Gabes, la città del veleno in Tunisia si ferma contro il “mostro” chimico che produce fertilizzanti per i campi europei

Gabes, la città del veleno in Tunisia si ferma contro il “mostro” chimico che produce fertilizzanti per i campi europei

21 Ottobre 2025 0

Un silenzio denso come la nebbia chimica. Alle prime luci del mattino di oggi, Gabes si è svegliata nel silenzio. Non il silenzio della calma, ma quello della sospensione. Le serrande abbassate dei negozi, le strade vuote, le scuole chiuse. Il traffico, che di solito accompagna la città verso il mare, si è dissolto.

È il giorno dello sciopero generale: una città di 400 mila abitanti che decide di fermarsi, insieme, per poter tornare a respirare. Davanti alla sede del governatorato, uomini e donne si affollano sotto cartelli scritti a mano: “Vogliamo vivere”, “Non siamo cavie”.

La rabbia si mescola alla stanchezza, l’odore acre nell’aria resta lo stesso che da decenni soffoca la città. Gabes protesta contro il “veleno” che la uccide lentamente, contro un mostro industriale che ha tradito la promessa del progresso.

L’epicentro di una ferita nazionale

Il polo chimico del Gruppo chimico tunisino (Gct), costruito nel 1972, doveva rappresentare il simbolo della modernità della Tunisia post-indipendenza. Un complesso capace di trasformare i fosfati, la grande ricchezza del Paese, in fertilizzanti e acidi destinati all’export. Posti di lavoro, valuta estera, un futuro industriale: era questo il sogno. Oggi, trasformatosi in una maledizione.

Il polo di Ghannouch — il cuore nero di Gabes — riversa da oltre cinquant’anni tonnellate di scorie tossiche nel mare. Il fosfogesso, un sottoprodotto della lavorazione dei fosfati, contiene metalli pesanti, acidi e materiale radioattivo. Ogni anno, milioni di tonnellate finiscono direttamente nel Golfo di Gabes, tingendo il mare di un bianco lattiginoso e soffocando la vita marina.

Le immagini satellitari mostrano un paesaggio spettrale: colline di scarti chimici, vapori che si alzano dagli impianti, un mare morto dove un tempo si pescava il miglior pesce della costa tunisina. “Siamo circondati dal veleno”, racconta Saoussen Nouisser, rappresentante regionale dell’Ugtt, il sindacato più potente del Paese. “L’acqua, l’aria, il suolo: tutto è contaminato. E lo Stato tace”.

La città dei malati

Dal 4 settembre ad oggi, più di 330 persone sono state ricoverate per intossicazioni, affermano gli attivisti. Quattordici studenti, colpiti da crisi respiratorie e svenimenti improvvisi, sono stati trasferiti d’urgenza a Tunisi all’ospedale La Rabta.

“È iniziato con un odore fortissimo, come di uova marce”, ricorda una insegnante della scuola di Ghannouch. “Poi abbiamo cominciato a tossire, a non riuscire a respirare. Alcuni sono caduti a terra. È stato un incubo”. Negli ospedali locali, le diagnosi si ripetono: irritazioni alle vie respiratorie, dermatiti, bronchiti croniche. Ma molti medici, off record, parlano di casi sempre più frequenti di tumori al polmone, leucemie e malformazioni neonatali.

L’esposizione costante ai gas del complesso chimico — in particolare anidride solforosa, ossidi di azoto e ammoniaca — è ormai parte della quotidianità.

Le promesse non mantenute

Le proteste non sono una novità. Da anni la popolazione chiede lo smantellamento del polo chimico e il trasferimento delle unità industriali fuori dal centro urbano. Ma ogni promessa di bonifica si è dissolta nel nulla.

Progetti di mitigazione ambientale, finanziati per oltre 200 milioni di dinari (circa 65 milioni di euro), restano fermi da quasi un decennio. Durante la sessione parlamentare di ieri, il ministro delle Infrastrutture, Salah Zouari, ha ammesso che i lavori per ridurre le emissioni tossiche “sono completati solo al 98-99 per cento”, ma non operativi. Un cortocircuito burocratico che dura da dieci anni, mentre i cittadini si ammalano.

“È una negligenza inaccettabile”, ha denunciato il ministro della Salute, Mustapha Ferjani, che ha promesso l’avvio di un piano d’urgenza per affrontare la crisi. Ferjani ha anche riconosciuto la legittimità delle proteste, definendo le richieste degli abitanti di Gabes “umanamente e costituzionalmente giuste”, annunciando la costruzione di un centro oncologico per il 2026.

