Pensavamo di essere padroni del nostro destino mentre altri decidevano per noi. Marcello Foa racconta “Il Sistema Invisibile”

Pensavamo di essere padroni del nostro destino mentre altri decidevano per noi. Marcello Foa racconta “Il Sistema Invisibile”

13 Novembre 2022 0

La mia è una visione apocalittica. Ma se accanto a essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero c’è che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare“. Questa frase, pronunciata non da un cospirazionista, ma dallo scrittore e giornalista Pier Paolo Pasolini rappresenta con estrema efficacia il sentimento che permea ogni singola pagina del nuovo saggio scritto dal professor Marcello FoaIl Sistema (in)visibile. Perchè non siamo più padroni del nostro destino“, edito da Guerini e Associati e uscito proprio recentemente in tutte le librerie italiane. Si tratta di uno studio approfondito ma mai noioso, che spiega in modo completo le ragioni profonde per le quali la politica appare sempre più distante dalle esigenze delle masse, dei popoli. Secondo la, tesi dimostrata dall’ex presidente della Rai, ciò avviene semplicemente perchè tali decisioni, quelle che contano per difendere i diritti e la prosperità delle comunità, vengono semplicemente prese altrove rispetto ai luoghi titolati per assumerle. Le élite, i think tank, Ong, Fondazioni solo all’apparenza indipendenti, monopoli o oligopoli sono diventati il reale centro pulsante e promotore di un globalismo per pochi. Un sistema insomma invisibile ai più, pronto anche ad adottare le tecniche di influenza psicologica e manipolazione comportamentale pur di modellare il futuro secondo le proprie convenienze e gli obiettivi che intende perseguire. Si tratta di un saggio estremamente potente che facendo nomi e cognomi cerca di fornire agli anticorpi ai lettori italiani verso un mondo sempre meno libero e democratico.

– Come nasce questo saggio?

– Nasce dall’esperienza personale. Già nel 2006 avevo scritto il libro “Gli stregoni della notizia”, nel quale analizzavo i meccanismi di condizionamento dei media. In seguito mi sono interessato ad altre forme di condizionamento, anche grazie al lavoro di inviato speciale: andando in giro per il mondo, notai come i Paesi stessero perdendo le loro peculiarità per assomigliarsi sempre di più. Andando nel resto d’Europa, in Asia o in America vedevo cambiare i tratti somatici, ma lo stile di vita, i negozi e le abitudini tendevano ad essere sempre gli stessi. Ho iniziato a interrogarmi su tali dinamiche, sviluppando una serie di osservazioni e di letture che mi hanno permesso di comporre il puzzle.

– Possiamo considerare la Sua nuova opera il manifesto di come il mondo abbia stracciato il contratto sociale così come lo conosciamo dai tempi di Rousseau?

– Direi piuttosto il manifesto di come l’Occidente abbia cambiato anima dopo il crollo del Muro di Berlino, senza accorgersene e senza che ciò venisse dichiarato: da qui il profondo malcontento e il disagio degli elettori e dei cittadini, che non si sentono più rappresentati e che, come dice il sottotitolo stesso del libro, non sono più padroni del loro destino.

– Sentiamo spesso discutere della propaganda politica, ma nel libro Lei spiega come sia molto più pregnante quella sociologica. Come vengono orientate o “educate” le masse oggi?

– Vi sono diversi studi in proposito, svolti nel corso di molti anni, in particolare dal KGB. C’è infatti un aspetto storico poco conosciuto, ma a mio parere molto significativo: USA e URSS non hanno lottato soltanto sul piano economico, politico e strategico, ma combatterono anche una guerra culturale, nella quale ciascuno cercava di influenzare il cuore, la mente e percezioni dei popoli appartenenti all’altro blocco. Un dato affascinante e inquietante è che in questa arte fu paradossalmente il KGB a risultare molto più efficace rispetto ai servizi americani. In seguito a questa esperienza sono state maturate delle tecniche di condizionamento che sono diventate universali e che verosimilmente negli ultimi anni sono state rese ancora più precise grazie alla prosecuzione degli studi. Possono così essere messi in atto dei meccanismi con cui orientare le masse, anche se ciò non significa tutti i cittadini, ma la maggior parte di essi. Processo che risulta efficace nel diffondere nuovi stili di vita e nel cambiare i valori condivisi di una civiltà. Ritengo siano aspetti sui quali occorre accendere un faro ed è quello che cerco di fare con il mio libro.

