Sic transit commercia mundi? Senso ed eredità della Presidenza Trump

Sic transit commercia mundi? Senso ed eredità della Presidenza Trump

19 Gennaio 2021 0

È lecito ipotizzare che il 45esimo Presidente degli Stati Uniti non possa essere valutato e ricordato unicamente per essere stato il primo nella storia americana ad essere sottoposto a due procedimenti di impeachment o per le intemperanze verso avversari politici e giornalisti, piuttosto che per gli eventi che hanno fatto da cornice al suo passaggio di consegne? A quest’ultimo riguardo va detto che la storia americana annovera episodi che, se non possono essere considerati equivalenti alla gravità ovvero specificità – l’imminenza della transizione dei massimi poteri esecutivi – dei tumulti del 6 gennaio scorso, per lo meno, rappresentano precedenti rispetto ai quali gli apparati di sicurezza del Campidoglio avrebbero potuto fare tesoro. Il primo riguarda un antefatto pressoché dimenticato pur tuttavia significativo. Il 2 maggio 1967 una ventina circa di appartenenti al movimento afroamericano Black Panther Party fecero irruzione negli ambienti del Congresso armati di fucili e pistole. Volevano dimostrare in quel modo la loro opposizione al disegno di legge proposto da un rappresentante repubblicano della California State Assembly, Don Mulford, i cui contenuti prevedevano l’abrogazione di una precedente legge che consentiva il possesso di armi da fuoco cariche. Nella sostanza, l’iniziativa di Mulford mirava a disarmare le ronde armate che membri del Black Panther avevano cominciato a formare in alcuni quartieri della cittadina californiana di Oakland. La protesta non ebbe molto successo, perché il 28 luglio il Governatore della California, Ronald Reagan, firmò il testo. Il secondo episodio concerne l’irruzione del 30 aprile scorso nel Capitol State del Michigan ad opera di  manifestanti, alcuni dei quali armati, che si opponevano all’estensione dei poteri del Governatore di quello Stato per la gestione dell’emergenza da covid-19. Vi è tuttavia un campo – quello delle relazioni internazionali –  rispetto al quale la Presidenza Trump è forse suscettibile di essere considerata come una delle più considerevoli degli ultimi decenni e come tale destinata molto probabilmente a lasciare un’eredità gravosa per il nuovo inquilino della Casa Bianca.

Focalizzando la propria attenzione sugli aspetti più pittoreschi della sua presidenza, molti commentatori hanno tralasciato di analizzare in quale misura alcune delle decisioni assunte da Trump nel corso del proprio mandato quadriennale siano forse destinate ad avere effetti rilevanti su ciò che ancora rimane degli equilibri mondiali. Sin dal suo esordio Trump ha proceduto – sulla scia dello slogan elettorale <<Make America Great Again>> e della politica America First enunciata durante l’Inaugural Address il 20 gennaio 2017 ma già illustrata in due occasioni nel 2016 – a ritirare gli Stati Uniti da una serie di trattati e accordi internazionali che sin lì avevano contribuito a conformare l’architrave della struttura economica internazionale e la stabilità strategica tra le potenze. Il primo di questi atti ha riguardato la Trans-Pacific Partnership Negotiations and Agreement (TPP), dalla quale Trump si ritirò, poco dopo essersi insediato, il 23 gennaio 2017. Trump motivò quella decisione sulla scorta della volontà <<to create fair and economically beneficial trade deals>> [fonte: whitehouse.gov] che fossero in grado di tutelare il benessere finanziario degli Stati Uniti e i lavoratori statunitensi. Per conseguire tali obiettivi Trump annunciava di volere ritornare alla pratica del negoziato bilaterale. Il 1° marzo 2018, parlando ai produttori di alluminio e acciaio, fece un’affermazione che può essere considerata tra i punti di svolta nell’approccio della potenza americana circa i world affairs. Sostenne infatti che il libero scambio (<<free trade>>) fosse completamente ingiusto (<<completely unfair>>), domandando ai suoi interlocutori se i dazi fossero la risposta [fonte: whitehouse.gov]. L’8 marzo, richiamandosi alla Section 232 del Trade Expansion Act del 1962, Trump firmava la Presidential Proclamation on Adjusting Imports of Steel into the United States, stabilendo, (ad eccezione dei Paesi, a quella data, [ancora] esentati), dazi pari del 25% per le importazioni di acciaio e del 10% per quelle in alluminio. Per alcuni Paesi e per il Fondo Monetario Internazionale era il segnale del potenziale innesco di una global trade war [fonte: Reuters]. Nello stesso giorno gli Stati del TPP davano forma, mutatis mutandis, ad un nuovo accordo commerciale di libero scambio denominato Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), che nelle intenzioni si poneva come <<a powerful signal against protectionism and trade wars>> [fonte: Reuters]. È altresì interessante osservare che, in qualità di President-Elect, Joe Biden, il 2 dicembre scorso, in una intervista al quotidiano The New York Times” (NYT) manifestasse, con riferimento alla Cina, l’intenzione di non volere rimuovere subito i dazi imposti da Trump, perché ciò limiterebbe la sua futura libertà d’azione nei confronti di Pechino. Così come altrettanto interessanti risultano le indiscrezioni, filtrate su “The Wall Street Journal” (WSJ), il 18 novembre 2020, a proposito delle condizioni che Biden vorrebbe porre per il rientro degli Stati Uniti nella World Health Organization – da cui Trump si era ritirato il 6 lug. 2020 con effetto dal 6 lug. 2021 – vale a dire: dimissioni del Direttore Generale, Tedros Adhanom Ghebreyesus – additato dal WSJ come <<China-pandering>> – e ammissione della Repubblica di Cina (Taiwan).

