Alessandro Politi: “Ucraina e Gaza sono certamente dei problemi, ma guai se scoppia una guerra mondiale del Pacifico”
Sale la tensione nel mondo. L’attacco terroristico al Crocus City Hall di Krasnogorsk, nei sobborghi di Mosca, vede il bilancio di morti salire di ora in ora. Ora siamo ufficialmente a 133 morti accertati, ma è stato reso noto che almeno altri 16 feriti versano in condizioni disperate. L’attentato è stato rivendicato da una costola dello Stato Islamico e nelle ore sarebbero stati assicurati alla giustizia i terroristi da quanto fa sapere il Cremlino.
Il Servizio di sicurezza federale russo (Fsb) in queste ore afferma che i terroristi intendevano attraversare il confine tra Russia e Ucraina in auto e avrebbero “contatti rilevanti sul lato ucraino“. L’attacco terroristico sarebbe stato accuratamente pianificato e gli autori avevano armi preparate in anticipo in un covo, ha osservato l’Fsb, aggiungendo che si sta lavorando per determinare tutte le circostanze dell’incidente. Undici persone sono state arrestate in relazione all’attacco fino ad ora, di cui quattro direttamente responsabili. Tutti e quattro sono stati arrestati nella regione di Bryansk, al confine con l’Ucraina, a poche ore di distanza l’uno dall’altro. Gli Stati Uniti sin dal primo momento hanno escluso il coinvolgimento di Kiev e anzi hanno affermato di aver avvertito Mosca circa la possibilità di attentati islamici già negli scorsi mesi.
A prescindere dall’accertamento delle responsabilità che sarà oggetto di varie ricostruzioni, sicuramente contestate reciprocamente tra i vari attori del conflitto russo ucraino, è evidente che questo attentato rischia di alimentare nuove tensioni internazionali sia tra l’Occidente e la Russia, sia tra la Russia e alcuni paesi mediorientali. Il mondo si sta tramutando, dopo decenni di pace o di conflitti a bassa intensità, in una grande polveriera. Per approfondire questo tragico momento storico abbiamo intervistato Alessandro Politi Direttore della NATO Defense College Foundation, l’unico centro studi riconosciuto dalla NATO.
– Nell’intervista che ci ha recentemente concesso, il professor Virgilio Ilari ha definito il conflitto in Ucraina come una guerra per procura “doppia”, condotta cioè sia dagli Stati Uniti contro la Russia per mano di Kiev, sia dalla Russia stessa contro gli USA. Qual è la Sua opinione in merito?
– L’idea della guerra per procura risulta molto fastidiosa al governo di Kiev e ai commentatori filo-ucraini, perché toglie valore all’argomento per cui tale conflitto sarebbe soprattutto una guerra europea, ma c’è chiaramente un sostegno esterno dato ai due belligeranti. La situazione creatasi in Ucraina non è gradita a uno dei due contendenti indiretti. Ritenere che gli USA abbiano caldeggiato la guerra è qualcosa di esagerato: vi sono state spinte per tirare Kiev con metodi speditivi dentro la UE e la NATO, come si è visto prima e durante la rivoluzione di Euromaidan del 2014. Anche nell’amministrazione Biden vi sono elementi che hanno spinto verso la rottura con la Russia, ma è francamente eccessivo pensare che abbiano desiderato far scoppiare una guerra, salvo credere che nel governo americano oggi siedano degli aspiranti Dottor Stranamore.
Questa guerra non è negli interessi di Biden e nemmeno di Trump. Le loro priorità da presidenti o da candidati presidenti sono le stesse, e non contemplano né l’Ucraina e nemmeno Gaza, bensì la ricostruzione del proprio Paese – che ne ha un gran bisogno – e poi la Cina.
Tutti gli altri temi, pur avendo la loro importanza, sono secondari. La prova del nove di tale assunto è questa: quando si è domandato se l’Ucraina potesse entrare nella NATO, è stato detto “no” in maniera chiara e netta, pur avendo concesso a Kiev tutto il possibile per elevare il proprio status di partner. Si è poi ampiamente constatata la cautela con cui Washington invia armamenti, appunto perché non vuole rischiare una guerra con una potenza nucleare come la Russia, di pari valore agli USA. Inoltre un conto è aiutare un partner, un conto svuotare i propri arsenali quando la situazione si prevede sia ancora più tesa: armi a Kiev sì, ma entro certi limiti.
