Italia, Elezioni Politiche 2022: via alla solita campagna elettorale di insulti, invettive e demonizzazione

Italia, Elezioni Politiche 2022: via alla solita campagna elettorale di insulti, invettive e demonizzazione

18 Agosto 2022 0

Accuse infondate e dunque pretestuose, invettive, insulti, demonizzazione. E chi ne ha più ne metta. Una campagna elettorale eccezionale, da ogni punto di vista, rovente, al veleno, come poche altre se ne sono viste nel corso dei decenni. Eccezionale in primo luogo per il periodo in cui si svolge, in piena estate, così come il momento del voto, 25 settembre, con l’inizio delle scuole, la ripresa del lavoro e delle attività produttive con le sue tante incognite, le scadenze pressanti del Pnrr, la legge finanziaria alle porte, e senza dimenticare l’incerto scenario politico internazionale con la guerra in Ucraina che continua. 

Davvero una situazione straordinaria per un appuntamento così importante come le elezioni per il Parlamento. E il confronto politico tra i partiti e gli schieramenti diventato subito una rissa. E come ciliegina sulla torta, non mancano, anzi abbondano le ambiguità di talune formazioni politiche. Sui partiti più o meno minori, infatti, gravano pesanti interrogativi: chi andrà con chi, a seconda di chi vince e di chi perde, a dare una mano per la formazione di una maggioranza e di un governo in caso di esito delle elezioni incerto e insufficiente; e questo anche nella totale indifferenza di quel che si è detto e fatto nelle settimane che hanno preceduto il voto.

Tra gli schieramenti quello più chiaro e compatto sembra la coalizione di destra. E non a caso, stando ai sondaggi, viene dato come favorito. Le ambiguità e le contraddizioni sono soprattutto a sinistra e nei suoi derivati. Si è tanto parlato, e ancora se ne discuterà, delle cosiddette responsabilità per la caduta del governo Draghi, con la conseguente chiamata alle urne. Eppure a uno sguardo senza retropensieri quelle vicende possono apparire lineari. Nessun dubbio che a innescare la crisi siano stati i Cinquestelle di Giuseppe Conte, che dopo la traumatica scissione messa in atto da Di Maio – il ministro degli Esteri che tutto il mondo ci invidia – hanno tentato di trovare una rilegittimazione e un consenso ormai ridotto in briciole rispetto al successo delle ultime elezioni ottenuto soprattutto col turpiloquio, politico prima ancora che semantico. È stato chiamato “populismo”, facendo così un torto a quel populismo di destra e di sinistra che talvolta conserva almeno qualche briciolo di progetto e di dignità politica. E aveva una sua credibilità l’offerta dei due partiti di destra di governo, Lega e Forza Italia, che a loro volta erano ricorsi all’astensione dal voto di fiducia come opzione possibile e alternativa alla conferma delle dimissioni del governo e delle elezioni: una nuova maggioranza senza i Cinquestelle, con Draghi ancora presidente del Consiglio.

Ma il premier – e forse lo stesso Presidente della Repubblica – avranno ritenuto irricevibile la proposta. Ci si è chiesto, in verità con pochi sostenitori, se questa strada fosse praticabile, e se invece l’idea dei due partiti non fosse strumentale, un modo per non intestarsi, con i seguaci di Grillo, il precipitare della situazione politica. Si è detto anche che con quella nuova formazione a sostegno di Draghi senza i Cinquestelle sarebbe venuto meno lo spirito di unità nazionale di quella maggioranza così larga suggerita anche dal Capo dello Stato. Eppure quella proposta poteva avere una sua logica: i Cinquestelle ormai ridotti a brandelli, di fatto, e non per un verdetto dei sondaggi ma per lo schieramento parlamentare, non erano più il primo partito uscito dalle urne: quindi nessun torto alla volontà popolare. E peraltro le loro proposte per restare in maggioranza per modi e tempi in cui venivano presentate, in gran parte non erano condivise dagli altri partiti. E allora da parte sua Draghi poteva fare il grande e bel gesto di uomo al servizio del Paese e delle Istituzioni: se l’anticipo delle elezioni praticamente di un semestre fosse stato assolutamente da evitare, il presidente del Consiglio poteva restare al suo posto. Fin qui, se vogliamo, la logica della prevalenza dell’interesse del Paese su qualsivoglia altro interesse. Ma così non è stato. E ora dunque ci troviamo con le elezioni anticipate a settembre. E a quanto pare non viene considerata una iattura. 