La tattica finalizzata alla riscrittura, su base bilaterale, di patti commerciali ritenuti sfavorevoli ha interessato anche gli alleati europei, nonché i vicini canadesi e messicani. Il 1° giugno 2018 Trump estese a UE, Canada e Messico l’applicazione dei dazi su acciaio e alluminio, dando origine ad un contenzioso che, il 20 giugno 2018, spinse Bruxelles ad annunciare misure analoghe [effettive dal 22 giu.] su alcune voci dell’import statunitense e ad impugnare i provvedimenti statunitensi innanzi alla World Trade Organization (WTO). Un’iniziativa, quest’ultima, addottata anche dalla RPC, con particolare riferimento alle decisioni assunte da Trump contro l’import cinese sulla base della Section 301 del Trade Act del 1974. Sebbene il 21 agosto 2020 Stati Uniti e UE abbiano annunciato di avere raggiunto un’intesa di massima per un accordo sulla riduzione delle tariffe doganali, le tensioni innescate hanno finito per riesumare un contrasto di lunga data concernente il procedimento avviato nel 2004 contro l’UE dagli Stati Uniti presso la WTO, avente come oggetto sussidi pubblici – ritenuti violazioni di normative GATT del 1994* –  al consorzio europeo Airbus; azione a cui l’UE ha risposto contestando eguali aiuti finanziari che gli Stati Uniti avrebbero concesso alla Boeing. Rispetto a Canada e Messico la politica di rinegoziazione perseguita da Trump ha ottenuto il superamento del North American Free Trade Agreement [NAFTA], sostituito, il 1° luglio 2020, dallo United States-Mexico-Canada Agreement (USMCA). La linea adottata dall’Amministrazione Trump è stata accolta criticamente in seno ad alcuni dei principali organismi internazionali. Ad esempio, in uno studio della Economic Research and Statistic Division della WTO, datato 19 marzo 2020, gli autori avvertivano che: <<the trade war would be global and would not be contained […] between the US and China>>. A sua volta, il World Economic Outlook 2018 del Fondo Monetario Internazionale scriveva: <<In the past few months, the United States has imposed tariffs on a variety of imports, prompting retaliatory measures from trading partners. At the same time, NAFTA and the economic arrangements between the United Kingdom and the rest of the European Union are under renegotiation. An escalation of trade tensions could undermine business and financial market sentiment>>. In un report** del 2019, la Federal Reserve, parlando di <<unprecedent increase>>, sosteneva che simile politica protezionistica sebbene fosse suscettibile di tutelare la produzione interna, consentendo alle imprese statunitensi di guadagnare medesime quote di mercato domestico a discapito di concorrenti stranieri, <<On the other hand, U.S. tariffs have also been imposed on intermediate inputs, and the associated increase in costs may hurt U.S. manufacters’competitiveness in producing for both the export and domestic markets. Moreover,  U.S. trade partners have imposed retaliatory tariffs […] which could again put U.S. firm at a disavantage in those markets, relative to their foreign competitors>>. Tra la stampa statunitense una delle voci più critiche è stata quella del NYT che il 6 gennaio scorso, citando un working paper del National Bureau of Economic Research della Federal Reverse Bank of New York, ha sostenuto che a pagare il costo maggiore della politica protezionistica di Trump non sia stata la RPC bensì l’economia e i lavoratori americani.

