Turchia, Gasparetto: Ankara non ha mai smesso di stare dentro al campo occidentale di alleanze. Resta però uno Stato in bilico

Turchia, Gasparetto: Ankara non ha mai smesso di stare dentro al campo occidentale di alleanze. Resta però uno Stato in bilico

17 Dicembre 2020 0

Le sanzioni imposte dagli Stati Uniti ad Ankara, per l’acquisto del sistema missilistico russo S-400, hanno nuovamente fatto infuriare il presidente turco Recep Tayyip Erdogan che ha tuonato contro Washington definendo la scelta di Trumpun palese attacco alla sovranità” del suo Paese intrapresa con un unico obiettivo: rendere “dipendente” l’industria della difesa turca verso il sistema di armamenti d’oltreoceano. A prescindere dalla debolezza della politica delle sanzioni, come ben evidenziato in una nostra intervista al professor Aldo Ferrari, resta centrale la nuova escalation di tensione che stanno vivendo i rapporti diplomatici già tesi tra la Turchia e il mondo Occidentale. Mai come in questi ultimi mesi si percepisce un cortocircuito tra gli interessi di Europa e Stati Uniti con quelli del presidente Erdogan. Abbiamo quindi chiesto ad Alberto Gasparetto la sua opinione al riguardo visto che è autore di una interessante monografia edita da Carocci dal titolo “La Turchia di Erdogan e le sfide del Medio Oriente. Iran, Iraq, Israele e Siria“.

Infografica – La Biografia dell’intervistato Alberto Gasparetto

– Da più parti si parla di un presidente Erdogan che aspira ad un nuovo sultanato. Si tratta di una immagine veritiera?

I concetti di “sultano” e del relativo regime politico, il “sultanato”, sono senz’altro molto efficaci, giornalisticamente parlando, in quanto mirano a creare e rafforzare nel pubblico occidentale l’idea che esista una continuità fra il regime ottomano e quello che Erdogan ha costruito dopo diciott’anni di permanenza al potere. Si è parlato in lungo e in largo della politica neo-ottomana di Erdogan con particolare riferimento alla sua politica estera nei confronti di Paesi su cui l’Impero ottomano esercitava il suo potere nei secoli passati. Sono evocativi in quanto rinviano all’idea di un forte potere accentratore “nelle mani di un uomo solo al comando” che dispone a proprio piacimento delle sorti di una nazione intera e non solo. Ma c’è anche molto sensazionalismo in tutto ciò. Si tratta secondo me di concetti alquanto fuorvianti, in quanto l’esperienza sultanale si è conclusa ufficialmente col disfacimento dell’impero dopo la Prima guerra mondiale. La Turchia è una Repubblica presidenziale fondata su quello che molti politologi definiscono “autoritarismo competitivo”, cioè un sistema nel quale una serie di fazioni, gruppi o partiti ufficialmente lottano per il potere in un contesto fortemente sbilanciato nei confronti del partito di governo in cui quest’ultimo possiede un vantaggio competitivo rispetto agli avversari, potendo contare su una stampa allineata, sul controllo della magistratura, delle forze armate e di polizia, cioè su una serie di mezzi cruciali attraverso cui poter intimidire le opposizioni e reprimere facilmente il dissenso.

Quanto ha influito il fallito golpe sulla politica di Erdogan e del suo partito?

Il fallito golpe, occorso nella notte fra il 15 e 16 luglio 2016 ha agito da detonatore per il consolidamento dell’autoritarismo in Turchia. Pur non essendo mai diventata una democrazia liberale, la Turchia aveva virato in quella direzione nel decennio precedente, senza mai arrivarci completamente. Dopo il 2011, in seguito alla terza vittoria elettorale dell’AK Parti in serie e, in seguito ai diversi processi che avevano tolto dalla scena gran parte della vecchia élite kemalista, lo scontro finale si apprestava a consumarsi all’interno della fazione islamista: il gruppo di Erdogan e quello facente capo al predicatore Fetullah Gulen. Quindi, se il processo era già stato avviato da tempo, quell’evento ha posto le premesse per la definitiva svolta autoritaria nel Paese. Riduzione al silenzio delle opposizioni, repressione del dissenso anche con la forza, accentramento del potere con svolta presidenzialista e ulteriore stretta sulla magistratura e sulle forze armate, nazionalismo spinto e svolta aggressiva in politica estera sono i principali ingredienti della nuova ricetta politica elaborata da Erdogan. Tutto ciò si è però presto tramutato in un’arma a doppio taglio per lui e per il suo partito, in un Paese sempre più spaccato, Infatti, le conseguenze prodotte dall’accentramento del potere nelle mani di un uomo solo al comando sono ormai anche la principale causa della lenta ma progressiva erosione del suo consenso, non soltanto nel Paese ma anche all’interno del suo partito, con pezzi importanti che sono fuoriusciti andando a istituire altre formazioni.

– Per quali ragioni sta cambiando l’approccio turco verso il resto del mondo?