Potremmo dire che ci troviamo nella condizione di essere a un passo dalla guerra per procura. Per stabilire quanto siamo vicini a quella soglia, si potrebbe aprire un serio dibattito accademico oppure valutare quali sono le sfumature politiche, peraltro evidenti, delle circostanze in cui siamo oggi. Non si tratta di stabilire se gli USA siano i buoni o se Putin sia cattivo, ma di uscire nello stato di confusione in cui oggi troppa gente si trova, convinta che l’Europa e la NATO siano de facto in guerra con la Russia, il che non è vero. Non siamo in guerra con Mosca. La guerra è una realtà in Libia, Siria, Palestina, Israele, Ucraina, ma non in Europa de jure o de facto.
Siamo invece in una condizione di “neutralità ostile”, neutralità non benevola (o non belligeranza), che consiste nel mandare armi all’avversario della Russia. È utile precisare che la NATO fornisce a Kiev aiuti non letali, perché a mandare armi è il Gruppo di Ramstein composto da 47 Paesi. Sono due cose totalmente diverse, sebbene vengano spesso confuse anche per colpa di media locali ed internazionali. Per esempio, quando è stata annunciata la visita di due altissimi ufficiali, un americano e un britannico, nel corso della controffensiva del 2023, si è detto che erano della NATO: e invece erano là in qualità di capi militari dei rispettivi Paesi e non portavano le insegne dell’Alleanza Atlantica. Ieri è arrivato in visita a Kiev il Presidente del Comitato Militare della NATO, Ammiraglio Rob Bauer: è un segnale simbolico e nulla più perché sono i singoli alleati nel Consiglio del Nord Atlantico che decidono la linea politica.
L’Ucraina è un partner che viene aiutato con mezzi concreti ed in questa situazione politica ed ideali sposano gli interessi in gioco; in questo caso l’interesse è non permettere alla Russia di fare quello che sta facendo, altrimenti l’Europa diventerebbe un posto molto pericoloso, come lo è stata per secoli. Anche per i russi.
Se passa il precedente della Crimea, Kaliningrad, ad esempio, diventerebbe contestabile, essendo Królewiec per i polacchi e Königsberg per i tedeschi. È ciò che abbiamo impedito in Bosnia Erzegovina, magari con una soluzione imperfetta e difficile da gestire, ma abbiamo stabilito il principio sacrosanto per il quale in Europa i confini non si cambiano a colpi di cannone. Questo non è un tabù astratto, ma un modo molto concreto di evitare guai ben peggiori.
– Due fatti. Il senatore repubblicano Lindsey Graham ha visitato Kiev e ha invitato il governo ucraino ad approvare una nuova legge sulla mobilitazione criticando il fatto che finora venivano arruolato solamente i cittadini sopra i 27 anni, mentre lui vorrebbe che siano precettati quelli dai 25 in su. Il giornale tedesco Der Spiegel ha affermato che vi sono prove della distruzione del Nord Stream 2 per mano dei servizi ucraini, che pure non avevano i mezzi per farlo (suggerendo che vi sia stato un aiuto esterno).
– Che, ragionando freddamente, l’interesse di far saltare il gasdotto non fosse né ucraino né russo, è un tema su cui si potrebbe discutere a lungo…
– Però aggiungiamo ciò che riporta addirittura il New York Times, secondo cui l’accordo di pace fra Mosca e Kiev, pronto già nella primavera del 2022, venne fatto saltare dal premier britannico Boris Johnson. Ora, tutti questi indizi, prove e fatti non ci portano a pensare che il conflitto ucraino sia in realtà una guerra per procura degli angloamericani contro i russi?
– Vede, qui non si tratta di difendere aprioristicamente la tesi per cui no, non è in corso una guerra per procura contro la Russia. È evidente a tutti che vi siano interessi esterni in gioco e che vengano approvate decisioni non certo improntate alla neutralità e all’equidistanza. Tuttavia vorrei sottolineare che non sussistono le condizioni per una guerra di procura, perché ci troviamo ancora sotto quella soglia. Vietnam e Afghanistan furono esempi ben più evidenti di guerra per procura. Forse domani varcheremo quella soglia…
Inoltre, se vi sono forti interessi esterni nel conflitto, bisogna anche constatare che talvolta si tratta di interessi contrastanti di Paesi diversi o persino all’interno degli stessi Stati. Mi ricollego al caso del senatore Graham il quale, al pari di una nota senatrice democratica, si è messo a fare il battitore libero, creandodisagio all’amministrazione Biden (specialmente in tempi di campagna elettorale). Succede in democrazia, ma complica la gestione di una crisi. Personalmente la proposta di Graham mi ha preoccupato per gli amici ucraini. Essa finisce per ricordare il Volkssturm istituito in Germania nel 1944 quando l’età di leva venne drasticamente abbassata, anche se la proposta di Graham è più limitata,
Oggi però l’Ucraina ho un potenziale ridotto di vite da sacrificare nella fornace della guerra. Se in tempi normali si perdevano all’anno 100.000 non nati, in tempi di guerra se ne perdono il doppio inclusi i caduti. Zelensky sarebbe anche pronto ad approvare una precettazione più ampia, ma già con le norme attuali la renitenza alla leva degli ucraini comincia ad essere alta e corrode l’immagine internazionale di unione sacra contro il nemico. Persino Vladimir Putin è molto prudente in termini mobilitazione: ha già perso circa 200.000 renitenti alla leva.
