, Miskeh Fawqani, Ghorda, Chaqaleh Jumah, Jubana, Sindankeh e Khaltan, tutti nel distretto di Jendeiress, come se fossero il suo feudo e tratta gli abitanti come servi. Secondo quanto ci ha riferito  gente del posto – raccontano dall’Organizzazione – avrebbe sequestrato 170mila ulivi, centinaia di ettari di terreni agricoli, le migliori case e ville in questi villaggi per lui e per i suoi miliziani. Con l’appoggio della Turchia è riuscito ad insediare centinaia di famiglie arabe beduine provenienti dai deserti siriani orientali nelle case sottratte ai curdi sfollati con la forza».

Il rapimento, utilizzato dalle milizie islamiche come mezzo per estorcere denaro o anche semplicemente per terrorizzare la popolazione, è una delle strategie seguite dall’inizio dell’occupazione di Afrin nel marzo del 2018. Un sistema ormai radicato e praticato dalle fazioni che controllano il territorio e dopo dieci anni di conflitto, stando al rapporto pubblicato il primo marzo scorso dalla Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulla Repubblica araba siriana, sono decine di migliaia i civili scomparsi e detenuti arbitrariamente nel Paese, mentre altre migliaia sono stati sottoposti a torture, violenze sessuali e morte durante la detenzione.

Il documento di oltre trenta pagine rileva violazioni e abusi storici e continui, legati alla carcerazioni da parte di quasi tutte le principali parti coinvolte nella guerra dal 2011. «La ricchezza di prove raccolte in un decennio è sbalorditiva, ma le parti in conflitto, con pochissime eccezioni, non sono riuscite a indagare sulle proprie forze», dichiara il commissario Karen Koning AbuZayd. «La preoccupazione maggiore sembra essere l’occultamento, piuttosto che l’indagine sui crimini commessi nelle strutture di detenzione». Il rapporto evidenzia l’enorme portata di carcerazioni, sparizioni e abusi perpetrati dal governo, dai gruppi armati, comprese le coalizioni dell’Esercito siriano libero (Fsa), del Sna. Sotto la lente di ingrandimento della Commissione d’inchiesta anche i gruppi terroristici di Hay’at Tahrir al-Sham e dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL).  Detenzione e reclusioni arbitrarie vengono considerate fra le cause, se non fattori scatenanti e caratteristiche persistenti del conflitto siriano. «Ondate di carcerazioni arbitrarie di vario genere sono state messe in atto dai principali titolari del dovere – si legge ancora nel rapporto – dagli arresti di massa dei manifestanti nei primi giorni, all’internamento di uomini, donne e bambini oggi». Decine di migliaia di persone in Siria sono state illegalmente private della loro libertà e questo per instillare paura e reprimere il dissenso. Nel mirino dei gruppi armati sono finiti anche gruppi religiosi ed etnici minoritari, come Sairan, la cui famiglia è di origine yazida.

Marina Pupella
MarinaPupella

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