Il prezzo oscuro dei raccolti europei

L’inquinamento di Gabes è aggravato dal fatto che i processi e i sottoprodotti, in particolare fertilizzanti e mangimi, ottenuti con metodologie così inquinanti, e la cui produzione rilascia sostanze soffocanti e tossiche, sono spesso regolamentati o vietati in gran parte d’Europa proprio a causa dell’impatto ambientale.

Il fosfato, pilastro silenzioso dell’agricoltura intensiva, alimenta i fertilizzanti che garantiscono la produttività nei campi del Vecchio continente. La Tunisia, custode della quarta riserva mondiale di fosfati, ne esporta quantità notevoli, verso paesi come Francia, Italia, Spagna e Irlanda. Ma c’è un rovescio della medaglia, un prezzo pagato lontano dai confini. Mentre i fertilizzanti tunisini nutrono i terrenieuropei, gli abitanti del bacino minerario nordafricano stanno pagando un tributo altissimo.

L’implacabile sfruttamento minerario ha lasciato ferite profonde e indelebili: non solo un paesaggio sfigurato, ma soprattutto un lascito tossico sulla salute di intere generazioni che continuano a vivere e ammalarsi su quella terra ricca ma martoriata.

La continua domanda europea di materie prime a basso costo contribuisce a sostenere un modello industriale obsoleto e altamente inquinante in Tunisia, ignorando di fatto le sue esternalità ambientali e sanitarie oltre i suoi confini sud, tanto attenzionati nel controllo dei flussi migratori.

Finché l’UE non eserciterà una pressione più incisiva per l’applicazione di standard ambientali e sociali rigorosi lungo la sua catena di approvvigionamento, o non legherà il sostegno finanziario alla Tunisia a bonifiche effettive e non solo a promesse burocratiche, la sua dipendenza dai fosfati del Gct la rende moralmente complice del “progresso tossico” che sta avvelenando la città di Gabes.

Un modello industriale fuori dal tempo

La crisi di Gabes non è solo una questione locale, ma il sintomo di un modello economico che continua a privilegiare il profitto rispetto alla vita. L’intera economia tunisina dipende ancora dai fosfati, che rappresentano una delle principali fonti di export.

Secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica, nei primi nove mesi del 2025 le esportazioni del settore sono cresciute dell’ottoper cento. Un paradosso crudele: più fosfati si esportano, più Gabes si ammala. Il complesso chimico impiega direttamente 14 mila persone, e altre 22 mila lavorano nell’indotto.

“Chiudere il Gct significherebbe tagliare il pane a decine di migliaia di famiglie”, ammette un funzionario locale. “Ma lasciarlo aperto così, senza controlli, significa condannare un’intera città”.L’equilibrio è fragile. Troppo fragile. E mentre il governo parla di “transizione ecologica”, nessun passo concreto è stato compiuto per sostituire le vecchie tecnologie inquinanti con processi più puliti.

Un disastro annunciato

Un audit ambientale e sociale condotto lo scorso giugno dallo stesso Gct, ha rivelato una lunga lista di violazioni: emissioni fuori norma, mancanza di monitoraggio ambientale, assenza di tracciabilità dei rifiuti e scarsa protezione dei lavoratori.

Il documento descrive una realtà inquietante: l’aria carica di anidride solforosa, le acque contaminate, i rumori industriali che superano gli 85 decibel, come un treno in corsa continuo. I residenti vivono accanto a una fabbrica che non solo inquina, ma distrugge lentamente ogni forma di vita attorno a sé. Eppure, lo stesso audit del Gct ammette che un piano di azione correttivo esiste già. È stato elaborato e persino stimato: 306 milioni di dinari, circa 95 milioni di euro.

Le ferite invisibili di una città

Camminando tra le strade di Gabes, si percepisce una tensione sottile, un misto di paura e rassegnazione. I bambini giocanoincuranti dei rischi, gli adulti guardano il mare come si guarda un parente malato. “Non abbiamo più fiducia in nessuno”, dice Henda, madre di un’avvocata membro dell’Ordine che ha depositato un procedimento urgente al Tribunale della città per chiedere la sospensione delle attività del Gruppo chimico, la cui prima udienza per l’esame del caso è fissata per giovedì 23 ottobre.