Graham ha fatto la sua dichiarazione, ma un senatore non può mandare le armi: al massimo può contribuire a bloccarne l’invio. Vale la pena di ricordare la schermaglia politica tra Biden ed il cancelliere Olaf Scholz sui carri armati: il tedesco, sotto pressione perché inviasse i Leopard, collegò il loro invio alla fornitura di Abrams americani all’Ucraina. I carri continuano ad arrivare, ma al rallentatore. È inutile negare che gli interessi ci sono e che nei governi e parlamenti vi è chi spinge verso la guerra e chi desidera una disfatta russa, e lo dice apertamente. In guerra il silenzio è d’oro, ma in democrazia si può (stra)parlare.
Con riferimento al Nord Stream, bisogna dire che gli ucraini avevano le capacità per far saltare il condotto. In realtà, ci sono diversi Paesi nella regione con unità speciali di sommozzatori da combattimento e il Mar Baltico è piccolo e non è profondo. Sull’attacco al Nord Stream 1 e 2 vi sono state due ricostruzioni. L’americana, la prima ad uscire, era veramente articolata e ben architettata con una scuola subacquei semisegreta a Miami, esercitazioni navali a copertura del sabotaggio, posa di cariche detonabili acusticamente… Bella.
Poi c’è la prosaica inchiesta fatta dai tedeschi, che mostra una barca polacca con operatori ucraini a bordo. In altre parole, vi sono diverse ricostruzioni, di cui la seconda è forse la più ragionevole. Ci si può chiedere perché quest’operazione sia stata decisa: i gasdotti erano già vuoti e l’UE aveva deciso di “derussificare” il suo portafoglio energetico. Probabilmente c’era l’intenzione di segnare una svolta irrevocabile nella relazione Russia-Germania e dunque Russia-Europa. L’obiettivo sarebbe stato quello di troncare totalmente le forniture di gas russo all’Europa, anche se almeno un gasdotto via terra risulterebbe ancora operativo.
Quest’operazione, condotta secondo precise logiche operative, strategiche e politiche a breve, potrebbe tuttavia a più lungo termine complicare il dibattito europeo sull’allargamento ad Est. Del resto, anche l’opposizione al Nord Stream 2 era legata a concreti interessi economici: l’alternativa del progetto Opal avrebbe avuto un percorso terrestre lungo i paesi rivieraschi del Baltico e quindi il placet di molti che apparentemente consideravano il gas russo una minaccia strategica. Se si considera l’insieme dei fatti, la visione degli eventi diventa più completa e meno manichea.
Riguardo all’accordo di pace (neutralità ucraina contro confini de facto del 2014) fatto saltare da Johnson, non ho elementi per pronunciarmi; se fosse stato così, le conseguenze avrebbero un costo considerevole per il Regno Unito. Con la guerra in corso, Londra si sta scoprendo terribilmente sguarnita quanto a capacità di deterrenza convenzionale. Se togliamo il nucleare dalle spese militari, vediamo che non raggiungono il 2% del PIL ed in ambienti strategici circola la battuta che la British Army c’entri tutta nello stadio di Wembley. C’è chi crede che la Global Britain sia in grado di fornire garanzie di sicurezza all’Ucraina, ma nel 2022 Kiev riteneva più utile una fine rapida e negoziata del conflitto, bollata all’esterno come appeasement. Una parola usata a sproposito da molto tempo perché in realtà fu una fredda politica inglese prima per evitare una guerra, che già si sapeva rovinosa per l’Impero (e così fu), e poi per guadagnare tempo, riarmandosi. Non si sarebbe gloriosamente vinta la Battaglia d’Inghilterra senza l’infausto accordo di Monaco.