– Dunque i processi di influenza che Lei definisce “comportamentale” non sono tipici soltanto dei regimi autoritari, ma anche delle democrazie…

– Certo, anche delle democrazie. Ed è per questo motivo che sono processi “(in)visibili”. Sono meccanismi non dichiarati ma ineludibili, di cui non si parla mai sui media, che, però, sono decriptabili. Tali processi costituiscono ormai una parte fondamentale della nostra società e sono all’origine del malessere che colpisce le nostre democrazie.

– In tale ottica, quanto influiscono i think tank nell’orientare l’opinione pubblica e nell’indurre le persone a disporre in un determinato modo della loro libertà di scelta (che dunque perde il connotato di libera)?

Think tank, fondazioni e ONG influiscono molto e seguono un percorso coerente e circolare. La “circolarità” consiste in questo: i grandi azionisti delle società che prosperano grazie alla globalizzazione, anziché dichiarare tutto il loro reddito e pagare tasse ingenti, mettono una parte del patrimonio nelle fondazioni a loro intestate o da loro controllate, pagando così lo 0% di quell’imposta che in Italia si chiama IRPEF. In questo modo hanno in primo luogo un ritorno di immagine, perché possono presentarsi come “filantropi”; in secondo luogo con i soldi così investiti innescano dei meccanismi di influenza nella accademie, nei media e nell’attivismo sociale i cui fini ultimi combaciano con gli interessi dell’élite che indirizza e gestisce la globalizzazione, alimentando la tendenza a orientare l’opinione pubblica disgregandone i valori e l’identità. Questo sistema circolare funziona sotto una forma rispettabile – ma solo apparente – di autonomia, e basta scavare un po’ per accorgersi che dietro di essa si cela un interesse maggiore e di ampio respiro che ovviamente non viene dichiarato.

– I politici hanno ancora un certo ruolo oppure sono diventati delle marionette in mano ai privati o ai gruppi globalisti?

– Non parlerei di “marionette” in senso stretto, ma il discorso è più articolato. Vi sono alcuni politici che non appartengono all’élite globalista e che cercano di adempiere al loro mandato e al vincolo verso i propri elettori: di norma, vengono massacrati dai media sulla scena internazionale. Altri politici, invece, hanno capito dove tira il vento e per interesse personale si adeguano oppure non hanno la forza di opporsi: più che marionette, essi diventano meccanismi di un ingranaggio; e quelli di loro che salgono a un livello più alto hanno degli enormi benefici in termini di carriera. Nel libro faccio alcuni esempi di personaggi che passano da un incarico a un altro, dal pubblico al privato o dal nazionale all’internazionale e viceversa con percorsi strabilianti, non necessariamente e non solo giustificati dal merito.

– Quale peso hanno gli Stati Uniti nel modello globalista?

– Un peso importante, perché sono stati gli USA, unica superpotenza rimasta negli anni Novanta, ad avviare la globalizzazione. Inoltre il modello sociale al quale tendono tutti i Paesi occidentali – e non solo più quelli – è chiaramente ispirato al modello americano. Dunque, l’influenza sociologica e valoriale di Washington è enorme. Tuttavia, ciò che caratterizza la nuova classe dirigente internazionale è il non identificarsi più nel proprio Paese d’origine: per costoro la vera affiliazione, quella che consente di raggiungere un elevato prestigio, è transnazionale. Essere inglesi, francesi, canadesi o italiani è secondario, costoro non ragionano più in termini di nazionalità, ma di aderenza al sistema globalista di cui essi sono tra i principali beneficiari.

– Il modello globalista è ancora in buona salute?