Giovani attivisti denunciano: “Ogni governo promette, ogni governo dimentica. Intanto noi respiriamo veleno”. La questione di Gabes è diventata un banco di prova per la giustizia ambientale tunisina. “L’ambiente è una componente della sovranità nazionale”, ha ricordato il presidente Kais Saied, collegando la crisi del Golfo di Gabes al più ampio tema della dignità e della giustizia sociale.

Un’eco che arriva da lontano

La storia di Gabes ricorda quella di altri disastri ambientali nel Mediterraneo. Come l’Italia della Montedison, simbolo di un progresso tossico che ha lasciato in eredità malattie, falde contaminate e terre avvelenate.

Nata nel 1966 dalla fusione di Montecatini ed Edison, anche la società italiana ha rappresentato per decenni un pilastro dell’industria nazionale, attiva nei settori chiave della chimica, dell’energia e dell’agribusiness. Tuttavia, la sua storia è indissolubilmente legata a una serie di gravi scandali ambientali e sanitari che hanno lasciato un segno indelebile su intere comunità.

La “grande promessa di sviluppo industriale” si è spesso tramutata in un incubo di inquinamento, con casi emblematici come quelli di Porto Marghera e Bussi sul Tirino. Presso lo stabilimento abruzzese, ad esempio, l’azienda è stata accusata di aver occultato circa 250.000 tonnellate di rifiuti tossici, con conseguente contaminazione delle falde acquifere. A Porto Marghera, invece, le esposizioni a sostanze come il vinil cloruro hanno portato a un eccesso di mortalità per tumori, evidenziando le drammatiche conseguenze sanitarie di un modello di crescita che per anni ha ignorato le esternalità ambientali e la salute pubblica.

Il percorso tortuoso verso responsabilità e bonifica

Il percorso verso la responsabilità e la bonifica in Italia è stato lungo e spesso frustrante. Nonostante la forte mobilitazione delle comunità locali, il sistema ha registrato lunghi ritardi, con diverse sentenze cadute in prescrizione.

L’esperienza italiana si configuraper Gabes come dolorosa lezione su quanto possa essere tortuoso il cammino della giustizia ambientale quando l’industria chimica opera con superficialità rispetto all’ambiente. Essa dimostra come il modello, basato sull’uso intensivo di risorse e sostanze chimiche, possa generare un conflitto sociale profondo, in cui lo sviluppo a scapito della salute diventa un leit-motiv che le comunità locali non cessano di denunciare, in attesa di bonifiche complete e del pieno riconoscimento delle responsabilità aziendali e istituzionali.

In Tunisia stessa parabola

Anche in Tunisia, la parabola è la stessa. L’illusione dello sviluppo industriale come via unica al progresso ha prodotto un modello di “crescita velenosa”, in cui l’ambiente è diventato un danno collaterale accettabile. Fino a oggi. Perché Gabes, finalmente, dice basta.

Un gruppo di esperti cinesi è arrivato in città per valutare la situazione e proporre soluzioni tecniche per ridurre le emissioni. Secondo il ministro Zouari, i lavori per migliorare il lavaggio dei gas di ammoniaca e ridurre l’anidride solforosa sono in corso e dovrebbero concludersi entro pochi mesi. Altri progetti, per un valore complessivo di oltre 200 milioni di dinari, prevedono la costruzione di un sito controllato per lo stoccaggio del fosfogesso e il suo riutilizzo nei materiali da costruzione. Se non è possibile cambiare il passato, la Tunisia può impedire che il futuro sia avvelenato come il presente.

Gabes resiste

Nel pomeriggio, la folla si è riversata nelle strade del centro. Giovani, impiegati e commercianti, tutti insieme dietro lo stesso striscione: “Gabes respira, la Tunisia ascolta”. Le voci si uniscono, i canti coprono per un momento il ronzio lontano del polo chimico. Il sole cala lentamente dietro i camini di Ghannouch.

Un tramonto rosso che, per chi vive qui, non ha più nulla di poetico. È solo il riflesso del fosforo e delle particelle sospese nell’aria. Eppure, tra quelle nuvole tossiche, oggi si è aperta una crepa di speranza. Perché Gabes, la città avvelenata, ha trovato la forza di alzarsi e dire basta. E forse, da questa voce collettiva che chiede solo di respirare, può nascere un nuovo inizio per tutta la Tunisia.

Vanessa Tomassini
Vanessa Tomassini

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