Shoa, Dario Foà: “Nessuno chiese scusa e nemmeno a guerra finita la gente parlò mai dell’accaduto”

Shoa, Dario Foà: “Nessuno chiese scusa e nemmeno a guerra finita la gente parlò mai dell’accaduto”

27 Gennaio 2023 0

Un impegno oggi ci unisce e ci interpella. Mai più a un mondo dominato dalla violenza, dalla sopraffazione, dal razzismo, dal culto della personalità, dalle aggressioni, dalla guerra. Mai più a uno Stato che calpesta libertà e diritti. Mai più a una società che discrimina, divide, isola e perseguita. Mai più a una cultura o a una ideologia che inneggia alla superiorità razziale, all’intolleranza, al fanatismo“. Ha scelto queste parole il presidente della Repubblica italiano Sergio Mattarella per ricordare la Shoah, nel Giorno della Memoria.

Ma le parole più forti della sua riflessione sull’Olocausto Mattarella le dedica a chi ha concorso a questa terribile pagina di storia. “La parte maggiore della responsabilità fu di Hitler e Mussolini. Ma il terribile meccanismo di distruzione non si sarebbe messo in moto se non avesse goduto di un consenso, a volte tacito ma comunque diffuso, nella popolazione. Un consenso con gradi e motivazioni diversi: l’adesione incondizionata, la paura, ma anche, e spesso, il conformismo e quell’orribile apatia morale costituita dall’indifferenza“.

E proprio il consenso diffuso e profondo verso le brutalità delle leggi razziali da parte delle masse è al centro della testimonianza che abbiamo avuto il privilegio di raccogliere per questo 27 Gennaio. Quella a Dario Foà, nipote del Rabbino Capo della Comunità ebraica di Napoli, che ha vissuto sulla sua pelle le leggi per la difesa della razza attraverso la frequentazione obbligata della  “Sezione Speciale per bambini di razza ebraica”.

Infografica - La Biografia dell'intervistato Dario Foà
Infografica – La Biografia dell’intervistato Dario Foà

– Oggi ricorre il Giorno della Memoria. Quanto è importante ricordare oggi?

– Non è solo importante, ma è indispensabile. Se non si ricorda, si rischia di ripetere certe esperienze. Purtroppo molti giovani sanno poco e molti che non sono più giovani tendono a dimenticare. È un gran peccato. Come dice la senatrice Segre il rischio è che domani tutto si riduca a una riga su un libro di storia. Ciò sarebbe grave. Il ricordo è doveroso non tanto verso gli ebrei, quanto verso le istituzioni, la società, l’umanità intera.

– Mi dispiace farLe ripercorre fatti dolorosi della Sua vita, ma è importante sentire la voce di una persona che ha passato davvero quelle tragiche esperienze. Il problema del futuro sarà infatti la scomparsa di coloro che vissero quegli anni terribili.

– Vorrei precisare di aver avuto l’enorme fortuna di non essere stato deportato. Vivevo a Napoli, dove mio nonno era rabbino capo della comunità. Alla fine di settembre del 1943 l’insurrezione popolare cacciò i tedeschi dalla città e subito dopo entrarono gli americani. Noi quindi non subimmo le feroci persecuzioni che da lì a poco sarebbero iniziate a Roma e poi via via nel centro e nel nord della Penisola. Al di là dell’aspetto più violento delle persecuzioni, raccontato in molti modi fra libri e film, vi sono situazioni che meritano il ricordo. Nel 1938 avevo 7 anni e venni cacciato da scuola nell’indifferenza totale degli altri.

Mi venne impedito di iniziare la seconda elementare. Anche i miei fratelli maggiori non poterono più frequentare l’istituto, dove avevano già molti amici, nessuno dei quali si interessò alla sparizione di quei compagni di classe. Nessuno mosse un dito, nessuno fece domande. Questo è veramente qualcosa di terribile. Nel 1938 venne firmato dal Re il primo “provvedimento a difesa della razza”, al quale seguirono circa 200 fra decreti, circolari e disposizioni amministrative che ponevano divieti agli ebrei.