FOTO – La firma del “Presidential Proclamation on Adjusting Imports of Steel into the United States

Nondimeno, le scelte di politica economica di Trump sembrano avere prodotto effetti in particolare sul trade deficit in merci (goods) sofferto dagli Stati Uniti rispetto alla RPC. Un gap che nell’arco del biennio 2018-2020 si è quasi dimezzato [fonte: census.gov]. Per converso, l’export di acciaio statunitense tra il 2018 e il 2019 ha subito una flessione pari al 31% verso la RPC e del 29% verso i top two markets Canada e Messico [fonte: trade.gov/steel]. Il risultato più significativo del braccio di ferro attuato da Trump con Pechino può però essere considerato il raggiungimento di un modus vivendi tra le due potenze economiche globali che ha trovato forma nell’Economic And Trade Agreement siglato il 15 gennaio 2020. Che questa linea decisionale abbia [avuto] come obiettivo primario quello di ridurre la capacità della RPC – intesa come avversario primario – di avantaggiarsi anche nel campo del riarmo a discapito degli Stati Uniti – intesi come potenza egemone – lo ha rivelato, tra altre circostanze, il discorso tenuto da Trump alla stampa il 7 settembre 2020. In un passaggio cruciale, Trump aveva affermato che gli Stati Uniti hanno perso: <<miliardi e miliardi di dollari commerciando con la Cina>> [trad. fonte: whitehouse.gov]senza ottenere vantaggi, mentre i flussi di denaro confluiti nella RPC grazie agli scambi commerciali con Washington avrebbero contribuito ad accrescere il comparto militare cinese. Per tali motivi – sostenne Trump – il ripensamento dei parametri negoziali con Pechino avrebbe dovuto essere un aspetto su cui riflettere attentamente da lì in avanti. Tale, in estrema sintesi, appare essere il significato del concetto sotteso al termine usato da Trump nel suo discorso: <<decoupling>> (lett. “disaccoppiamento”). Che la si possa o voglia chiamare “Dottrina Trump” piuttosto che “Decoupling Theory”, questa postura sembra comunque presentare assunti di fondo rivelatisi validi per il conseguimento dell’obiettivo dichiarato: la rinegoziazione di accordi commerciali considerati svantaggiosi. In relazione alla RPC, tale approccio sembra essere [stato] supportato da alcune delle principali istituzioni federali incaricate di proteggere la sicurezza nazionale. Si pensi, ad esempio, al Report annuale, presentato al Congresso dall’Ufficio del Segretario alla Difesa nel 2020, intitolato Military and Security Developments Involving the People’s Republic of China, oppure al documento programmatico Advantage at Sea, rilasciato nel dicembre 2020 dallo U.S. Naval Service***. A questi documenti vanno aggiunte le opinioni espresse, il 3 dicembre 2020, sul WSJ dal Director of National Intelligence, John Ratcliffe, secondo cui la RPC rappresenterebbe la <<National Security Threat N. 1>> e, per tale motivo, <<the challenge of our generation>>.