Tutta questa storia indica come i decisori politici possano commettere gravi errori, pur calcolando al meglio i pro ed i contro. Quando, per esempio, nel gennaio 2022 molti dicevano che Putin stava per invadere l’Ucraina, io avevo dei forti dubbi perché mi chiedevo quanto una guerra fosse contraria ai suoi interessi. Sbagliavo perché la sventurata invasione avvenne, ma, contrariamente ai calcoli anche americani, l’Ucraina non si è sfasciata, gli ucraini russofoni hanno combattuto e Zelensky non è fuggito in esilio come gli aveva offerto Biden. Mosca ha un quinto dei territori in mano: un successo operativo ed un fallimento strategico su quel fronte. Politicamente Putin può sfruttare un successo parziale, ma per quanto? Sì, di cointeressenze esterne nel conflitto ucraino ce ne sono eccome, e una di quelle che conosciamo meno è quella della Cina, la cui influenza su Mosca è molto cresciuta.
Infine, mentre si parla di economia di guerra dovremmo riflettere seriamente sulle sanzioni. Alcune funzionano, ma non subito ed in genere dopo un decennio (Guerra Fredda docet), altre invece sono dannose per gli interessi europei perché non funzionano affatto. Oggi l’Europa paga l’energia dalle due alle cinque volte in più: è un prezzo pesantissimo. Poiché l’Europa non è un bancomat, se non produce burro non avrà cannoni né per la sua difesa, né per quella dell’Ucraina, né potrà finanziarne la ricostruzione.
L’economia russa è piccola e fragile a confronto, ma evidentemente i russi hanno una serie di privati, politici ed intermediari che aggirano le sanzioni e che, insieme all’effetto bellico, hanno permesso di drogare l’economia, con risultati persino apparentemente soddisfacenti sulla popolazione.
– Macron recentemente è venuto alla ribalta con dichiarazioni molto aggressive, relative all’eventualità di un invio di truppe NATO sul campo. Eppure a inizio 2022 il presidente francese era una “colomba”: come si spiega tale cambio di atteggiamento? Esiste un pericolo serio di escalation?
– Oggi parliamo di Emmanuel Macron per le sue parole sull’invio di truppe, ma bisogna anche precisare che alla riunione che ha fatto al “triangolo di Weimar” con tedeschi e polacchi è uscito il messaggio che né Francia, né Polonia, né Germania vogliono l’escalation. Se invece citiamo l’articolo di Ferrara dove si parla di “una sofisticata abilità strategica”, dobbiamo notare che si rischia lo scambio tra un magnifico schema intellettuale e questioni molto più prosaiche. Tornando alle parole di Macron, bisogna chiedersi di quali soldati stesse parlando.
Se intendeva soldati senza mostrine, come durante la guerra di Spagna, allora si possono fare tante cose… Certo, se poi cadono prigionieri è spiacevole, come accaduto col battaglione Azov nel quale vi erano parecchi volontari di vari Paesi e di vario colore politico: ma l’imbarazzo politico si può superare.
Se invece si tratta di soldati a tutti gli effetti con proprie insegne e bandiere, bisogna che venga prima stabilito che funzione avrebbero e quale sarebbe la loro missione. Se mandiamo uomini nell’ambito di un cessate-il-fuoco, sotto l’egida ONU e per garantire una zona smilitarizzata di 120 chilometri, allora le parole di Macron avrebbero un senso. Se invece li mandiamo per sparare sui russi o per impedire con la loro presenza fisica che avanzino, allora dobbiamo chiederci cosa succederebbe dopo.
Naturalmente, la Francia dispone di un deterrente nucleare e ha la sua dottrina nucleare, basata sulla cosiddetta “dissuasione dal debole al forte”: però tale dottrina si giustifica ed è credibile solamente se in funzione di difesa dell’Hexagone, ossia i confini continentali francesi. Non sarebbe questo il caso, dove entrerebbe in gioco una dissuasione estesa ad un partner della NATO, cioè fuori dall’articolo 5 del trattato che creò l’Alleanza.
Durante la Guerra Fredda ci si chiedeva sempre quale sarebbe stato il successivo passo dell’escalation. Purtroppo, quando le guerre finiscono la memoria si accorcia e si disperde la trasmissione del sapere orale che accompagna quello codificato per iscritto, sia strategico che politico. Oggi solamente Biden, Putin e Xi Jinping ricordano bene la Guerra Fredda, ma altri dirigenti mondiali non sembra. Eppure siamo, ci piaccia o no, in un’altra epoca.
