Quirinale, l’elezione dei quasi candidati e delle poche idee, ma confuse

Quirinale, l’elezione dei quasi candidati e delle poche idee, ma confuse

17 Gennaio 2022 0

I politici che possono contare le loro legislature sulle dita delle due mani, i commentatori che ne hanno viste tante, i costituzionalisti che dalla cristallina e forse eccessiva essenzialità della Costituzione traggono interrogativi degni dell’Oracolo di Delfi, dicono che per l’elezione del Presidente della Repubblica non si era mai verificata una situazione simile a quella di oggi. Nel corso dei decenni, come ricordano le cronache ormai passate alla Storia, si era assistito a lunghi momenti di stallo con numerose votazioni che si susseguivano senza l’atteso risultato, ma allora a determinare l’impasse erano le mille anime del partito cattolico che si contendevano lo scranno più alto della Repubblica, e le legittime aspettative dei laico-socialisti che a loro volta tentavano di far prevalere quel sano obiettivo dell’alternanza, raggiunto in un paio di occasioni. Era, insomma, la politica “pura” che si confrontava. Ora invece, a detta dei tanti autorevoli osservatori, ci si trova di fronte a una circostanza del tutto diversa e tra le più complicate: lo scontro, prima che politico, è diventato ad personam

Berlusconi è quasi candidato, con riserva; i partiti della destra gli promettono lealtà, ma tra gli avversari e i detrattori il solo suo nome suscita uno sdegno che potrebbe essere speso per cause migliori. Draghi candidato lo è e non lo è, ma se proprio c’è chi insiste, certo non rifiuterà; il fatto è che chi davvero “insiste” sembra via via venuto meno. Mattarella si è ripetutamente detto indisponibile a una rielezione, ma non si sa mai: anche nel suo caso se gli arrivasse un largo, larghissimo appello, chissà, finirebbe per accettare. Le donne vogliono una donna, ma non dicono chi. Il PD non sa chi candidare e l’impressione è che abbia “poche idee, ma confuse”; eppure c’è chi dice che i suoi maggiorenti intendono tirare il coniglio fuori dal cilindro soltanto al momento buono. I Cinquestelle sono più divisi che mai, con un presidente del partito che inanella una sconfessione dietro l’altra. Dall’estero arrivano desiderata contraddittori: c’è chi vedrebbe bene il mantenimento della situazione attuale tra Quirinale e Palazzo Chigi e chi vorrebbe il Presidente del Consiglio al Colle e un suo alter ego alla guida del governo. E su tutto incombono gli interrogativi sul dopo-Quirinale: quale governo, presieduto da chi, con quali partiti, con quali ministri, con quale programma, a un anno dalle prossime elezioni politiche. Un anno, ma non è detto, giacché il risultato del Colle potrebbe anche portare a un anticipo della consultazione elettorale. 

I punti interrogativi, insomma, certo non mancano, e quando si parla di situazione labirintica non si è lontani dalla realtà. Berlusconi sembra voglia provarci a tutti i costi, e dicono sia alla ricerca dei voti che gli mancano, una settantina per essere eletto quando dalla quarta votazione in poi gli basterà la maggioranza assoluta, la metà più uno dei 1008 parlamentari e delegati regionali elettori. Dicono i bene informati che i voti li stia cercando uno ad uno, e un paio di decine pare che li abbia già racimolati. L’ex premier, fermo restando il voto unanime degli alleati senza assenze e senza defezioni, conterebbe su qualche esponente dei Cinquestelle che nel segreto dell’urna sarebbe pronto a esprimere così il suo dissenso verso l’ondivaga linea del partito, su alcuni appartenenti al folto gruppo misto dove siedono anche parlamentari usciti dai partiti di destra, e perfino su diversi elettori del PD che per tanti motivi lo apprezzano. Dalla sua parte ha le vaste relazioni internazionali a tutto campo coltivate anche negli ultimi anni in cui è stato un po’ in ombra, a Est come ad Ovest, in Europa come in Medio Oriente, e le sue riconosciute capacità di mediazione e di mettere tutti allo stesso tavolo facendo dialogare gli avversari più irriducibili. E non ultimo il sostegno, che potrebbe anche essere scontato, ma che comunque è giunto con chiare e sentite parole dal segretario del Partito popolare europeo e dal capogruppo dello stesso partito al Parlamento di Strasburgo; una stima basata anche sulle riconosciute convinzioni di europeista dell’ex Cavaliere. A quanto pare Berlusconi ci crede, dunque, a una sua possibile elezione al Quirinale. Ma chissà quanto ne sono convinti gli alleati, al netto della professione di lealtà. Non mancherebbero infatti nella destra, e a quanto si dice perfino nel suo stesso partito e tra i suoi fidati consiglieri, coloro che ritengono questa aspirazione velleitaria. Perché c’è chi teme che in caso di fallimento del tentativo sarebbe poi difficile sostenere un altro candidato di destra, o con etichetta non definita dalla militanza in un partito o anche di una sinistra accettabile. E i partiti di destra potrebbero subire effetti negativi anche nel dopo-Quirinale, quando si dovrà parlare del governo, della sua composizione a cominciare dal premier e dal programma, della durata della legislatura, breve o fino alla scadenza naturale, e ancora degli assetti della coalizione in vista delle elezioni. E in questo quadro entra in campo la competizione tra i partiti, che da settimane non è più sottotraccia (ammesso che lo sia mai stata): la Lega che sente scivolare i propri numeri, almeno le intenzioni di voto, verso Fratelli d’Italia, che a sua volta sta capitalizzando la sua posizione di unico partito di opposizione, e in mezzo quella Forza Italia proprio del quasi-candidato Berlusconi che continua a crescere nella sua posizione di quarto partito dopo PD, FdI, Lega e Cinquestelle. Alle posizioni contrarie esterne alla candidatura e alla elezione dell’ex Presidente del Consiglio, è evidente che si aggiungono anche motivi interni alla coalizione di destra, tra perplessità e perfino qualcosa di più. 