Se si escludono il missile strike in Siria [14 apr. 2018], il drone strike contro il Maggior Generale del sepah-e-pasdaran Qassem Soleimani [3 gen. 2020] e il ritiro unilaterale dal JCPOA [8 mag. 2018], le principali decisioni di foreign policy adottate da Trump durante il suo mandato hanno avuto come obiettivo principale il contenimentodella minaccia (ovvero percepita come tale dalla narrazione statunitense) cinese lungo due direttive: da un lato – come accennato sopra – riducendo il trade decifit e, dall’altro, puntando a mantenere il vantaggio strategico nei confronti di Pechino. Che i due obiettivi siano connessi lo ha spiegato Trump stesso nel discorso del 7 settembre 2020, citato prima, con il quale insinuava l’idea che il “commercio sleale” sino-americano finirebbe per avantaggiare il riarmo dell’Esercito Popolare di Liberazione. Tale timor potentiæ può essere ritenuto anche all’origine del ritiro unilaterale dell’America trumpiana da due trattati che, tra la fine della Guerra Fredda e il dissolvimento del Patto di Varsavia, hanno rappresentato capisaldi della stabilità internazionale: l’INF, rispetto al quale, il 2 febbraio 2019, Washington notificò i termini della sospensione ovvero del proprio ritiro, mentre il 22 maggio 2020 fu la volta del Trattato Open Skies, da cui gli Stati Uniti si sono ritirati con effetto dal 22 novembre 2020. Mediante tali scelte Washington ha stralciato impegni ritenuti oramai obsoleti perché – in ossequio alla propria narrativa – autolimitanti a fronte, invece, della circostanza secondo cui Pechino – non vincolata da trattati del genere – sia invece potenzialmente in grado di attuare un processo di riarmo, soprattutto, strategico, simile a quello che tra gli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso permise all’URSS di raggiungere la parità con gli Stati Uniti in fatto di armamenti nucleari. In tal senso, soprattutto un terzo trattato, il New START, siglato da Stati Uniti e Federazione Russa l’8 aprile 2010, in scadenza il 5 febbraio 2021, rappresenta forse il vincolo maggiore. La diplomazia statunitense, nel corso delle conversazioni bilaterali russo-statunitensi sul controllo degli armamenti strategici, tenutesi a Vienna nell’estate 2020, ha mostrato di volere esercitare pressioni su Mosca per spingere Pechino ad unirsi al New START in veste di terzo contraente. Ciò consentirebbe agli Stati Uniti di preservare lo status quo in fatto di armamenti strategici – in un frangente in cui invece non esistono limitazioni per lo sviluppo delle hypersonic weapons – così da consentire alla potenza americana di mantere la propria supremazia, in specie verso la RPC. Quella di un allargamento a tre del New START è però un’ipotesi rigettata da Pechino e ufficialmente glissata da Mosca, sebbene accolta positivamente dal Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg.

23 gennaio 
2017
Donald Trump firma il Presidential Memorandum Reagarding Withdrawal of the United States from the Trans-Pacific Partnership Negotiations and Agreement [TPP]
6 dicembre 
2017
Donald Trump annuncia l’intenzione di riconoscenere ufficialmente Gerusalemme capitale di Israele e trasferirvi la sede dell’ambasciata statunitense, sino a quel momento ubicata a Tel Aviv. Il trasferimento della legazione si compie il 14 maggio 2018
8 maggio 2018Nella Diplomatic Reception Room della Casa Bianca, Donald Trump annuncia il ritiro degli Stati Uniti dal Joint Comprehensive Plan of Action [JCPOA] riguardante il programma nucleare iraniano
2 febbraio 2019
 
Richiamandosi all’art. XV, gli Stati Uniti notificano la sospensione degli obblighi derivanti dal Trattato Intermediate-Range Nuclear Forces [INF], con ritiro   effettivo dal 2 agosto 2019
19 febbraio
2019 
Donald Trump firma la Space Policy Directive-4 con la quale autorizza la creazione della United States Space Force [USSF]
15 gennaio 
2020
Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese firmano l’Economic and Trade Agreement Between The Goverment Of The People’s Republic of China
22 maggio 2020Gli Stati Uniti notificano il loro ritiro dal Trattato Open Skies, divenuto effettivo il 22 novembre 2020
27 settembre 2020Dal North Portico della Casa Bianca Donald Trump tiene il “Decoupling Speech
5 febbraio 20215 febbraio: estinzione del New Strategic Arms Reduction Treaty siglato tra Stati Uniti e Federazione Russa senza che l’Amministrazione Trump abbia raggiunto con Mosca un accordo per il suo rinnovo 