La sinistra guidata dal Pd ha costruito un’alleanza che più contradditoria non si può; una coalizione “di scopo“, si direbbe fittizia, un tentativo di sbarrare la strada alla destra. E nient’altro. Quanto poi eventualmente a governare insieme… beh, si vedrà! Il segretario Letta prima ha siglato l’accordo con Carlo Calenda di Azione, e Emma Bonino e Benedetto Della Vedova di Più Europa. E per superare l’ostilità del capo di Azione nei confronti di Di Maio, che intanto veniva coccolato da Letta e che poi ha trovato casa tra le braccia del vecchio democristiano Bruno Tabacci con Impegno civico, tutti si erano inventati un trucchetto degno un prestigiatore: nessun leader candidato nei collegi uninominali, in modo che gli “azionisti” (sia detto senza far torto ai fondatori del glorioso Partito d’azione) non si ritrovassero costretti a votare Luigi Di Maio. Tutti i capi sarebbero stati candidati nelle liste proporzionali. Da una parte, dunque, Di Maio non si poteva votare, ma dall’altra parte sì. Ecco, quando si dice la bella politica, o la coerenza! Ma un siffatto accordo non poteva che durare una manciata di ore. E così è stato.

Letta infatti ha imbarcato subito dopo anche i tardocomunisti di Nicola Fratoianni, che aveva sempre votato contro il governo Draghi, e i neo-verdi di Angelo Bonelli, che al pari dei sodali di Sinistra italiana in fatto di approvvigionamento energetico e di ambiente (rigassificatori, termovalorizzatori e nucleare, per dire solo di pochi temi eppure centrali) hanno idee e proposte inconciliabili con quelle di Letta, del Pd e degli altri. Il problema è come governare insieme in caso di vittoria, tanto più che i singoli partiti della coalizione hanno tre o quattro programmi diversi l’uno dall’altro. Ma poi si vedrà! E l’accordo così è saltato. Dopo le firme su documenti, sorrisi, parole al miele e strette di mano, ora dunque insulti reciproci e nemici come prima. In tutto questo tramestio di alleanze di qua e di là, Letta – e anche tra i suoi c’è chi dice che ha sbagliato tutto, a cominciare dallo slogan della prima ora “avremo gli occhi di tigre!” – aveva accuratamente ignorato Matteo Renzi e la sua Italia Viva. Si sa che i due non si sono mai amati e che certe ferite non sono imarginate. E a questo punto anche Calenda e Renzi hanno dimenticato vecchie ruggini che per lungo tempo li hanno tenuti lontani, e si sono ritrovati insieme in un solo partito in cui la figura guida, per gentile concessione dell’ex presidente del Consiglio, è il capo di Azione. I due si autodefiniscono terzo polo, ma quanto a voti al momento secondo i sondaggi potrebbero essere il quarto se non il quinto.

Questo dunque lo spettacolo che offre agli elettori la sinistra di Letta con i suoi eventuali strapuntini. E già, perché se le urne dovessero premiare il Pd, nessuno può escludere possano prestare qualche eletto alla compagine di Letta, turandosi per l’ennesima volta il naso, naturalmente. Ma in questo quadro potrebbero rientrare anche i Cinquestelle. I fedeli di Conte sono più dilaniati che mai. A causa, o grazie, a seconda dei punti di vista, del doppio mandato e di diverse altre camarille, hanno dovuto rinunciare alle più note figure di primo piano del partito; il ruolo di Conte come capo, che contrariamente a quanto prescriverebbe lo statuto del fu movimento, ha provato per poi recedere a candidarsi in messa Italia, è apertamente contestato da diversi esponenti di rilievo come Virgina Raggi, che da tempo ha chiesto regole chiare e trasparenti; all’interno si è litigato su chi, con quale logica e perché ha fatto le liste assegnando i posti ritenuti più sicuri. Al di là delle primarie o “parlamentarie”, come le chiamano i Cinquestelle con un orrendo neologismo, Conte ha avocato a sé le decisioni ultime. Quanto a eventuali alleanze non se ne è proprio parlato. I Cinquestelle non sono voluti andare con nessuno ma a quanto pare nessuno li ha voluti. Nemmeno il Pd di Letta, che li ha blanditi per tanto tempo, facendo con loro prima un governo e poi un altro ancora. Intanto i due partiti si escludono a vicenda, ma dopo le elezioni chissà!

