Ad un anno dall’inizio del conflitto russo ucraino. Motta Sosa: “Se i tre fronti, europeo, mediorientale, asiatico-pacifico dovessero saldarsi allora sarebbe il segnale che le grandi potenze hanno scelto la forza per disegnare il nuovo ordine mondiale”

Ad un anno dall’inizio del conflitto russo ucraino. Motta Sosa: “Se i tre fronti, europeo, mediorientale, asiatico-pacifico dovessero saldarsi allora sarebbe il segnale che le grandi potenze hanno scelto la forza per disegnare il nuovo ordine mondiale”

23 Febbraio 2023 0

Domani ricorrerà il primo anniversario dell’inizio della guerra russa ucraina. Se il 21 febbraio del 2022 infatti la Russia riconobbe le repubbliche popolari del Donbass, fu proprio il 24 febbraio a segnare l’entrata delle truppe russe in Ucraina per quella che il presidente della Federazione Russa chiamò operazione militare speciale. Abbiamo deciso di intervistare per l’occasione Roberto Motta Sosa, studioso di storia delle relazioni internazionali, saggista, analista di politica e scenari internazionali.

Infografica – La biografia dell’intervistato Roberto Motta Sosa

– Per il Generale Bertolini l’Ucraina non ha abbastanza soldati per poter vincere questa guerra, nonostante l’approvvigionamento continuo di armamenti da parte della NATO. È davvero così?

Personalmente ritengo di concordare con quanto sostenuto dal Generale Marco Bertolini. Sebbene vadano prudentemente presi con beneficio di inventario, per via dall’assenza di cifre ufficiali univoche, soprattutto da parte russa, i dati attualmente disponibili sembrerebbero confermare, nel lungo periodo, questo scenario. Stando a quanto diffuso dal Capo degli Stati Maggiori riuniti degli Stati Uniti, Generale Mark Milley, a novembre del 2022 le perdite stimabili da entrambe le parti, tra caduti e feriti, sarebbero state intorno alle 100.000 unità ciascuna.

Bisogna tuttavia considerare che, secondo dati dello United Nations Populations Fund, aggiornati al 2022, la popolazione ucraina ammonta a 43,2 milioni, mentre quella della Federazione Russa a 145,8 milioni: una differenza numerica che parla da sola. Non è del resto un caso che la riforma delle forze armate russe annunciata recentemente dal Capo di Stato Maggiore e Primo Vice ministro della Difesa della Federazione Russa, Generale Valery Gerasimov, abbia l’ambizione di portare il numero complessivo dei militari a 1 milione e 500 mila effettivi.

L’International Institute for Strategic Studies ha inoltre stimato che Mosca disponga di 15.857 tank. Una cifra che non può essere lontanamente paragonata alle 300 unità (circa) di mezzi corazzati richiesti da Kiev. Possiamo ricordare un altro particolare. Il 24 gennaio scorso il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha apposto la propria firma a un nuovo testo di legge sulla disciplina dell’esercito che prevede punizioni più dure per disertori e atti di insubordinazione.

Nel dicembre scorso, quando l’iter legislativo era ancora in corso, sul sito presidenziale ucraino era stata presentata una petizione pubblica, che aveva raccolto 28.000 firme, con la quale si chiedeva a Zelensky di porre il veto a quel nuovo ordinamento. Un segnale che in Ucraina dopo un anno di guerra cominciano forse ad avvertirsi sintomi di indebolimento.

– Si sta assistendo ad un invio di armamenti sempre più sofisticati e offensivi destinati all’Ucraina. Quale è la linea rossa oltre la quale la Russia potrebbe considerare l’utilizzo di armi non convenzionali?

La politica della Federazione Russa inerente all’impiego delle armi non-convenzionali nucleari è esplicitata in due documenti: la Dottrina Militare della Federazione Russa e i Principi base sulla politica di Stato della Federazione Russa sulla deterrenza nucleare. Nel primo si afferma che la Russia si riserva di ricorrere agli arsenali nucleari anche nel corso di un conflitto convenzionale regionale che ponga una minaccia esistenziale allo Stato russo. Il secondo documento specifica che l’uso delle armi nucleari può essere autorizzato in risposta a un attacco nemico (non viene precisato se nucleare o convenzionale) contro siti governativi o militari critici della Federazione Russa, la cui interruzione comprometta le azioni di risposta delle forze nucleari russe. Nel primo caso si tratta di una definizione – come si può evincere – assai generica.