Le principali iniziative assunte dagli Stati Uniti durante la Presidenza Trump

Persino il sostegno manifestato da Trump ad una hard Brexit può essere letto nell’ottica del contenimento cinese, in specie nell’Eurasia. Soprattutto ove si considerino due circostanze: il gradimento mostrato da alcuni Stati dell’UE – definita da Trump “ceppi alle caviglie” del Regno Unito [trad. fonte: bbc.com] – nei riguardi della Belt and Road Initiative e del suo braccio finanziario, l’Asian Infrastructure Investment Bank,  e il raggiungimento del Comprehensive Agreement on Investement tra Bruxelles e Pechino il 30 dicembre 2020. Anche in merito allo scacchiere critico dell’Asia Centrale, [ex] “cortile di casa” della Russia e rispetto al quale negli ultimi anni Pechino ha mostrato interesse, Trump ha giocato le sue (ultime) mosse, annunciando, il 7 gennaio 2021, la creazione della Central Asia Investment Partnership (CAIP), la quale – al momento – raggruppa Stati Uniti, Kazakistan, Uzbekistan con l’obiettivo quinquennale di raccogliere fino a 1mld di dollari per investimenti, cooperando con il gruppo C5+1(Kazakistan, Kirghisia, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan + Stati Uniti). Si tratta di un’iniziativa che può essere considerata – come suggerisce l’identità tra acronimi – una riesumazione di un vecchio progetto del 2002, perciò risalente alla Presidenza di G.W. Bush, denominato Community Action Investment Program (CAIP). Lo spettro cinese diviene così la chiave più adeguata per comprendere alcuni atti della presidenza Trump che se non geopoliticamente contestualizzati rischiano di essere fraintesi o, peggio, superficialmente confinati nel campo del risibile. Il caso più esemplificativo è la proposta, fatta nell’agosto 2019, di acquisizione della Groenlandia. Non si trattava di una bizzarria, bensì della consapevole attribuzione a quella regione autonoma danese di un intrinseco valore geostrategico nel quadro della più grande partita artica che le principali potenze coinvolte stanno giocando sempre più a ritmo serrato negli ultimi anni. Nel 2005, infatti, l’allora Primo Ministro groenlandese aveva guidato una delegazione nella RPC, la quale aveva ricambiato la visita nel 2012, inviando il suo ministro per il Territorio e le Risorse. Dal 2018 la RPC si è inoltre attribuita lo status, inedito (e perciò contestato da Washington), di “near-arctic State”, individuando nella regione artica un’area di interesse vitale. Ciò soprattutto in conseguenza dello scioglimento della banchisa polare, che renderebbe possibile, per la RPC, lo sfruttamento commerciale, in sinergia con la Russia, di nuove rotte marittime per molti mesi l’anno senza l’uso di rompighiaccio, bypassando la tradizionale rotta di Suez. Siffatto progetto rappresenterebbe il corrispettivo marittimo nordico – in quanto Polar Silk Road  della Belt and Road Initiative. A tutt’oggi la rotta di Suez, nel tratto Hormuz-Stretto di Malacca, costituisce l’arteria vitale dei rifornimenti energetici cinesi dal Medio Oriente. In merito a quest’ultimo aspetto, anche nell’area Indo-Pacifico la foreign policy di Trump ha giocato un ruolo determinante in chiave anti-cinese, rinsaldando i rapporti con i propri alleati regionali, alcuni dei quali (Australia, Giappone, India) inclusi nel cosiddetto “The Quad”****. Nel 2019, ad esempio, gli Stati Uniti hanno rinnovato rapporti di cordiale intesa con due Stati-sentinella ai chokepoints di Hormuz e Malacca, firmando uno Strategic Framework Agreement con il Sultanato dell’Oman [24 marzo] e un Protocol of Amendment to the Memorandum of Understanding Regarding United States Use of Facilities  con la Repubblica di Singapore [19 settembre].