Come osservato precedentemente, la svolta autoritaria e nazionalista ha agito da detonatore anche nella politica estera turca, sempre più appannaggio delle iniziative di Erdogan e del suo gruppo di leali collaboratori. L’aggressività mostrata negli ultimi anni con la decisione di essere militarmente presenti in molti teatri, dalla Siria alla Libia, dal Caucaso al Corno d’Africa sono il sintomo da un lato della ricerca di un’egemonia regionale e di proiezione di potenza extraregionale, dall’altro del tentativo di Erdogan di recuperare il consenso interno, messo a dura prova anche dalle performance negative in economia. Ma va osservato che questa proiezione egemonica si è rivelata come un’arma a doppio taglio in politica estera, creando non pochi problemi con i vecchi partner della Nato e gli Stati Uniti in testa.

– L’escalation di aggressività turca verso i propri vicini deriva da valutazioni di carattere più economiche, religiose e di consenso interno o di sicurezza nazionale?

Come appena accennato, l’aggressività e il nuovo protagonismo in politica estera derivano da un mix fatto di nazionalismo, ricerca di uno status di grande potenza nelle relazioni internazionali e di reazione al calo del consenso interno. Le motivazioni religiose, se pur presenti nella politica estera turca da quando l’AK Parti è salito al potere nel novembre 2002, non hanno però un peso predominante, ma sono invece per lo più un mezzo per perseguire altri fini. Lo sfruttamento delle affinità religiose e/o culturali e linguistiche condivise con minoranze presenti in altri Paesi è al servizio della politica di potenza.

– La Turchia puó ancora dirsi filo Occidentale?

La Turchia non ha mai smesso di stare dentro al campo occidentale, almeno dal punto di vista delle alleanze internazionali. Resta comunque affascinante e calzante la categorizzazione data da Samuel Huntington di “Paese in bilico”. Infatti, quello a cui stiamo assistendo da alcuni anni, vale a dire la crisi con gli Stati Uniti e con l’Unione Europea su molteplici dossier (diritti umani, lotta all’indipendentismo curdo, atteggiamento verso lo Stato islamico, questione dei flussi migratori) è il frutto di un riposizionamento strategico che affonda le radici più nella logica delle relazioni internazionali scaturita in seguito alla fine della guerra fredda (quindi ben prima che Erdogan arrivasse al potere) che, per fare un esempio, nel razionale convincimento che sia meglio allearsi alla Russia voltando le spalle all’Occidente. Al momento, quello con la Russia non è altro che un matrimonio d’interesse celebrato su diversi teatri (Caucaso, Libia, Siria). Un insieme di intese tattiche che riflette il diffuso senso di frustrazione per l’annoso atteggiamento europeo nei confronti del processo di adesione e di cui la Turchia scaltramente si serve per provocare gli stessi europei e americani allo scopo di ottenere a sua volta delle contropartite da giocarsi con altri attori sui diversi scenari.

– I conflitti con la Grecia nascono da più lontano di quanto non sembri? È ancora pensabile una Turchia che entri nell’Ue?

Le tensioni con la Grecia fanno emergere il senso di frustrazione presente nel Paese da un secolo, cioè da quando le grandi potenze mondiali decisero la spartizione dei territori appartenenti all’ex-Impero ottomano. Con la Grecia, la questione ha a che fare con le isole contese presenti nel tratto di Mar mediterraneo che bagna entrambi i Paesi e con i contenziosi nel Mediterraneo stesso generati dalle scoperte di giacimenti di idrocarburi. Al momento, ogni ipotesi di ingresso della Turchia nell’UE mi sembra remota per via delle controversie sui dossier cui accennavo nella risposta alla domanda precedente.

– Intervenendo nel conflitto in Nagorno la Turchia non rischia di irritare la Russia, dopo l’Ue?

Certo, questo rischio esiste, ma con la Russia si è ormai consolidato un delicato equilibrio fondato su compromessi diffusi in svariate arene geopolitiche. Vuoi per convinzione (la dottrina Davutoglu che informava la politica estera turca fino al 2010), vuoi per necessità, la Turchia sta agendo da protagonista spregiudicata sui diversi teatri geopolitici contigui di cui è perno. 

– È possibile pensare ad una Turchia che si stacchi dalla Nato e persegua una propria politica autonoma di forza equilibratrice nel Medioriente?

La Turchia è da anni alla ricerca di una propria autonomia strategica. L’establishment tutto ha ben compreso (o probabilmente ha sempre saputo) che solo fino ad un certo punto ci si può fidare degli europei (e, di conseguenza, degli americani). La sindrome di Sèvres è un atteggiamento psicologico mai sopito che orienta con forza la politica estera turca ancor oggi. Come tutti i fenomeni umani e politici, anche le alleanze hanno un’origine, uno sviluppo, un declino e una fine. Tuttavia, sebbene l’ipotesi di fuoriuscita dalla Nato sia stata avanzata ripetutamente da più parti, ad oggi assomiglia più a un wishful thinking diffuso nei dipartimenti di stato di alcuni governi che a un’opzione concretamente praticabile. Certo, le profezie auto-avveranti a volte finiscono per realizzarsi, ma staccarsi dalla Nato significherebbe per Ankara porsi alla mercé di grandi potenze globali rivali come la Russia e la Cina con cui, per tradizione politica, sarebbe più complicato realizzare una relazione cooperativa. 

