L’importanza della difesa dei valori democratici in Brasile e in America Latina

L’importanza della difesa dei valori democratici in Brasile e in America Latina

31 Luglio 2023 0

Il recente vertice tra i Paesi dell’Unione europea (UE) e la Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (Celac), tenutosi a Bruxelles, è stato caratterizzato da una proposta articolata di partenariato con la Francia, per il ritiro delle sanzioni contro Venezuela in caso di libere elezioni nel paese nel 2024 e per le diverse e dissonanti posizioni pubbliche in relazione al conflitto tra Russia e Ucraina, in particolare nei discorsi espressi dai presidenti del Cile, Gabriel Boric, e del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva.

Proprio questi movimenti in atto nella regione ci hanno convinto a intervistare Augusto de Franco, uno studioso brasiliano esperto della cosiddetta società delle reti e in dinamiche politiche. L’esperto si focalizzerà in particolare sui progetti politici e sulla difesa dei valori democratici in corso in’America latina. Esploreremo il suo punto di vista sull’importanza crescente delle reti nel contesto politico e sociale della regione, nonché la sua ricerca sui progetti politici autocratici e le possibili implicazioni per la democrazia occidentale.

Infografica - La biografia dell'intervistato Augusto De Franco
Infografica – La biografia dell’intervistato Augusto De Franco

La leadership diplomatica brasiliana nella Regione affronta il dissenso di voci come quella del presidente Gustavo Petro, che ha già suggerito su Twitter un cambiamento nella nomenclatura dell’Unione delle nazioni sudamericane (UNASUR) in Associazione delle nazioni sudamericane, con l’obiettivo di “assicurare il pluralismo e la permanenza nel tempo”.

Un’altra voce che non è d’accordo è quella del presidente dell’Uruguay, Luis Lacalle Pou, che ha affermato categoricamente che questi gruppi finiscono per diventare “gruppi ideologici” e sono soggetti agli interessi politici del governo che è al momento responsabile di ciascun paese.

In questo contesto è fondamentale spiegare ai lettori italiani come le sottigliezze discorsive nei discorsi di questi leader nazionali denotino i diversi modelli che caratterizzano le scelte dei loro Paesi in relazione all’ambiente istituzionale che favorisce le pratiche democratiche nelle rispettive società.

Secondo i criteri del V-Dem Institute (Università di Göteborg), oggi in Sud America esistono solo due democrazie liberali: Uruguay e Cile. Secondo The Economist Intelligence Unit, ci sono due democrazie complete: ancora una volta, l’Uruguay o il Cile. Laccale Pou, uruguaiano, è considerato di destra. Gabriel Boric, cileno, è considerato di sinistra.

Non è un caso, né per una questione ideologica, che i leader di questi paesi si siano risvegliati dall’orientamento populista (e quindi non liberale) di Lula per proteggere realtà come il Venezuela, Nicaragua e Cuba. In linea di principio, la proposta di revocare le sanzioni venezuelane nel caso in cui il regime di Maduro tenga le elezioni nel 2024 è corretta. Per garantire che le elezioni venezuelane siano considerate eque, gli osservatori di regimi democratici liberi devono guardare non solo alle promesse, ma anche sulla disparità di ‘armi’ tra governo e opposizione. Basterebbe, per riassumere, porre una domanda: c’è stata libertà di stampa nell’ultimo decennio in Venezuela?

– Oltre alle crisi politiche, economiche e umanitarie in Venezuela sotto Nicolás Maduro, la regione ha altri casi recenti di escalation autocratica. Sempre nel campo delle cosiddette sinistre, c’è il Nicaragua di Daniel Ortega, che sta vivendo un aggravamento di pratiche autocratiche attraverso i militari, i paramilitari e la giustizia, oltre a essere in una grave crisi con la Chiesa cattolica nel Paese.

Nel campo della destra c’è invece il caso di El Salvador e del presidente Nayib Bukele, un paese che promuove l’incarcerazione di massa e misure repressive contro la società civile, come gli attacchi al sistema giudiziario e legislativo.

Questi sono solo due esempi delle debolezze discusse nella Convenzione sui diritti umani firmata a San José, in Costa Rica. Secondo la sua ricerca, si può prevedere l’impatto derivante dalle ondate di autocratizzazione e democratizzazione nelle Americhe?

Sì, è possibile – ma i risultati di questo sforzo di previsione è un po’ scoraggiante. Le Americhe vivono – come il mondo intero peraltro – la terza ondata di autocratizzazione dall’inizio del XXI secolo. Non c’è invece una quarta ondata di democratizzazione in vista. Nelle Americhe oggi ci sono cinque democrazie liberali (Stati Uniti, Barbados, Costa Rica, Uruguay e Cile).

