È ora di capire
La clamorosa svolta rappresentata dall’esito delle elezioni americane può essere da alcuni letto come l’estrema riprova di una sorta di irrazionalità che sembra dominare gli eventi internazionali di questo periodo. E indubbiamente, quando le cose appaiono in così palese contrasto con gli schemi di lettura adottati, bisogna forse scegliere se sia la realtà ad avere torto o non piuttosto quegli schemi.
Quel che segue si rivolge a chi, umilmente, vorrà considerare questa seconda possibilità. È giunta davvero l’ora di capire. Per chi ostinatamente vi si vorrà negare, quest’ora potrebbe non giungeremai.
Un esito che non si voleva annunciare
L’entità della vittoria ottenuta da Trump sollecita innanzitutto interrogativi sui sondaggi, che fino all’ultimo presentavano l’esito come assai incerto. Il primo pensiero che ovviamente viene è che i sondaggi stessi siano in buona misura mezzi di propaganda. E in questo caso si è voluto aiutare in ogni modo una candidata che si sapeva fin dall’inizio avere scarse probabilità di vittoria.
Riguardando indietro, certo alla luce di quel è avvenuto, è possibile forse dire che la riprova di ciò sta innanzitutto nel fatto che, nei tumultuosi eventi di questa estate, dopo l’attentato a Trump, quando era diventato chiaro che Biden non avrebbe avuto alcuna chance, la scelta fosse caduta proprio su di lei, mentre nessun altro si era fatto avanti, e tanto meno Michelle Obama, dotata di un carisma decisamente maggiore. Nessuno dei notabili del Partito Democratico aveva voluto rischiare di bruciarsi in una battaglia evidentemente giudicata assai difficile.
Nell’attesa di questo evento, tra la rassegnazione e la tentazione di giungere all’irreparabile
Sicuramente già da allora gli eventi internazionali sono stati condizionati dall’aspettativa di una più che possibile vittoria di Trump. Vale soprattutto per la guerra in Ucraina. Nonostante le davvero poco comprensibili intemperanze di alcuni leader europei, ha cominciato ad essere evidente che ci si stava rassegnando ad allentare il sostegno a Zelensky. O, guardando le cose da un’altra prospettiva, la probabile vittoria di Trump forniva l’alibi per farlo, visto che i risultati erano in fondo del tutto deludenti. Forse qualcuno addirittura ha cominciato a confidare in una svolta che lasciasse ad altri la responsabilità di uscire da una situazione al momento senza uscita.
Questo non vuol dire che non ci siano stati almeno due momenti in cui si è pensato di capovolgere le sorti della grande guerra in corso attraverso uno sconsiderato innalzamento del livello dello scontro.
La prima volta sul fronte ucraino. Non tanto con la poco significativa incursione nel Kursk, ma con la richiesta di consentire l’uso dei missili a lungo raggio contro la Russia. La seconda volta è stata sul fronte mediorientale, quando pareva che fosse consentito a Israele, se non addirittura richiesto, di scatenare una guerra totale contro l’Iran.
Penso che in entrambi i casi siamo stati vicini all’irreparabile. Poi in entrambi i casi quel che era lecito temere non è avvenuto, e non sapremo forse mai esattamente perché. Può aver contribuito la fermezza di Mosca, nel primo caso con pesanti minacce e nel secondo con la diplomazia, oppureBiden non se l’è sentita di assumersi una responsabilità così grave. Siamo addirittura arrivati ai servizi segreti americani che rivelano i piani d’attacco israeliani. Non esito a dire che in entrambi i casi siamo stati sull’orlo del baratro, e, in qualche modo che forse non sapremo mai, ne siamo scampati.
Ha vinto nonostante tutto
Ora Trump non solo ha vinto, ma la sua vittoria è tanto indiscutibile da segnare una svolta storica. Tanto più che non è stato risparmiato alcun mezzo per fermarlo.