– Potrebbe essere questo il motivo per cui Putin preferirebbe Biden come interlocutore? Perché parlano la stessa lingua?
– Biden è un professionista con una lunga carriera maturata durante la Guerra Fredda e poi come vice di Barack Obama. Chi dice che ormai è un nonnetto un po’ rimbambito sbaglia. Al netto delle gaffe e degli inciampi, il presidente americano è un uomo di grande freddezza, autocontrollo e competenza politica. Ricordo la tenuta con cui rispose ad un Trump che non voleva concedere ed ammettere la sconfitta elettorale.
– Se dovesse vincere Trump quali sarebbero le prospettive per il conflitto in Ucraina e per quello in Medio Oriente, visto il suo sostegno per Israele nel suo primo mandato?
– Ipotizziamo che Trump vinca e che si ritiri dalla NATO: noi allora che facciamo? Tralasciamo pure le dichiarazioni elettorali dei candidati e concentriamoci sulla sostanza. Se Trump ritiene la NATO uno strumento inutile e che devono essere gli europei a sbrigarsela, noi da membri dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione Europea dobbiamo cominciare a occuparci in modo serio del nostro futuro. Dobbiamo pensare a come ricostruire ciò che è stato smantellato con la fine della Guerra Fredda. Chi oggi parla da guerrafondaio dimentica che, dopo ogni guerra, le spese militari vengono tagliate: è normale ed è sempre successo. Gli europei sanno che, finché in Russia governerà Putin, allora non sono escludibili con certezza altre avventure militari in Paesi non-NATO; ma la NATO si regge finché è credibile il suo deterrente sia convenzionale che nucleare.
Quello nucleare lo potranno fornire ancora gli USA se questa sarà la scelta del presidente americano, chiunque sia. Per quello convenzionale siamo noi ad avere una responsabilità oggettiva, perché siamo in Europa e i confini sono i nostri. Dovremmo smetterla di fissarci col 2% di PIL, è solo una finzione monetaria, mentre dovremmo sapere quali capacità concrete abbiamo e quanti mezzi e uomini a nostra disposizione vogliamo schierare per rendere i confini sicuri o comunque meno appetibili a un’eventuale aggressione. Se qualcuno crede sul serio che i russi attaccheranno un Paese NATO, allora mi aspetto che faccia reintrodurre la leva obbligatoria di due anni: in guerra si distruggono mezzi ed anche uomini.
Sicuramente, tutto ciò ha un costo e ci vorrà un decennio per costruire una forza del genere, così come ci vorrà un decennio agli ucraini per risistemare le loro forze armate e il Paese devastato e tecnicamente fallito. Dovremmo finalmente occuparci di tali questioni in modo serio pure se venisse riconfermato Biden, il quale potrebbe decidere di spostare risorse preponderanti verso l’Asia, lasciando sguarnita l’Europa dal punto di vista convenzionale. Niente di cui stupirsi: in passato lo fecero ben tre presidenti americani durante la Guerra del Vietnam, quando avevamo i sovietici alle porte di casa.
Ancor oggi, sia pure con esitazioni, è l’alleato americano a dare la linea generale. Allora per gli europei è fondamentale standardizzare i propri armamenti. Abbiamo dieci tipi diversi di Panzer, è inaccettabile. I quattro grandi Stati europei, senza contare Polonia e Regno Unito, spendono ancora il doppio di quanto spende la Russia che è in economia di guerra, dunque è ovvio che l’UE stia spendendo male!
– Polonia: come legge l’avvento di Tusk da primo ministro a Varsavia, anche in funzione del peso delle Repubbliche baltiche in UE e nella NATO?
– La Polonia nella storia ha scelto diversi ruoli. Risaliamo a un secolo orsono, quando Piłsudski, che difese la Polonia dall’invasione dell’Armata Rossa, era un dittatore militare. Era un seguace della dottrina del “prometeismo”: come Prometeo si ribella a Zeus, i Paesi dell’Europa dell’Est si devono ribellare a Mosca e decolonizzarsi, fino addirittura a frantumare la Russia in tanti Stati, liberi anch’essi.
Ecco, è questo il precedente del partito PiS che era al governo a Varsavia fino allo scorso anno col premier Morawiecki. Con l’attuale governo socialdemocratico ed europeista la sfumatura è diversa anche se la geopolitica ha le sue continuità. Fino al XVIII esisteva la Confederazione polacco-lituana, la quale per un certo periodo fu una grande potenza: è naturale che Varsavia si occupi del Baltico e delle piane ad est della Vistola. Dunque la Polonia aveva già una sua storia: l’attuale conflitto l’ha semplicemente riportata in luce, con nuova urgenza, tra cui il desiderio di un ruolo militare forte, ma senza arrivare alla leva.