C’era una sesta democrazia, che recentemente è confluita nella democrazia elettorale, secondo il V-Dem: il Canada. A ogni modo, è ancora considerata una democrazia piena, secondo l’EIU (The Economist Intelligence Unit), ma non più gli Stati Uniti, che sono diventati una flawed democracy. D’altra parte, abbiamo un’autocrazia chiusa (Cuba) e cinque autocrazie elettorali (Haiti, Guatemala, El Salvador, Nicaragua e Venezuela).

L’alba del XXI secolo non è stato un bene per la democrazia nell’America centrale e meridionale. Oltre ai regimi rivoluzionari di Cuba (1959) e del Nicaragua sandinista di prima generazione (con Daniel Ortega: 1979-1984), abbiamo avuto nel 21° secolo: Venezuela (con Hugo Chávez e Nicolás Maduro: 1999 a oggi), Brasile (con Lula e Dilma: 2003-2016 e Lula Paraguay con Lugo: 2008-2012), El Salvador (con Mauricio Funes e Salvador Cerén: 2009-2019), Argentina (con Kirchners e Fernandez: 2003-2015 e 2019 ai giorni nostri), Messico (con Obrador: 2018 ai giorni nostri), Colombia (con Petro: 2022 ai giorni nostri), Perù (con Castillo: 2021-2023 e Boluarte: 2023 ai giorni nostri).

A eccezione delle autocrazie, chiuse (Cuba) ed elettorali (Guatemala, El Salvador, Haiti, Nicaragua e Venezuela), abbiamo un insieme di democrazie elettorali parassitate da cosiddetti populismi di sinistra o di destra e, in alcuni casi, da entrambi (come il Brasile polarizzato tra bolsonarismo e lulopetismo). Le cinque (democrazie liberali o piene) che sfuggono a questo non hanno la forza di cambiare l’orientamento illiberale o non liberale degli altri regimi.

– Lei da decenni studia le società in rete, accompagnando la strutturazione di diverse iniziative nell’ambito delle società civili organizzate fin da quando il mondo era ancora per lo più analogico. Ha inoltre accompagnato la profusione di gruppi estremisti che si organizzano a livello transnazionale, anche in una logica di rete.

Dieci anni fa, quando le primavere portarono milioni per le strade di diversi paesi (in Brasile erano i cosiddetti viaggi di giugno 2013) confezionava analisi che spiegavano la genesi del malcontento che muoveva gli individui alle masse ma non poteva pensare di prevedere scenari futuri. Cos’è sostanzialmente cambiato dieci anni fa?

È sempre possibile che le ‘eruzioni’ sociali (swarming, come quelle avvenute nel giugno 2013 in Brasile) modifichino le tendenze autocratiche. Ma le manifestazioni di questa fenomenologia dell’interazione sociale, in mondi altamente connessi come quelli che già viviamo, sono maggiormente capaci di disordinare il funzionamento del sistema così come di inaugurare nuove istanze normative del suo funzionamento: per loro stessa natura non creano istituzioni.

Ciò che è cambiato negli ultimi 10 anni: si tratta di un nuovo arrangiamento del vecchio sistema (centrato sullo stato nazionale) e costruito per sopravvivere all’emergenza di una società delle reti. L’esempio più eloquente di ciò è stato quello che è successo nella cosiddetta primavera araba, soprattutto in Egitto, teatro delle più grandi manifestazioni sociali della storia umana (che hanno rovesciato il dittatore Mubarak nel 2011 e il jihadista eletto della Confraternita Musulmana, Morsi, nel 2013) e sono state succedute da una dittatura militare di Abdul Fatah Khalil Al.

– I diversi populismi politici e ideologici, secondo i sondaggi pubblicati da voi, minano quotidianamente il liberalismo politico che fonda le democrazie contemporanee. Questi modelli di stato autocratico hanno caratteristiche adattabili alle realtà locali di ogni paese.

In che modo questi leader di progetti antidemocratici approfittano delle esperienze lontane per applicarle ai loro progetti di potere? Ci sono reti apertamente coordinate in questo senso? Può citare quali e nominare quali creda siano questi movimenti populisti nel XXI secolo?

Ci sono sempre reti, troppe reti. Ma le reti non sono organizzazioni (istituzioni, insidie per catturare i flussi e farli girare in un ambiente chiuso) ma persone che interagiscono. Nei casi del neopopulismo (populismo di sinistra, di base marxista, in America Latina) e populismo-autoritario o nazionale-populismo (populismo di estrema destra, che fiorì nel secondo decennio di questo secolo in tutto il mondo) abbiamo diversi tentativi di articolazione più o meno stabili, come, nel primo caso, il Foro di San Paolo.