Preso atto di questo particolare, si può sostenere che una débâcle strategica sul fronte del Donbass ovvero un attacco ucraino effettuato in profondità nel territorio russo ossia nella Crimea annessa nel 2014 oppure condotto dal cielo contro Mosca e San Pietroburgo contro infrastrutture sensibili, ove si realizzino le succitate condizioni di percepita minaccia vitale allo Stato russo, potrebbe determinare l’avvio nei vertici politico-militari del Gran Palazzo del Cremlino di quel meccanismo consultivo atto a portare a una dichiarazione d’uso della capacità nucleare, si presume di tipo non-strategico, il cosiddetto nucleare tattico.

I nuovi droni a lungo raggio prodotti dall’Ucraina – gli Ukroboronprom – sono in grado di colpire obiettivi fino a un raggio di 1.000 chilometri portando una testata di 75kg. In teoria potrebbero quindi raggiungere i Distretti di Mosca e San Pietroburgo. Negli ultimi mesi le autorità russe hanno dispiegato batterie anti-aeree Pantsir-S1 sui tetti dei principali edifici istituzionali di Mosca. In merito alla Crimea il Vice Presidente del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Federazione Russa, Dmitrij Medvedev, ha più volte ribadito (senza essere smentito da Putin), nel corso delle sue reiterate esternazioni, che un attacco ucraino contro quel territorio rappresenterebbe il superamento della linea rossa nucleare.

L’utilizzo del nucleare ad opera di Mosca è attualmente da ritenersi assai improbabile, poiché non sussistono le condizioni per un ricorso ad esso previste dalla dottrina strategica russa, sebbene non sia più una possibilità da escludere totalmente. Del resto la deterrenza nucleare non si fonda unicamente sul mero possesso di armi atomiche, ma anche sull’effettiva volontà di utilizzarle ossia sulla formulazione di una minaccia che sia credibile.

– Questi armamenti possono essere realmente utilizzati dall’esercito ucraino con qualche settimana di addestramento dopo che gran parte dell’esercito è stato annientato oppure è necessario l’intervento di truppe esterne o supervisione da parte occidentale?

A detta degli esperti servirebbe un sufficiente lasso di tempo per addestrare le forze ucraine all’utilizzo di alcune tipologie di tali nuovi armamenti, a cominciare dai tank Leopard 2. Va altresì ricordato che nel luglio scorso la Camera dei Rappresentati del Congresso degli Stati Uniti aveva approvato un testo di legge che autorizzava l’addestramento di piloti ucraini all’utilizzo di F-15 ed F-16. Questa circostanza sta a indicare che l’ipotesi di inviare anche velivoli d’attacco sia, oramai, da tempo tra le opzioni sul tavolo.

In merito al possibile invio di truppe occidentali bisogna specificare due aspetti. In primo luogo a fianco delle forze regolari ucraine opera già la Legione Internazionale per la Difesa dell’Ucraina. Stando a quanto riportato dal sito Web legionofukraine.com, sarebbero otto gli Stati da cui proverebbero i volontari che combattono tra le sue fila: Canada, Croazia, Danimarca, Israele, Lettonia, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito. Nel novembre scorso l’ABCNews aveva affermato che i combattenti stranieri in Ucraina fossero circa 20.000 (tra cui anche alcuni cittadini statunitensi), provenienti da 52 Stati.

Nel caso dei polacchi si tratterebbe di “foreign fighters” per i quali il governo di Varsavia, le cui leggi proibiscono ai cittadini polacchi di prestare servizio militare all’estero, ha previsto una risoluzione per garantire una sorta di amnistia a loro tutela quando decidessero di rientrare in Polonia. Il secondo aspetto da considerare concerne il Regno Unito. Nel corso del 2022 il coinvolgimento di Londra avrebbe coinvolto effettivi regolari britannici. In due occasioni distinte, nel gennaio e nell’aprile scorso – secondo quando affermato dal Generale in congedo dei Marines britannici Robert Magowan – unità del 45 Commando Group dei Royal Marines di Sua Maestà avrebbero svolto, in territorio ucraino, operazioni coperte “in un contesto estremamente sensibile” con implicazioni di “alto livello politico e di rischio militare”.