FOTO – La firma sul “Strategic Framework Agreement

Si inserisce in questo affresco anche la Space Policy Directive-4, con la quale Trump, il 19 febbraio 2019, ha autorizzato la creazione della United States Space Force, avente il compito di esercitare le capacità difensive nazionali nello spazio extra atmosferico. Questa decisione può essere letta come l’ultimo tassello, in ordine di tempo, di una lineare e coerente politica intesa a garantire, anche nel XXI secolo, la propria supremazia strategica degli Stati Uniti rispetto ad altre potenze regionali (ritenute) emergenti, mediante un combinato formato dal vantaggio nucleare strategico (in specie verso la Cina), dal maritime domain, dalle comprehensive missile defense capabilities, dallo sviluppo delle hypersonic weapons, dalla dottrina [ConventionalPrompt Global Strike, dalle applicazioni dell’electronic warfare oltreché, appunto, dalla militarization of outer space. Per tali motivi, la gestione dell’emergenza pandemica potrebbe non essere l’unica priorità nell’agenda del nuovo Presidente. La sfida rappresentata dalla competizione asimmetrica con la RPC, l’ulteriore abbattimento del trade deficit negli scambi commerciali sino-americani, insieme ai negoziati per il New START – insistendo per un allargamento a Pechino – potrebbero costituire elementi di continuità rispetto al suo precedessore, mentre, viceversa, Biden ha già annunciato che intende far rientrare gli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, rispetto al quale l’Amministrazione Trump aveva formalmente comunicato il proprio ritiro il 4 novembre 2019, con effetto ad un anno dalla notifica [fonte: buildbackbetter.gov; state.gov].  A ciò si aggiunga che la Presidenza Trump lascia in eredità a Biden anche la spinosa questione iraniana, con tutto ciò che ne consegue in relazione ai contenuti della Dottrina Carter. L’Iran, che a gennaio aveva annunciato di procedere all’arricchimento sino al 20% del suo uranio nel complesso di Fordo (Provincia di Qom), ha infatti comunicato che provvederà ad espellere gli ispettori delle Nazioni Uniti se entro il 21 febbraio 2021 gli Stati Uniti non ritireranno le sanzioni imposte dall’Amministrazione Trump. Quella che può essere considerata una riposta alle richieste iraniane è giunta, quasi in extremis, dal Segretario di Stato uscente, Mike Pompeo, il quale, il 12 gennaio, parlando al National Press Club di Washington, ha accusato l’Iran di essere la nuova base di al-Qaida [fonte: ansa.it], confermando in aggiunta l’uccisione avvenuta a Teheran, nell’agosto 2020, del numero due dell’organizzazione, Abdullah Ahmed Abdullah. Il 10 gennaio, Pompeo aveva inoltre annunciato di avere sottoposto al Congresso la proposta di includere il gruppo yemenita houthi Ansar Allah – definito dal Segretario di Stato <<a deadly Iran-backed militia group in the Gulf region>> [fonte: state.gov] – nella lista delle organizzazioni terrostiche staniere. A loro volta, il tema del nucleare iraniano e la guerra civile yemenita si inseriscono nella più ampia e complessa trama mediorientale, quest’ultima resa ancora più delicata dalla decisione – annunciata da Trump il 6 dicembre 2017 – di dare effettivo compimento al Jerusalem Embassy Act del 1995, spostando l’ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Anche questa iniziativa, insieme a quelle sin qui ricordate, costituisce – comunque la si voglia giudicare – parte integrante di quei provvedimenti decisi dall’Amministrazione Trump destinati molto probabilmente a lasciare traccia profonda in futuro. Per tali motivi la Presidenza repubblicana del tycoon newyorkese non dovrebbe, forse, essere liquidata con sbrigativa sottovalutazione.

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* General Agreement on Tariffs and Trade; in part. L’<<Agreement on Subsidies and Countervailing Measures>>.

** F. Aaron-J. Pierce, <<Disentangling the Effects of the 2018-2019 Tariffs on a Globally Connected U.S. Manufacturing Sector>>.

*** Insieme delle forze militari navali degli Stati Uniti: US Coast Guard, US Marine Corps, US Navy.

**** Abbr. per  [ufficiosamente] <<Quadrilateral Security Dialogue>>.

Roberto Motta Sosa
RobertoMottaSosa

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