Decisamente più compatta appare la coalizione di destra, ma anche da questa parte non mancano distinguo, fughe in avanti e qualche intempestiva parola di troppo. Dai sondaggi la compagine di Meloni, Salvini e Berlusconi, con il gruppetto di Noi moderati che vede insieme le formazioni di Lupi, Toti, Brugnaro e Cesa, risulta favorita. Forza Italia sembra aver superato il momento critico seguito all’abbandono dei ministri Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, che si sono subito accasate nell’area del centro sinistra con Calenda, e del ministro Brunetta, che ha deciso di rimanere fuori dallo scenario politico nazionale. I sondaggi delle prime settimane di campagna elettorale, se possiamo fidarci, davano la vittoria alla compagine di destra, e proprio per questo sull’alleanza si è abbattuta una vera e propria crociata, a cominciare da un’accusa sempreverde, il pericolo del fascimo più o meno riveduto e corretto. Pochi tra i più attenti osservatori vedono tale rischio, ma una certa sinistra politica e intellettuale ne ha fatto il proprio cavallo di battaglia. E i veri problemi del Paese rimangono sullo sfondo: lavoro, occupazione, sviluppo, imprese in difficoltà, tasse, famiglie che non ce la fanno, caro energia: parliamone, certo, ma meglio parlare del pericolo del fascimo. E per non farsi mancare niente, alla destra vengono attribuiti un possibile venir meno dell’atlantismo, un inesistente filoputinismo, il rischio di allontanarci dall’Europa, l’amicizia con l’ungherese Orban, la simpatia per la francese Le Pen. Al centro di tutto c’è la prospettiva che la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni possa uscire dalle urne come primo partito e così in caso di vittoria dell’alleanza di destra voglia rivendicare la possibilità di scegliere il presidente del Consiglio o di diventare lei stessa premier. Un “pericolo” aggravato dal sovranista-populista Matteo Salvini. E quanto a Berlusconi, viene indicato dalla sinistra come semplice supporto secondario dei due pericolosi figuri. Eppure sono innumerevoli le occasioni in cui la Meloni ha preso le distanze da presunte pulsioni neonostalgiche di residuali aderenti al partito. Alla forza politica che fu di Gianfranco Fini viene riconosciuto unanimemente una sicura fede democratica, a cominciare da Fiuggi ’95, e i suoi elettori (che stando ai sondaggi sono in numero crescente, fino quasi al 25%) sono tutt’altro che nostalgici. Come certa è la scelta atlantica della Meloni e dell’intera destra. E quanto all’europeismo, le posizioni della Meloni e dello stesso Salvini sono state sempre presentate all’opinione pubblica come antieuropee. Ma in realtà, come hanno riconosciuto taluni osservatori – pochi a dire il vero – si è trattato di una rivendicazione di difesa degli interessi nazionali, come peraltro insegnano gli atteggiamenti di altri Paesi, in primo luogo Francia e Germania, di fronte a un’Unione Europea non sempre equanime e con qualche tendenza alla prevaricazione e ai favoritismi verso certi Paesi membri. Poi c’è l’europeismo di Berlusconi, la cui figura è molto stimata nella compagine continentale, dove è parte di rilievo nel PPE. E accanto c’è una stima internazionale che pochi dalle nostre parti sono disposti a riconoscergli. 

E proprio su Berlusconi, che si è candidato al Senato, da cui era stato espulso a causa di una legge applicata – caso più unico che raro – con valore retroattivo, si è abbattuta la dura polemica della sinistra sulla necessità espressa dal leader di Forza Italia di arrivare nel nostro Paese a una riforma in senso presidenzialista. Berlusconi aveva aggiunto che se venisse approvata questa riforma, si porrebbe la necessità di dimettersi per il Presidente della Repubblica Mattarella. E l’attuale capo dello Stato, candidandosi potrebbe essere rieletto. Pochissimi hanno interpretato il suo pensiero come un semplice ragionamento. Al contrario, da sinistra sono arrivate accuse di ogni genere, gratuite: Berlusconi attacca Mattarella, la destra vuole stravolgere la Costituzione, la democrazia è in pericolo… e via demonizzando. Un altro argomento da cavalcare nella lunga vigilia del voto. Certo in una situazione politica come quella di oggi, nella rissa in cui si svolge la campagna elettorale, una parola in meno è meglio di una in più. Così come certe fughe in avanti di Salvini che parla già di ministeri, e della stessa Meloni che pur legittimamente si candida a presidente del Consiglio. C’è chi apprezzerebbe toni più bassi e maggiore pacatezza. E pure la prudenza, che forse non è mai troppa.   

Nino Battaglia
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