L’evento simbolicamente più forte è evidentemente l’attentato del 13 luglio scorso. Quel giorno ha lasciato una traccia indelebile nella coscienza collettiva, forse addirittura non solo americana, per quanto si sia cercato di rimuoverlo, così come un secondo tentativo di togliergli la vita. Non si può però poi dimenticare che aveva contro pressoché l’intero sistema mediatico e tutto un apparato di costruzione del consenso che mirava a far vedere in lui il nemico più pericoloso e ripugnante della democrazia e di ogni accettabile convinzione sulla vita comune. Essere dalla sua parte voleva dire essere moralmente inaccettabili – spazzatura, come incautamente (oppure no?) si è lasciato sfuggire Biden.
E si consideri la discesa in campo di tutto lo star system, che ha voluto contrastare, col puro potere dell’immagine, quello che si avvertiva salire dalle viscere del Paese. Per non dire dei finanziamenti, di entità senza precedenti, che venivano fatti fluire per sostenere in ogni modo una candidatura evidentemente avvertita come debole. Addirittura i media nostrani, neanche noi dovessimo votare, facevano a gara per magnificare tutto ciò, come il grande sforzo collettivo per salvare la democrazia – in America e nel mondo.
Un’arroganza da Ancien Régime
Qualunque cosa si pensi di Trump, ma si voglia osservare le cose con sguardo libero, non si può non essere stupiti da quanto accaduto. Come è possibile che, nonostante tutto ciò, i risultati siano questi?
Si vorrà ancora insistere sulla denigrazione di tutto un mondo che si è rifiutato di capire, oggi maggioritario, che è stato disprezzato con l’arroganza che storicamente si è soliti attribuire agli Ancien Regime? O non si proverà finalmente ad ammettere che quel che è avvenuto ha tutte le caratteristiche di quel che nella storia sono le rivolte popolari contro le élite?
L’alto e il basso
Certo, in ogni svolta analoga nella storia ci sono membri delle élite che appoggiano la rivolta o se ne pongono addirittura a capo – ci sono gli Elon Musk e, naturalmente, i Trump -, e ci sono quelli che non han voglia di rischiare di rimanere coi loro simili dalla parte perdente – i Bezos, insomma. Però non c’è dubbio che la strategia di coloro che si sono opposti a Trump muoveva dall’alto, mentre la sua, in misura preponderante, era ispirata dai sentimenti che con forza salivano dal basso.
Ha semplicemente inteso il vissuto popolare
Dovrebbe essere abbastanza chiaro da cosa quei sentimenti scaturivano. L’America ha ottenuto negli ultimi decenni un’apparentemente incontrastabile dominio sul mondo, imponendo quei processi di globalizzazione dell’economia che hanno fatto la fortuna delle sue élite, segnando però il destino dei ceti popolari.
Soprattutto il decentramento produttivo ha ottenuto un’illimitata disponibilità di merci a basso costo, trasformando però gli americani (e non solo loro) in consumatori compulsivi, che vedono di giorno in giorno erodersi le basi della loro sussistenza – mentre vengono emergendo irresistibilmente le economie non occidentali. A eleggere Trump è stato soprattutto il mondo che si può trovare nel romanzo autobiografico di J. D. Vance, quando non era ancora affatto un suo sostenitore.
La diffusa percezione di un declino dell’America si radica in quei sentimenti popolari. C’è una verità amara: un Paese, anche grande e potente, sta minando le sue basi quando il divario tra élite e popolo si allarga fino a diventare incolmabile. Qualunque cosa si pensi di Trump, bisogna ammettere che quei sentimenti popolari ha saputo intenderli, con tutto ciò che essi implicano; e farsene interprete, fino a dar forma a un progetto politico
Si apre uno scenario futuro
In cosa questo progetto esattamente consista, e quali possibilità di attuarsi abbia, è tutto da vedere. Senza poter escludere, data la radicalità dello scontro, che qualcosa possa ancora accadere – ancheun nuovo attentato. Il punto infatti è che questa svolta è gravida di futuro. E molti sicuramente penseranno ad Elon Musk, ma la figura che più profondamente lo richiama è Robert Kennedy Jr.