In uno scenario, ipotetico ed estremo, che contemplasse l’invio da parte dell’Occidente di militari, che abbiano anche il solo compito di sovrintendere agli aspetti tecnici correlati ai nuovi armamenti per Kiev, questo potrebbe verosimilmente assumere la forma di un flusso di soldati provenienti dalle fila di eserciti occidentali ma appositamente congedati. Per costoro si renderebbe inoltre necessario creare in seguito strumenti legislativi ad hoc – come ha già fatto la Polonia – per tutelarli giuridicamente contro eventuali sanzioni penali previste nei loro Paesi di origine nei confronti dei “foreign fighters”. Un simile escamotage salverebbe almeno nella forma il non interventismo diretto sinora professato dalla NATO.

– Molti lettori si chiedono se sia normale che il leader di una nazione invasa possa tranquillamente viaggiare per il mondo per summit con altri leader oppure ospitare e incontrare personalità dello spettacolo. Nel passato abbiamo pregressi al riguardo?

Mantenere rapporti con Paesi amici e alleati è del tutto lecito e perfino indispensabile per uno Stato in guerra e rientra nella normale prassi dei rapporti internazionali. Durante il primo e secondo conflitto mondiale, ad esempio, i leader politici e militari degli schieramenti che si stavano confrontando sui campi di battaglia presenziavano a incontri al vertice organizzati dalle rispettive diplomazie.

Se oggi Zelenski incontra anche esponenti dello star-system internazionale è perché – da uomo di spettacolo quale era prima di divenire Capo di Stato – conosce il valore della comunicazione di massa. Il Presidente ucraino sa benissimo che la battaglia del consenso esterno si vince agendo sia nei riguardi delle élites sia appellandosi alla natura emozionale della ordinary people occidentale.

– L’apertura di un fronte anche con la Cina rischia di indebolire la strategia americana nel conflitto russo ucraino incentivando ad un impegno sempre più strategico nell’appoggio alla Russia?

La situazione nello Stretto di Taiwan e in generale nella regione Asia-Pacifico (o Indo-Pacifico) non andrebbe sottovaluta. Pechino già dallo scorso anno è legata alla Russia da un patto di amicizia “eterna” e recentemente il portavoce del Ministero degli Esteri cinese ha ribadito la volontà del suo Paese di proseguire con la Russia nel percorso di costruzione di quella che ha ripetuto essere una “nuova era” nelle regole della coesistenza internazionale.

Risultano certamente assai indicative le dichiarazioni di Jens Stoltenberg, fatte all’Università Keio di Tokyo il 1° febbraio scorso, circa la necessità di un impegno dell’Alleanza Atlantica che sia sempre più coinvolgente anche in questo quadrante per contrastare – sono parole sue – la crescente assertività e le politiche coercitive della Cina in un quadro globale in cui Pechino e Mosca “stanno approfondendo il loro partenariato strategico”. Non è un caso che il Summit NATO di Madrid del giugno 2022, per la prima volta, abbia visto la partecipazione dei leader di Australia, Corea del Sud, Giappone e Nuova Zelanda. Taiwan – a ben vedere – potrebbe non essere l’unica spina nel fianco di Pechino, sebbene rappresenti indubbiamente il fattore di maggiore impatto mediatico.

A nord dei suoi confini, oltre la Grande Muraglia, c’è un Paese, la Mongolia, che da tempo, pur dichiarando di volere mantenere buoni rapporti con i suoi due vicini (Russia e Cina), collabora attivamente anche con la NATO, venendo da questa inclusa nella categoria dei suoi partners across the globe. Il Concetto di Sicurezza Nazionale pubblicato dal Ministero degli Esteri della Mongolia fa infatti esplicito riferimento alla necessità di mantenere con l’Alleanza Atlantica la cooperazione nei settori della sicurezza e della difesa. Abilmente però la diplomazia cinese mantiene una posizione di attendismo realista, come peraltro indicato anche dal Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg.

In un certo senso per Pechino il conflitto russo-ucraino rappresenta uno stress-test per valutare con il metro della forza la risolutezza delle democrazie. La posizione della Cina sembra ricordare quella del Giappone nell’ultimo conflitto mondiale. Formalmente alleato della Germania, in realtà, il Sol Levante perseguiva un sacro egoismo conducendo una sua guerra parallela in Asia (e nel Pacifico), ignorando ripetutamente i reiterati inviti di Berlino ad aprire il fronte siberiano contro l’URSS, con la quale del resto (per quanto paradossalmente) il Giappone aveva un patto di non aggressione che rispettava rigorosamente.