– Spesso si è parlato di ricatti quando si guarda alle minacce turche verso Grecia e Bulgaria. Lei che cosa pensa al riguardo?

Ritengo che l’arma del ricatto utilizzata da Erdogan sia una diretta conseguenza dell’incapacità e della mancanza di volontà da parte europea di trovare una soluzione coordinata e win-win con Ankara relativa alla questione migratoria. Finché in Europa vi saranno pregiudizi nei confronti di tutta la Turchia, le incomprensioni e le tensioni continueranno a prodursi generando ulteriori incomprensioni e tensioni alimentando un circolo vizioso. Occorre prendere atto che finché ci sarà Erdogan bisogna sì usare un tono muscolare senza però dimenticarsi che una larga parte degli 80 milioni di turchi non si riconosce affatto nella politica del presidente e che, ammesso che lo si voglia, si possono ancora incoraggiare altre forze presenti nel panorama politico interno.

– Quali sono gli interessi della Turchia su Albania e Kosovo?

In questi Paesi, sui cui l’Impero ottomano esercitava il suo dominio nei secoli passati, vi sono forti minoranze di fede musulmana sensibili ai proclami di Erdogan. E’ il passato glorioso, fatto di simbologie e miti che Erdogan sfrutta abilmente per ingraziarsi le forti minoranze musulmane e turcofone presenti in realtà in tutta l’area balcanica. Prima di Albania e Kosovo, la Turchia ha fatto grandi investimenti in un paese come la Bosnia. L’obiettivo della strategia è quello di creare una base per i suoi progetti commerciali e di investimento, che negli ultimi anni sono aumentati vertiginosamente, attraverso la direzione operata dalla Diyanet (il Direttorato degli affari religiosi che da quando l’AK Parti è al potere si occupa anche di promuovere l’islam turco all’estero) e l’allocazione di capitali per la costruzione di moschee, scuole, l’istituzione di borse di studio. Non si può poi dimenticare che ci sono anche forti interessi energetici nell’area e che l’Albania è il terminale geografico in cui il gasdotto TANAP si collega al TAP.

– Osservando l’escalation di attacchi al presidente Macron il ruolo di Erdogan nuovo capopolo dei mussulmani contro l’Occidente sta nelle corde del presidente turco?

Agli attacchi rivolti al presidente Macron fanno da contraltare alcune mosse del presidente francese stesso che si possono interpretare del tutto o almeno in parte in ottica anti-turca, come ad esempio il braccio di ferro sulle questioni energetiche nell’East-Med e i rapporti con il regime di al-Sisi, suggellati dalla decisione di accordargli la Legione d’onore. Ecco, quando in base a un pregiudizio culturalista gli europei si schierano tutti contro il cosiddetto “Sultano”, reo di portare avanti un’agenda imperialista neo-ottomana per islamizzare l’Europa, sforziamoci di non credere automaticamente che Macron assuma certe posizioni mosso da un convinto spirito europeista. La politica estera della Francia è altrettanto nazionalista, dalla Libia all’Egitto, alla questione della ricerca di idrocarburi nel Mediterraneo. Dovremmo avere il coraggio di dirlo ad alta voce noi italiani. Erdogan non può far altro che sfruttare questa situazione per mietere consenso fra le masse di immigrati di fede musulmana in Europa. Ritengo che politicamente sarebbe più conveniente guardare il dito anziché la luna. Mi limito a constatare che quando si tratta di Erdogan avviene il contrario.

– I rapporti pericolosi della Turchia con mercenari integralisti e terroristi rischiano di portare ad una radicalizzazione dell’Islam in tutte le aree filoturche?

In una certa fase, fra il 2014 e il 2016, la Turchia ha favorito l’avanzata dello Stato islamico principalmente in funzione anticurda. L’indipendentismo curdo, nella sua variante terrorista, era e resta la principale minaccia percepita alla sicurezza nazionale turca. Ma quando lo Stato islamico ha cominciato a perpetrare attacchi anche sul territorio turco, Ankara si è unita agli sforzi della coalizione internazionale per contrastarne militarmente le milizie. Le ambiguità insite volutamente nei discorsi di Erdogan sono una miccia accesa che può incendiare i Paesi dove i suoi proclami attecchiscono meglio. Ma, anche qui, sarebbe meglio non dimenticare che soffiare sul fuoco dell’integralismo islamico può essere un’arma a doppio taglio, considerando che la Turchia è rivale geopolitica di paesi quali l’Arabia Saudita e le altre petromonarchie che, fino a prova contraria, sono i principali finanziatori dell’integralismo e del terrorismo islamico.

Marco Fontana
marco.fontana

Iscriviti alla newsletter di StrumentiPolitici