La scoperta di questa mole di documenti che estromette gli ebrei dai vari ambiti della vita civile è stata fatta dalla studiosa Liliana Picciotto dello CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) di Milano. Nella legge del ’38 si parla della “urgenza” di difendere la razza italiana, ma tale urgenza da cosa era determinata? All’epoca vi erano 43 milioni di italiani e 44mila ebrei, dunque un ebreo ogni mille non ebrei. Come potevano quindi gli ebrei rappresentare un pericolo? Ero il quarto di cinque fratelli. Il più grande era in procinto di andare all’Università, ma gli venne impedito.

Uno zio che viveva negli Stati Uniti lo invitò a trasferirsi là: oggi ha 102 anni e vive tuttora negli USA. Gli altri due fratelli maggiori andavano al ginnasio, ma vennero cacciati dalla scuola e si misero a studiare privatamente presso quei professori licenziati a loro volta dagli istituti. La legge stabiliva che tutti i bambini italiani dovessero frequentare almeno fino alla quinta elementare: anch’io ero un cittadino italiano, ma impossibilitato a frequentare la scuola. Lo Stato stesso cadeva così in contraddizione, perciò venne emanata un’altra legge per la quale in ogni città in cui vi erano almeno 10 bambini ebrei di età scolare si poteva creare una sezione speciale per i bambini di razza ebraica.

A Napoli nella nostra piccola comunità scoprimmo però di essere 9. Per risolvere questo problema il direttore dell’istituto Vanvitelli, nel quale avrebbe dovuto essere costituita tale sezione speciale, inventò una scappatoia. Mandò a chiamare mia madre e le chiese l’età del quinto figlio. Il mio fratello minore aveva solo 5 anni, mentre per andare a scuola bisognava averne 6. Il direttore insistette: Signora, suvvia, Voi non sapete contare. Vostro figlio ha già 6 anni. Avete l’obbligo di iscriverlo a scuola! Così, con questo imbroglio a fin di bene architettato dal direttore, potemmo creare la sezione per i bambini di razza ebraica.

– Che cosa aveva di particolare questa sezione?

– Anzitutto era mista, mentre all’epoca maschi e femmine andavano in classi separate. Inoltre vi erano bambini di ogni classe, accomunando chi era in prima e chi in quinta. La nostra aula dava sulla strada: noi entravamo e uscivamo da una porta-finestra, quindi senza poter incrociare gli altri bambini che passavano dall’ingresso principale. Comunque il nostro orario era sfasato rispetto a quello degli altri, perché iniziavamo e finivamo un quarto d’ora prima. Non avevamo nessun contatto con gli altri.

Nel sabato fascista tutti gli studenti dovevano recarsi in aula magna ad assistere ai filmati di propaganda del regime e vi eravamo tenuti pure noi. Così ci mettevano nei posti in fondo, separati dagli altri studenti da due file di sedie vuote. È chiaro che tale sorpruso non si può paragonare minimamente a quanto avvenne nei campi di concentramento. Si può immaginare comunque quanto fosse doloroso l’isolamento sociale e l’essere additati, per chi aveva 7 o 8 anni. Quando eravamo nell’aula magna, infatti, gli altri bambini si giravano verso di noi e ci indacavano come fossimo appestati: Guardateli, quelli sono gli ebrei!

– Parlavate fra di voi a proposito di ciò che dovevate subire?

– Non proprio, anche perché non avevamo la possibilità di opporci in nessun modo. Ma la cosa peggiore fu che nemmeno a guerra finita la gente parlò mai dell’accaduto. Non ne parlavamo noi e non ne parlavano a scuola. Sparì la sezione speciale per i bambini ebrei e quegli eventi furono dimenticati. Fu solo nel 1983, se non ricordo male, che facendo ricerche in archivio un gruppo di maestri della scuola Vanvitelli trovò dei registri con su scritto “Sezione speciale per i bambini di razza ebraica”. Non ne avevano mai sentito parlare, così approfondirono le ricerche e ci trovarono, anche se eravamo ormai rimasti soltanto più in otto, perché uno era stato deportato ad Auschwitz e un altro era morto di malattia.