– Sta perdendo colpi, ma è ancora presto per parlare di “de-globalizzazione”. Chi sfida la leadership americana e occidentale, cioè Cina, Russia, India, Brasile e altri Paesi, non vogliono rinnegare la globalizzazione in sé, perché ne traggono comunque dei vantaggi. Basti pensare alla Cina, che senza la globalizzazione non avrebbe beneficiato della crescita economica su cui basa oggi la sua forza o alla Russia che ha bisogno dei mercati internazionali perché la sua domanda interna non è sufficiente per vendere le sue materie prime. Tali Paesi chiedono una governance diversa, nuove regole della globalizzazione, non accettano più che siano gli Stati Uniti a pilotare lo sviluppo. Di certo la globalizzazione come conosciuta finora è offuscata: si è chiusa la fase in cui al comando vi erano soltanto gli USA e siamo entrati in quella di sfida alla leadership americana. È molto difficile prevedere come andrà a finire.

– Sono ancora necessarie le guerre militari oppure ormai sono utili soltanto quelle di ingegneria sociale?

– La guerra di ingegneria sociale rientra fra le tecniche di guerra asimmetrica o ibrida, che oggi sono la norma. Si combatte con tali strumenti, che sono estremamente insidiosi perché non dichiarati. I cinesi furono i primi a comprenderne l’importanza e a descriverli in un saggio pubblicato alla metà degli anni ’90. La potenza militare, comunque, è ancora un fattore importante e lo possiamo constatare nel conflitto in Ucraina. Inoltre vediamo come gli USA poggino la loro supremazia anche sulla Difesa, sfruttando il vantaggio che deriva dall’essere il maggiore investitore al mondo nell’ambito militare e dal disporre di una tecnologia che non ha rivali. Lo strumento militare adesso non è più quello prioritario, ma in determinate circostanze risulta ancora risolutivo, come dimostra la storia recente. Temo che anche la crisi di Taiwan non possa essere affronata solo con la guerra asimmetrica, perché se Pechino a un certo punto volesse riconquistare l’isola dovrebbe ricorrere alla forza militare – e gli USA naturalmente risponderebbero allo stesso modo.

– Quanta guerra psicologica c’è stata in Ucraina per preparare e poi sostenere il cambio di governo nel 2014 e quanta ce n’è oggi? Perché invece in Iraq e in Afghanistan l’esportazione della democrazia americana è fallita?

– La crisi in Ucraina iniziò ben prima del 2014, cioè nel momento in cui si fece ricorso alla cosiddetta “rivoluzione colorata”, la rivoluzione arancione del dicembre 2004 a Kiev, alla quale è seguito un gioco di preparazione con tali tecniche fino al culmine che si è avuto nell’Euromaidan. Come ormai è noto, la rivoluzione del Maidan venne infine decisa dall’intervento di truppe paramilitari che spararono sulla folla generando il caos e inducendo la caduta del presidente Yanukovych. Le rivoluzioni colorate – in realtà colpi di Stato abilmente mascherati – furono sperimentate in Kirghizistan e in Georgia e poi usate anche in Egitto, Tunisia, Siria. In Iraq e in Afghanistan non vi è stata “esportazione di democrazia” perché è mancata una delle tecniche principali per provocare il cambiamento: non vi è stata la propaganda sociale, lo strumento che in un periodo di tempo di circa 15 anni può cambiare i valori di una società tramite fenomeni che in apparenza sembrano innocui, ma che servono a preparare il terreno, in particolare agendo sulle nuove generazioni affinché assorbano nuovi stili di vita e nuovi valori che poi tracimano trascinando tutta la società. In Iraq e Afghanistan vi è stata un’occupazione militare vera e propria, che suscitando resistenza e risentimento alla fine ha generato il risultato opposto: oggi a Kabul vi sono i talebani al potere, mentre l’Iraq è un Paese che continua a non trovare pace.

– E quanta guerra psicologica viene attuata in Occidente nel racconto del conflitto in Ucraina?

– Direi che la narrazione del conflitto in Ucraina fatta agli occidentali è tutta guerra psicologica. Lo stesso accade in Russia. Si badi bene: la propaganda di guerra è sempre esistita, dal tempo degli antichi Romani e quello di Sun Tzu. Proprio quest’ultimo ne “L’arte della guerra”, risalente a più di duemila anni fa, parlava della necessità di manipolare le notizie per disorientare l’avversario. Quando c’è un conflitto militare si sa che è così: il problema per noi occidentali sorge quando queste tecniche di condizionamento dell’opinione pubblica vengono applicate in circostanze che non sono quelle di una guerra.

Marco Fontana
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