Per quanto riguarda Washington, sembra che, in questa fase, la vecchia attitudine statunitense nei confronti della Cina, riassumibile nella formula del congagement, punti oggi verso il containment piuttosto che verso l’engagement. Washington pare stringere una sorta di doppio cordone di sicurezza nei confronti della Repubblica Popolare Cinese, da un lato, attraverso sanzioni sempre più penalizzanti per alcuni settori chiave dell’industria hi-tech (semiconduttori) e, dall’altro, procedendo a una misurata ma decisa militarizzazione di quella fascia che corre dal Mar Cinese Meridionale al Mar Cinese Orientale. Tutto ciò, probabilmente, con l’obiettivo di trovare un modus vivendi per i prossimi decenni sulla base di regole dettate dagli Stati Uniti, che rimarrebbero in tal modo la potenza egemone anche nel XXI secolo.

L’esempio più percepibile di tale strategia è stato rappresentato dalle recenti esercitazioni militari condotte da Washington con il governo di Seoul nei cieli della Penisola coreana: una prova di forza che serve, certamente, da monito, in primis, per Pyongyang ma, secondariamente, anche per Pechino, secondo il classico atteggiamento di chi vuole parlare a nuora perché suocera intenda.

Non bisogna però sottovalutare un altro fronte di crisi strettamente correlato al conflitto in Ucraina: quello mediorientale. L’Iran fornisce infatti droni alla Russia per colpire le forze di Kiev. Oltre a ciò, dal Golfo Persico, attraverso lo Stretto di Hormuz, corre la principale rotta marittima di approvvigionamento petrolifero verso la Cina. Sembra inoltre che Mosca e Teheran – entrambe colpite da sanzioni internazionali – siano intenzionate a dare vita a una criptovaluta legata all’oro (stablecoin) da utilizzare, in alternativa a valute fiat, per gli scambi con l’estero, in una zona economica speciale con centro ad Astrakan nella Russia meridionale. Se questi tre fronti, europeo, mediorientale, asiatico-pacifico, dovessero un giorno saldarsi in un unico grande teatro di conflittualità armata saremmo dinnanzi al segnale che le grandi potenze si sono, definitivamente, abbandonate all’idea di risolvere le proprie divergenze in merito alla natura dell’ordine internazionale attraverso il ricorso alla forza.

– L’India e la Cina continuano a rafforzare le importazioni di petrolio e gas dalla Russia. Scricchiola il liet motive della guerra energetica vinta dall’Europa?

Più che di vittoria, personalmente, parlerei di momentaneo pareggio. La Russia – come del resto prevedibile – ha ovviato a questa situazione, da un lato, procedendo a un progressivo decoupling rispetto alle esportazioni energetiche verso l’Europa occidentale, asiatizzando quindi il suo export energetico, e, dall’altro, attraverso triangolazioni che le permettono di aggirare le sanzioni. D’altro canto, l’Europa sembra stia riuscendo a diversificare sufficientemente le proprie fonti di approvvigionamento, in particolare l’Italia, che sta sempre più indirizzando la propria attenzione soprattutto verso la sponda sud del Mediterraneo.

Vanno però ricordati due particolari, a mio avviso, non secondari. Il primo consiste nel dato secondo cui da tempo ovvero ben prima del conflitto russo-ucraino l’Ue aveva già avviato una politica di diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico. Il secondo concerne l’Italia e il suo presenzialismo nel Mediterraneo orientale, che si inquadra all’interno di una coerente partita geopolitica e geo-economica riguardante principalmente i nuovi giacimenti off-shore in quell’area. Una partita, quest’ultima, che la vede per certi versi antagonista rispetto ad un Paese alleato e amico quale la Turchia.

Va infine aggiunto che l’export russo di energia atomica ad uso civile in alcuni Stati dell’Ue non è stato toccato da sanzioni e anzi sembra avere registrato un incremento. Questo spiegherebbe perché nella sua visita a Bruxelles Zelensky abbia chiesto – senza successo – che nell’ultimo pacchetto di sanzioni europee verso Mosca venisse incluso anche l’export energetico-nucleare russo.

– Raddoppio della TAP. Non si rischia di comprare gas e petrolio russo venduti da Paesi terzi che beneficiano pure di maggiori royalty rispetto a quelle che l’Europa versava per il Nord Stream 1?