E, nel secondo caso, il Movimento di Steve Bannon. È importante sottolineare che il neopopulismo è emerso un decennio prima della fioritura del populismo-autoritario, avendo, tuttavia, un impatto più situato in una regione: il Sud e l’America Centrale. È importante sottolineare che il neopopulismo è emerso un decennio prima della fioritura del populismo-autoritario, avendo, tuttavia, un impatto più situato in una regione: il Sud e l’America Centrale.

Il populismo-autoritario, d’altra parte, è forse iniziato con l’arrivo al potere di Vladimir Putin in Russia (1999-2000), ma è davvero iniziato con l’ascesa del Movimento 5 Stelle in Italia (2009-2019) e il ruolo di Marine Le Pen (dal 2012) e Matteo Salvini (2018-2019), seguito dall’elezione di Giorgia Meloni (2022 a oggi); Il governo di Viktor Orbán in Ungheria (2010 a oggi); il governo di Erdogan in Turchia (2014 a oggi); l’ascesa di Narendra Modi in India (2014 a oggi); la Brexit (2016, con conseguenze nefaste ai nostri giorni); il governo di Duda in Polonia (dal 2015); il governo di Duterte nelle Filippine (2016-2022); L’elezione e l’amministrazione di Donald Trump negli Stati Uniti (2016-2021) e il movimento populista di Steve Bannon (2016 ai giorni nostri); e l’elezione e il governo di Jair Bolsonaro in Brasile (2018-2022).

– Analizzando freddamente il contenuto della nostra conversazione possiamo concludere che viviamo una distopia apocalittica. Ma quando ci imbattiamo nelle sue iniziative personali, come la rete di conversazione distribuita chiamata Casas da Democracia/Houses of Democracy e il gruppo di studio sugli standard autocratici chiamato Dagobah (il nome di un periferico pianeta immaginario della saga cinematografica di Star Wars) vediamo che è ancora entusiasta dell’interazione e del rispetto per le alterità.

Il suo ultimo libro è intitolato “Come nascono le democrazie“, in diretta allusione al libro “Come muoiono le democrazie” di Daniel Ziblatt e Steven Levitsky.

Lei è stato membro del primo dirigente del Partito dei Lavoratori (PT), avendo rotto con l’acronimo molto prima che raggiungessero il potere in Brasile. All’isolamento radicale, ha preferito essere moderato e hai assistito il governo Fernando Henrique Cardoso negli studi che hanno fondato la legge sulle organizzazioni della società civile di interesse pubblico (OSCIP).

Successivamente, ha continuato a studiare i modi in cui le persone si connettono per sviluppare iniziative di impatto sociale. Mi rendo conto che la lunga crisi di credibilità delle istanze politiche, in un certo senso ancora attuale, ha reso semplicemente teorici alcuni dei suoi studi che qualche anno fa tendevano a diventare pratici.

La generazione inventiva che voleva occupare però gli spazi pubblici all’inizio del millennio si è spesso messa in discussione e si è chiesta dove ha sbagliato. Per lei, c’è ancora speranza per le democrazie? 

Dal luminoso decennio del 1990 agli anni bui che sono venuti con il XXI secolo, i mondi sono cambiati perché è cambiata la configurazione degli ambienti. Ci siamo persi il futuro. Siamo, davvero, sotto una terza ondata di autocratizzazione, che impedisce la fioritura delle iniziative dei democratici liberali-innovativi. Il volontarismo non serve a molto.

Sarebbe come cercare di fare qualcosa di creativo e collaborativo negli anni bui tra il 1934 e il 1944. In un certo senso, torniamo a un’epoca simile. Resta da vedere se entriamo di nuovo in una seconda grande Guerra fredda opponendo la coalizione delle democrazie liberali all’asse autocratico composto dalle più grandi dittature del pianeta (Russia, Cina, India, Iran ecc.).

Non c’è via d’uscita almeno per ancora una generazione, forse anche due (se non vogliamo parlare di un secolo). I democratici liberali-innovativi devono ora agire come i monaci irlandesi che hanno salvato la civiltà durante l’età oscura (dal 5 all’8 secolo) in Europa, mantenendo vivi i colloqui democratici e moltiplicando, a livello molecolare, il numero dei democratici (poiché è democrazia senza democratici).

E questo non si fa da un giorno all’altro. È come piantare datteri, non rape o ravanelli.

Traduzione dal portoghese a cura di Arthur Ambrogi

Arthur Ambrogi
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