Ci invitarono a un incontro a scuola. Ci andammo a sedere nei nostri vecchi banchi e chi chiesero di raccontare cosa era accaduto dal 1938 al 1945. Ognuno disse la propria storia, ma quando venne il mio turno e mi alzai in piedi per parlare, mi apparve tutto il periodo in cui vissi isolato e mi mancò la forza per raccontarlo. Il giuramento che feci a me stesso da quel momento, e che tuttora mantengo a 92 anni, è di andare avanti fin ce la farò a raccontare ai giovani delle scuole che cosa significò per noi bambini ebrei essere isolati e maltrattati in quel modo, senza un motivo. Ancora oggi continuo a visitare le scuole che mi invitano, così come fanno i miei fratelli, quello più anziano che ha 95 anni e quello più giovane che ne ha 89.

– Nessuno fra i vostri compagni di scuola provò a rompere l’isolamento e cercare il contatto con voi?

– Nessuno. Assolutamente nessuno. Giocavo spesso a calcio per strada con un gruppo di amichetti, ma dopo l’emanazione delle leggi razziali quando mi presentai come al solito per fare la partitella, uno dei ragazzi si avvicinò e mi disse: Ha detto il mio papà che con i bambini ebrei non si deve giocare. E fu l’ultimo contatto che ebbi con gli amici che frequentavo dopo la scuola. Vissi l’infanzia praticamente da solo, eccetto i compagni della sezione degli ebrei.

– Dopo la guerra qualcuno vi chiese scusa?

– Assolutamente no. Nessuno ci chiese scusa.

– Dunque, oltre alla memoria, il grosso problema che riguarda quel periodo storico è l’indifferenza.

– L’indifferenza è qualcosa di terribile. Pensiamo a quanti professori furono cacciati dalle scuole e dalle università, e nessuno dei colleghi si ribellò, tranne qualche caso raro. Negli altri casi, invece, nella migliore delle ipotesi l’atteggiamento era quello di ignorare l’accaduto. Nella peggiore hanno approfittato dei posti che in quel modo si erano liberati e della conseguente opportunità di fare carriera. Mio suocero lavorava al Monte dei Paschi di Siena e perse il lavoro dalla sera alla mattina. Semplicemente lo convocarono e gli comunicarono che dal giorno dopo non avrebbe più lavorato lì. Il tutto fra l’indifferenza dei colleghi e dei conoscenti.

Nel complesso si trattò di un piano organico mirante all’eliminazione della “razza ebraica”. Fu un’azione svolta in modo scientifico, studiata a tavolino. In piena guerra, quando già l’esercito tedesco iniziava a subire qualche pesante sconfitta sul fronte russo, i capi del regime nazista si riunirono per stabilire la soluzione finale alla questione ebraica: viene quindi elaborato e attuato il piano per eliminare fisicamente un popolo intero. Si tratta di qualcosa di aberrante, che va fuori da qualsiasi logica.

– Quando non ci sarà più chi visse quelle tragedie, allora avremo un problema. Sentir raccontare queste esperienze da coloro che le vissero sulla propria pelle fa un altro effetto. Registrare video e scrivere articoli sarà sufficiente per trasmettere questa preziosa memoria?

– Non lo so. Temo davvero che una volta sparita la mia generazione (e ahimé non manca molto), tutto si ridurrà a una riga sui libri di scuola. La nostra storia sarà percepita dalle nuove generazione come un evento del lontano passato, allo stesso modo in cui si studiano le guerre puniche o le campagne di Napoleone.

Talvolta i nostri figli e nipoti ci accompagnano nelle scuole e un giorno, quando non ci saremo più, andranno in giro al posto nostro a raccontare. Tuttavia, riportare le tragedie accaddute al proprio nonno o al proprio padre è già un racconto di seconda mano, che fa meno effetto.

Marco Fontana
marco.fontana

Iscriviti alla newsletter di StrumentiPolitici