Il gasdotto TAP è stato concepito per trasportare gas dal giacimento Shah Deniz nel tratto caspico di competenza dell’Azerbaigian. Nel 2022 ha fornito all’Europa 11,5 miliardi di metri cubi di gas di cui 10 destinati all’Italia. Per il nostro Paese si è trattato di un incremento di 3 miliardi rispetto al periodo precedente, facendo così dell’Azerbaigian il secondo fornitore di Roma dopo l’Algeria. Attualmente si prevede di espanderne le capacità, puntando a raddoppiare la portata da 10 a 20 miliardi di metri cubi annui entro il 2027.

I contratti per nuove forniture, che saranno disponibili entro il 2025, sono in fase di perfezionamento. Si deve pertanto presumere che i giacimenti dell’Azerbaigian abbiano una capacità tale di soddisfacimento atta a impedire una triangolazione che si origini dalla Russia. Per quanto concerne il Nord Stream [1] le ambizioni di Roma circa la possibilità di divenire un hub per l’Europa appaiono vantaggiose e stimolanti per il futuro geo-economico dell’Italia, almeno sulla carta. In concreto, però, esse rischiano – come già pare stia accadendo – di scontrarsi con la realtà geopolitica dell’area MENA, caratterizzata dalla nota instabilità che da anni la contraddistingue e alla quale contribuiscono anche attori esterni alla regione, rendendo così il quadro regionale ancora più critico. Certamente, il conflitto russo-ucraino ha avuto il merito – se così possiamo dire – di accelerare un processo di rimescolamento degli equilibri energetici già da tempo sommessamente in atto nell’Ue e nel Mediterraneo, come dimostra appunto il recente protagonismo mediterraneo del Governo italiano rispetto a questo tema.

– Si può vincere una guerra tra potenze nucleari?

Sino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso era ancora dominante nel pensiero strategico (soprattutto occidentale) il concetto di Mutual Assured Destruction (MAD). A partire da quegli anni tuttavia si comincia già ad assistere a un mutamento nell’approccio alla questione. Si iniziò a disquisire se si potesse iniziare, combattere e vincere un conflitto non-convenzionale di tipo nucleare. In tal senso, il contributo teorico più importante fu dato da Colin S. Gray principalmente in due opere: Nuclear Strategy: The Case for a Theory of Victory, pubblicata nel 1979, e Victory is Possible, del 1980.

Il memorandum Odom del 5 agosto 1980 trasmetteva all’Assistant to the President for National Security Affairs, Zbigniew Brzezinski, una copia top-secretdella Presidential Directive-59 stilata da James [Jimmy] Carter il 25 luglio precedente. In quel documento – in alcuni suoi passaggi ancora oggi secretato – si affermava che nel caso di un conflitto nucleare gli Stati Uniti dovessero essere in grado di combattere “successfully” (con successo). I seguenti anni Ottanta – soprattutto su stimolo dell’Amministrazione Reagan – furono così caratterizzati dall’idea, sebbene poi accantonata, delle “Guerre Stellari” (la Strategic Defense Initiative). Ricordo che nel 2019 Trump, per certi versi attingendo alle suggestioni offerte dal progetto reaganiano, istituì la sesta componente delle forze armate statunitensi: la United States Space Force.

Negli anni Novanta il concetto di MAD appariva oramai virtualmente surclassato. Il punto di svolta che – si può sostenere – abbia dato inizio alla disgregazione finale degli equilibri strategici globali risale al 2002, con l’uscita degli Stati Uniti dal Trattato ABM. Con quell’atto Washington mostrava di credere alla possibilità di tutelarsi – attraverso la costruzione di uno Scudo anti-missile globale – da un attacco nucleare condotto con tradizionali vettori ICBM. Oggi pare si voglia andare perfino oltre, dato che negli Stati Uniti si starebbe già parlando di realizzare un sistema difensivo capace di intercettare anche sistemi ipersonici nella loro terminal phase di lancio, durante la quale, a detta di alcuni esperti, queste nuove armi sarebbero più vulnerabili ovvero intercettabili.

Oggi, la sospensione annunciata da Putin degli obblighi derivanti dal Trattato New START rischia di essere l’anticamera dell’uscita vera e propria della Federazione Russa da questo accordo siglato con gli Stati Uniti per la limitazione e il controllo degli armamenti nucleari strategici. Se si rammenta che nel 2019 Washington uscì dal Trattato INF, che regolava i missili nucleari a medio-corto raggio in Europa, si può comprendere quanto oggi ci si ritrovi in una condizione di disordine nucleare che presenta molte incognite circa il futuro della stabilità strategica internazionale.