– In caso di disimpegno americano, dal punto di vista finanziario l’Europa non riuscirebbe a sostenere l’Ucraina, permettendo così una sua sconfitta totale?
– I tempi sono abbastanza maturi per trovare un difficile punto di equilibrio tra i belligeranti. La Russia sa di avere un certo vantaggio nel conflitto, ma dice di essere disponibile a trattare, anche se solo trattando si saprà veramente. Per l’Ucraina la guerra rischia di divenire insostenibile da tutti i punti di vista, compreso quello umano, elemento chiave della questione.
Gli europei non sono in grado simultaneamente di ricreare la loro deterrenza convenzionale, ricostruire l’Ucraina e riarmarla. E nemmeno gli USA, altamente indebitati, potrebbero farlo. Gli ucraini hanno diritto a recuperare tutto, anche la Crimea, ma tutto e subito non è fattibile. Quindi bisogna lavorare sul tempo.
Nella lunga storia europea questo è avvenuto spesso: noi italiani, per esempio, impiegammo un secolo a riunificare il Paese. Dopo la Prima Guerra di indipendenza facemmo un armistizio, una pace temporanea e poi dieci di anni di pausa e di ricostruzione, per poi riprenderci la Lombardia, ma non ancora il Veneto.
Gli ucraini, purtroppo, hanno di fronte a loro un dilemma semplice da esprimere e difficile da risolvere. Vogliono puntare su una controffensiva a giugno, sperando di resistere a un’eventuale offensiva russa ad aprile o maggio? Oppure preferiscono arrestare la guerra e cominciare a organizzarsi, prima ancora che vi sia il risultato elettorale delle presidenziali americane di novembre? Il candidato vincitore avrà vinto con un margine di consenso molto piccolo rispetto al suo avversario, soprattutto se dovesse vincere Biden. E avrà altri problemi da affrontare, non soltanto l’Ucraina. In alternativa, ciò che aspetta gli ucraini è una combinazione fra la pace di Kabul e quella di Monaco.
Chiunque vinca, non è una questione di uscire o meno dalla struttura militare alleata della NATO: gli USA possono ancora permettersi di pagare l’intero bilancio dell’Alleanza, ma per mandarla in anemia è sufficiente che si disimpegnino sulla sostanza politica.
– Il Medio Oriente rischia di diventare un quadrante ancora più caldo dell’Ucraina?
– Ucraina e Gaza sono certamente dei problemi, ma guai se scoppia una guerra mondiale del Pacifico. Questa è la vera minaccia alla pace planetaria. Per gli americani il Pacifico è di gran lunga più importante dell’Europa. Sì, gli statunitensi fecero lo sbarco in Normandia, ma il teatro bellico nel quale spesero le maggiori risorse umane e materiali fu il Pacifico. Nella Seconda Guerra mondiale gli USA furono l’unico Paese ad aver vinto una guerra su due fronti, aiutando pure le forze armate di altri Stati, fra cui Regno Unito e URSS.
Trump promette da presidente di far finire subito la guerra, come in Afghanistan. Gli israeliani possono contare sul tacito supporto di Washington, sapendo però di essere per gli USA una questione di terzo o quarto rango rispetto alla Cina. Tuttavia, Trump potrebbe sorprenderci, cambiando approccio in entrambi i casi.
La strada verso le elezioni americane è ancora lunga e tortuosa: saranno elezioni molto combattute e probabilmente l’esito verrà contestato, a meno che Trump non riesca alla fine a presentarsi come l’uomo della Provvidenza e a far smottare il voto democratico.
Nato a Torino il 9 ottobre 1977. Giornalista dal 1998. E’ direttore responsabile della rivista online di geopolitica Strumentipolitici.it. Lavora presso il Consiglio regionale del Piemonte. Ha iniziato la sua attività professionale come collaboratore presso il settimanale locale il Canavese. E’ stato direttore responsabile della rivista “Casa e Dintorni”, responsabile degli Uffici Stampa della Federazione Medici Pediatri del Piemonte, dell’assessorato al Lavoro della Regione Piemonte, dell’assessorato all’Agricoltura della Regione Piemonte. Ha lavorato come corrispondente e opinionista per La Voce della Russia, Sputnik Italia e Inforos.