Il fatto che a salire al Ministero della Sanità possa essere colui che, oltre a farsi erede della più prestigiosa famiglia della politica americana – collegando simbolicamente Trump alle tragiche vicende, apparentemente assai diverse, del padre e dello zio -, è il portavoce del dissenso alla politica sanitaria quale si è soprattutto espressa nel periodo del covid, dischiude una prospettiva inimmaginabile e vertiginosa. Si può fin da adesso prevedere che su di lui convergeranno gli attacchi più implacabili.
Si dovrà prendere atto che, oltre allo scontro che oppone l’Occidente alle aree mondiali altre, ce n’è uno interno all’Occidente, intorno alla salute, alla scienza e a tutto ciò che vi è connesso. Uno scontro di paradigmi, visioni antropologiche, sensibilità. Anche qui c’è qualcosa che emerge e qualcosa che è in declino – con la differenza che ciò che emerge non ha ancora la forza sufficiente per imporsi.
In ogni caso si chiude il passato
In ogni caso queste elezioni segnano la sconfitta, credo definitiva, del movimento neocon, che ha condizionato pesantemente la politica estera americana negli ultimi decenni. Significativo il sostegno alla Harris, oltre delle varie Taylor Swift, di Cheney e Kagan, personaggi di primo piano di quel nefasto movimento.
Era un movimento che partiva in fondo anch’esso dalla consapevolezza dell’ineluttabile declino americano, ma ne vedeva la via d’uscita in una guerra infinita, avendo come nemico principale in fondo sempre la Russia; una guerra attraverso cui mantenere l’elemento chiave della supremazia americana: cioè il predominio del dollaro negli scambi internazionali. Ebbene, è evidente come, nell’imminenza delle elezioni americane, il vertice del BRICS a Kazan (guarda caso in Russia) abbia prefigurato uno scenario ben diverso.
Può anche darsi che in passato Trump con maggior lungimiranza dei suoi nemici si fosse confrontato con questa possibilità, cercando forse di prevenirla. L’idea di una distensione dei rapporti con la Russia per staccarla dal rapporto con la Cina, e con tutto un mondo asiatico verso il quale si sta irresistibilmente spostando il baricentro mondiale, corrispondeva a una strategia che avrebbe meritato più comprensione. In ogni caso quello che nelle sue parole viene colto come ostentata dichiarazione di suprematismo (rendere l’America nuovamente grande) dovrebbe venire inteso per quel che alla fine nei fatti inevitabilmente è: il tentativo di ridefinire un ruolo in un mondo in cui l’America non avrà più supremazia.
Non può sfuggirgli un dato con cui chiunque dovrebbe confrontarsi: noi occidentali (nordamericani ed europei) siamo soltanto un decimo della popolazione planetaria. Sarebbe davvero ora di capirlo.
E’ nato nel 1956 a Torino. Dopo la partecipazione giovanile alle vicende politiche degli anni settanta, di cui è testimonianza il libro-intervista I non garantiti, pubblicato da Savelli nel 1977, si è laureato in filosofia con Gianni Vattimo e ha iniziato a insegnare nella scuola superiore. Nel frattempo ha intrapreso un cammino religioso caratterizzato soprattutto dall’incontro con il Dharma buddhista, che paradossalmente lo ha riavvicinato alla fede cristiana. Da tale cammino sono frutto la rivista Interdipendenza (dal 2005 al 2008), l’associazione Interdependence e un ampio numero di articoli, convegni e iniziative educative. Nel 2009 ha pubblicato (con Cristiana Cattaneo) Tornare a educare, un’ampia riflessione filosofica, sociologica e psicologica sulla crisi dell’educazione nella società contemporanea, e nel 2017 Famiglia culture e valori, una ricerca antropologica sul rapporto uomo-donna, la famiglia e l’educazione presso le comunità immigrate di Torino – entrambi i libri da Effatà. Nel 2013 ha curato per Aracne Raimon Panikkar filosofo e teologo del dialogo. Nel 2018 è diventato monaco buddhista, cominciando a dare avvio a un nuovo cammino spirituale, in cui il Dharma si incontra con le due radici dell’Occidente: la filosofia greca e la tradizione religiosa ebraico-cristiana.