Inoltre, andrebbero considerate altre due circostanze. La prima consiste nell’eventualità che si faccia ricorso alle armi nucleari non-strategiche (le cosiddette tattiche) o a basso potenziale, che secondo talune dottrine, ad esempio quella russa (benché i documenti di Mosca non citino specificatamente quale tipo di armi nucleari verrebbe utilizzato), potrebbero essere impiegate limitatamente sul campo di battaglia, ricorrendo a quella che viene definita graduazione nucleare. Questa opzione contiene però un limite rappresentato dalla presunzione, insita soprattutto nella dottrina nucleare russa, di potere spingere l’avversario a desistere dallo scalare ulteriormente la soglia nucleare (escalate to de-escalate) ottenendo così la vittoria in un conflitto regionale convenzionale (come potrebbe ad esempio essere il caso della Russia in Ucraina). Un azzardo da cui la recente postura nucleare statunitense ha però messo in guardia.

La seconda attiene alla questione della vulnerabilità dei sistemi offensivi e difensivi nucleari rispetto ad un attacco che, per mezzo dell’utilizzo di armi in grado di sfruttare l’effetto Compton (le cosiddette E-bomb), produca un HEMP (High Altitude Electromagnetic Pulse) capace di mettere fuori uso i circuiti elettronici attraverso cui corrono i canali di comunicazione da cui essi dipendono. A tal proposito un recente contributo dello U.S. Naval Institute ha spiegato come Cina e Russia dispongano delle capacità di distruggere la rete elettrica degli Stati Uniti e degradarne le capacità militari con un primo attacco non cinetico, non solo attraverso gli effetti elettromagnetici delle armi nucleari e non nucleari, ma pure attraverso attacchi informatici.

Detto ciò, è curioso notare che nello stesso periodo – gli anni Ottanta del secolo scorso – in cui negli Stati Uniti si cominciava a discutere di teorie della vittoria nel campo della guerra nucleare venissero anche prodotti modelli previsionali computerizzati relativi a tali scenari, dai cui esiti è poi derivata l’espressione “nuclear winter” (inverno nucleare), facendo così rientrare dalla finestra quello (il concetto di MAD) che si era intesto fare uscire dalla porta. Sarà forse anche per questo motivo che il 3 gennaio scorso le cinque potenze nucleari hanno sottoscritto una Dichiarazione congiunta sulla prevenzione della guerra atomica e della corsa al riarmo strategico.

– Perché nessun partner occidentale parla di pace in senso fattivo? Si è lasciato questo passaggio alla Turchia …

La diplomazia di crisi in specie statunitense – credo sia giusto ricordare – ha continuato a operare sin dal primo minuto di guerra, anche attraverso le formule del dialogo informale e del contatto esplorativo. In merito alla Turchia bisogna oggettivamente riconoscere che il suo è stato un ruolo prezioso nel cercare di portare al tavolo negoziale le due parti coinvolte, ottenendo due risultati importanti, dapprima mediando la stipula dell’Accordo sul grano nel luglio scorso a Istanbul, in seguito convincendo la Russia a ritornare al rispetto di quel documento a novembre, dopo che era parso volesse disattenderlo. Ricordo inoltre che nel novembre scorso l’incontro riservato tra il direttore della CIA, William Burns, e quello dell’SVR, Serghei Naryshkin, ha avuto luogo proprio ad Ankara.

Naturalmente ci sono delle motivazioni geopolitiche e geo-economiche che concorrono a fare della Turchia un attore fondamentale nell’attuale crisi. Anzitutto essa, pur non confinando direttamente con la Russia, è comunque parte del suo estero vicino, rappresentando un partner importante di Mosca nel settore energetico per via dei gasdotti TurkStream e BlueStream.

Secondariamente, in quanto Stato garante della Convenzione di Montreaux, essa ha un peso significativo rispetto all’area del Mar Nero. Terzo, quella turca è la flotta più consistente tra quelle dei Paesi NATO che si affacciano sul Mar Nero e per tale ragione Ankara ha tutti i motivi perché tale status quo non venga alterato da una possibile predominanza russa, soprattutto nel caso in cui le forze di Mosca dovessero riuscire a occupare l’intera fascia costiera ucraina: non dimentichiamo che il Mar d’Azov è già diventato un lago russo. Non deve stupire quindi che la Turchia sia stata sino ad oggi il forum privilegiato per negoziati diplomatici di particolare rilievo.

