La Guyana e l’equilibrio impossibile fra ecologia e boom petrolifero
Oggi la Guyana sta sperimentando un’inedita crescita economica che regala opportunità di benessere e altrettanti interrogativi. Con un PIL in aumento del 43,5% nel 2020, l’economia è entrata in una fase che sarebbe stata inimmaginabile fino a qualche anno fa, spinta adesso dal boom dell’industria petrolifera che sta generando effetti positivi sull’indotto e sul terziario. Così, proprio nel biennio della pandemia, mentre una pesante recessione ha colpito anche i Paesi avanzati, i guyanesi vedono migliorare le prospettive di vita grazie a un settore, quello petrolifero, la cui fine in un prossimo futuro viene predetta da molti. Ed è l’americana ExxonMobil che si sta impegnando nello sfruttamento delle risorse al largo delle coste guyanesi: la sua stima è di 10 miliardi di barili di greggio che si riempiranno nei prossimi vent’anni. Risulta clamoroso che ad affidare il suo inaspettato benessere a una delle cause dell’inquinamento (e proprio in un momento di attenzione globale verso il problema) sia un Paese esso stesso minacciato dai cambiamenti climatici: basti pensare che la capitale Georgetown è fra le nove grandi città che potrebbero finire sommerse entro il 2030 se l’emissione dei gas serra proseguisse ai ritmi attuali.
Il governo sta quindi cercando un accordo difficilissimo tra le istanze dell’ecologia e il problema della povertà. Con più del 40% degli abitanti che vive con 5 dollari al giorno, la Guyana non è una nazione prospera, ma il direttore esecutivo dell’Agenzia per la protezione ambientale Kemraj Parsram è convinto che si possano rispettare gli impegni ecologici con la chance di non essere più un Paese a basso reddito. Della situazione non si lamentano solo gli ambientalisti in senso stretto, ma anche chi dalla natura trae sostentamento: i pescatori di Georgetown dicono che il pescato si è ridotto di circa la metà nel corso degli ultimi due anni, proprio da quando la ExxonMobil ha iniziato le sue operazioni a dicembre del 2019. Parsram però fa notare come non sia scientificamente dimostrato che la causa della drammatica diminuzione sia proprio l’estrazione petrolifera, mentre potrebbe imputarsi all’inquinamento in generale e ai cambiamenti climatici, oltre che alla pesca eccessiva che viene praticata. Infine, ad essere scontenta delle circostanze c’è pure quella fetta di popolazione che al posto del lavoro e degli stipendi ha visto aumentare il costo della vita. Alla Camera di Commercio della capitale sottolineano come serva una politica mirata e soprattutto diverso tempo affinchè i vantaggi e i guadagni dell’oil&gas possano essere goduti anche dal guyanese medio. Ma ciò non è ancora accaduto con un altra fonte di reddito in fase di espansione e particolarmente inquinante, quella mineraria. È di questi giorni la notizia dell’avvio alla costruzione delle infrastrutture, delle strade e dei tunnel per accedere alla minera d’oro “Aurora” nel nord-ovest del Paese. Il sito appartiene alla Zijin Mining Company, multinazionale con base in Cina, che l’aveva acquistata lo scorso anno dalla società canadese Guyana Goldfields Inc. Oggi circa 900 guyanesi sono impiegati nell’impresa e la Zijin prevede di arrivare già a 100mila once per la fine dell’anno.
Alla recente conferenza di Glasgow sul clima, il COP26, il presidente della Guayana Mohamed Irfaan Ali ha presentato il piano denominato Low Carbon Development Strategy o “LCDS 2030”, che ha l’obiettivo di creare una nuova economia a basse emissioni carboniche per il Paese, che già contribuisce molto alla pulizia dell’atmosfera terrestre: infatti le sue immense foreste pluviali possono assorbire fino a 5,41 miliardi di tonnellate di CO2. La Guyana quindi disponde di un patrimonio naturale che finora le ha fruttato introiti e alleanze, con ad esempio con la Norvegia – uno dei maggiori esportatori di petrolio al mondo – che per non superare un certo limite di deforestazione nel periodo dal 2009 al 2015 ha pagato 250 milioni di dollari. Con quei soldi la Guyana non ha di certo potuto sfamare un terzo della sua popolazione che vive sotto la soglia di povertà, e una somma del genere appare ridicolmente bassa rispetto agli introiti che promette l’estrazione del petrolio. Un progetto simile al LCDS 2030 era già stato presentato dodici anni fa, ma oggi le condizioni sono diverse, perché l’esigenza di rendere più ecologico il modo di vivere e di produrre va conciliato con le opportunità offerte dallo sfruttamento delle risorse naturali nazionali. E allora la “nuova visione” del LCDS 2030 promette di far coesistere i due volti della Guyana, quello di Paese estrattore con quello di Paese che ricerca attivamente soluzioni ai cambiamenti climatici. Il presidente Ali è ben conscio della realtà che si sta delineando a livello planetario e che prescinde dalle necessità dei singoli Paesi: Il mercato globale dell’oil&gas comunque non durerà per sempre e andrà a diminuire nei prossimi decenni, perché il mondo si decarbonizzerà seguendo gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima e la necessità di stabilizzare gli aumenti della temperatura globale a 1,5 gradi sopri i livelli pre-industriali. Perciò anche la Guyana effettuerà la transizione ecologica sia in ambito interno che internazionale. Dopo aver imposto quest’anno una carbon tax di 45 dollari, promette di attuare una politica che vincoli le aziende del settore ad operare secondo gli standard internazionali di rispetto dell’ambiente, per esempio nella gestione dei rifiuti industriali e nell’implementazione di tecnologie pulite per i processi estrattivi. Nel suo discorso al COP26, Ali ha fissato l’obiettivo di una riduzione del 70% delle emissioni entro la fine del decennio e di sganciare la crescita economica dai settori più inquinanti, investendo su quelli low carbon e sostenendo la cancellazione dei sussidi per la produzione di combustibili fossili.
Vive a Mosca dal 2006. Traduttore dal russo e dall’inglese, insegnante di lingua italiana. Dal 2015 conduce conduce su youtube video-rassegne sulla cultura e la società russa.