– La Turchia potrebbe ancora bloccare l’entrata nella NATO di Finlandia e Svezia?

Secondo i meccanismi decisionali dell’Alleanza Atlantica il processo di adesione di nuovi membri deve essere ratificato da tutti gli Stati aderenti al Trattato di Washington. Ciò vale, quindi, anche per la Turchia. Un suo veto potrebbe bloccare l’ingresso di Stoccolma e di Helsinki o di uno solo dei due candidati. Questo, almeno, sembra essere l’orientamento espresso dal ministro degli Esteri turco, Mevlüt Cavoşoğlu, il 16 febbraio scorso, dopo il bilaterale avuto con Stoltenberg ad Ankara.

Secondo le dichiarazioni di Cavoşoğlu, la Turchia si appresterebbe infatti a valutare la candidatura separata della sola Finlandia. In questo caso Stoccolma non rimarrebbe però del tutto isolata rispetto alle questioni della difesa collettiva, poiché potrà comunque continuare a godere delle garanzie previste dal sistema di sicurezza regionale nordico-baltico collegato all’Alleanza Atlantica, oltreché di quelle che le derivano dall’appartenenza all’Unione europea. Sia Svezia che Finlandia, infatti, fanno parte, insieme a Danimarca, Estonia, Islanda, Lituania e Paesi Bassi, della Joint Expeditionary Force (JEF) scaturita dal Summit NATO tenutosi nel 2014 a Newport, in Galles. La JEF baltica costituisce una componente militare, a guida britannica, il cui concetto operativo adotta alla base gli standard e la dottrina dell’Alleanza Atlantica.

Anche senza l’ombrello protettivo rappresentato dalla NATO la Svezia sarebbe inoltre tutelata, in quanto membro Ue, dall’articolo 42 del Trattato sull’Unione europea, il cui punto 7 riecheggia, sostanzialmente, quanto stabilito nell’articolo 5 del Trattato Nord Atlantico. Ricordo inoltre che recentemente il Regno Unito, che nell’area baltica detiene il ruolo di Paese guida rispetto agli organismi multilaterali regionali nel campo della cooperazione militare, aveva stretto patti di mutua sicurezza e garanzia con Stoccolma ed Helsinki. È comunque plausibile ritenere che la questione dell’ingresso nella NATO dei due Paesi scandinavi – e in particolare della Svezia – possa essere posticipata almeno sino alle elezioni presidenziali turche previste il prossimo 14 maggio.

– Molti dicono che l’Occidente si stia liberando di armi inadeguate e vecchie con gli invii in Ucraina. È vero?

Forse nelle primissime prime fasi del conflitto ciò poteva, in parte, essere vero. Molti ricorderanno, ad esempio, un’immagine subito divenuta virale che ritraeva un combattente ucraino intento ad utilizzare un’obsoleta mitragliatrice Maxim, la cui prima entrata produzione risale al 1888. Con il proseguire del conflitto e quindi con l’aumento dell’intensità degli scontri quell’immagine ha rapidamente lasciato il posto a forniture di armamenti sempre più avanzati ed efficaci, come i missili anti carro FGM-148 Javelin.

Oggi, ad esempio, Francia e Italia starebbero discutendo in dettaglio l’invio di uno dei loro sistemi d’arma difensivi più avanzati: le batterie anti-aeree e anti missili balistici tattici a medio raggio SAMP/T.

– Possono offendere le armi difensive fornite dall’occidente?

Se partiamo dal presupposto che per armi difensive si intendono quei sistemi d’arma con una portata e un’area di efficacia operativa limitate ossia utilizzabili unicamente sul proprio territorio allora, in tal caso, alcune tipologie di armamenti forniti dall’Occidente all’Ucraina sono da intendersi come difensive, fintantoché non colpiscono forze nemiche oltre i confini ucraini. In tal senso vanno intese le limitazioni nella gittata di alcuni sistemi missilistici imposte da Washington a Kiev. Si tratta di distinzioni sottili, sebbene necessarie, per evitare soprattutto un allargamento del conflitto ovvero un aumento della sua intensità.

Marco Fontana
marco.fontana

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