Il PD di Letta finora si è limitato a dire chiaro e forte il suo “no” a Berlusconi. Non un nome, non un candidato è venuto fuori quantomeno ufficiosamente dai suoi vertici, come se la vicenda Quirinale con tutto quello che potrebbe venire dopo si potesse risolvere con una dura opposizione all’avversario, anzi, al nemico di sempre. Una patetica posizione di pregiudizio, più che politica. Il PD evidentemente crede di poter fare dimenticare di aver condiviso con il “nemico” i governi Monti, Letta medesimo e Renzi, e che a tutt’oggi, e forse anche domani, è a Palazzo Chigi con lui. Un alleato ieri, un nemico da abbattere oggi. È vero che le alleanze in politica non sono indissolubili e che talvolta hanno la durata di un weekend, ma cercare di attenuare le eclatanti contraddizioni, motivando le posizioni politiche, certo non guasterebbe. Chiunque tranne Berlusconi: ecco, una posizione del genere può soltanto suscitare un sentimento di compassione, di sarcastica tenerezza per un simile anatema. E accade così che il soggetto demonizzato e scomunicato finisce per generare simpatia: poi dice che uno si butta a destra, si può pensare parafrasando Totò. Tanto più che anche le ragioni di “opportunità” possono cadere miseramente: Berlusconi ha subìto una condanna molto dubbia, ha scontato la pena, anche quella di essere stato estromesso dal Parlamento – in un Paese democratico, un vero capolavoro – è stato imputato, e ancora lo è, in decine di processi e inchieste uscendone indenne (e moltiplicando le inchieste e i processi il risultato che forse si voleva raggiungere era proprio quello di convincere l’opinione pubblica dell’esistenza di qualche macchia) ed è stato ricoperto di improperi per la sua dolce vita, che può essere più che giusto non condividere; ma ha comunque creato un impero televisivo che nel bene e pure nel male ha cambiato il modo di essere e di pensare degli italiani. È un successo che pochi sono disposti a perdonargli. E a proposito… ci sarebbe pure l’eterno conflitto di interessi! Ecco, un approccio “laico” al personaggio e alle sue vicende, non viziato da ipocrisie e da fondamentalismi di varia natura e origine, potrebbe sgombrare il campo almeno dai pregiudizi. E dopo si potrà anche continuare a non volerlo considerare nemmeno come candidato, per la sua visione dello Stato, della politica, della società: ma non per colpa dei processi e delle “cene galanti”. Una parte minoritaria del PD spinge per rieleggere Mattarella, ma al di là della stima e dell’apprezzamento per il Presidente uscente, la proposta non sembra suscitare consensi, sia perché l’interessato finora è stato fermo nella sua volontà di lasciare il Colle, sia perché un altro precedente dopo Napolitano potrebbe finire per diventare una regola non scritta nella Costituzione, la quale peraltro non dice che non possa esservi una rielezione.

Analoghe, ma con variazioni che riflettono lo stato confusionale in cui si trova il partito, sono le posizioni dei Cinquestelle. Anche i seguaci di Grillo – e poi di Di Maio e poi di Conte – non hanno un candidato e a traino del PD lanciano scomuniche nei confronti di Berlusconi: candidatura irricevibile, il capo di Forza Italia non può neanche candidarsi, figuriamoci essere votato, etc. Eppure si dice che qualche sostegno per Berlusconi da parte dei Cinquestelle potrebbe trovarsi. E anche in questo caso un pezzo di partito rilancia il nome di Mattarella o quello di una donna, come se l’uno o l’altra fossero interscambiabili.

I consensi per Draghi, fino a qualche tempo fa pressoché unanimi, col passare delle settimane sono diventati prima tiepidi e poi freddi; e questo nonostante sia ancora elevato il gradimento come capo del governo che arriva dai sondaggi. Il premier sembra abbia subìto un lento logoramento che è passato attraverso la gestione dell’epidemia, l’obbligo vaccinale, la legge di bilancio (che a molti è sembrata carente), i temi dell’agenda economica che il governo dovrà affrontare con urgenza. Certo non sbaglia chi valutando gli impegni e le scadenze che stanno di fronte al Paese lo vede più adatto nel ruolo ricoperto finora che in quello di Presidente della Repubblica. Sui tanti temi svetta l’attuazione vera e propria del Piano di ripresa e resilienza, messo a punto finora quasi soltanto nelle linee generali, per rispondere alle condizioni poste dall’Europa per la concessione dei fondi previsti. Senza una guida ferma e autorevole come la sua, al netto del discusso logoramento, il Piano rischia pesanti ritardi, capaci persino di farlo arenare. E per l’Italia sarebbe una sconfitta dalle gravi e prevedibili conseguenze. Del resto, Draghi si è detto a disposizione delle Istituzioni e della Nazione, ma con quel dire e non dire, alla luce del silenzio che si è imposto e ha di fatto imposto ai giornalisti nell’ultima conferenza – che brutta cosa, quantomeno una caduta di stile che non tutti hanno evidenziato, quel rifiuto preventivo di rispondere a domande sul Quirinale – forse si riferiva a una sola Istituzione, la Presidenza della Repubblica. Ma stile e legittime ambizioni a parte, le missioni per le quali il Capo dello Stato lo ha chiamato a Palazzo Chigi non sono compiute: c’è ancora molto da fare. E dunque il suo posto è ancora a Palazzo Chigi, come dicono molti osservatori della politica, bilanciati da altri che invece lo vedrebbero meglio al Quirinale. Ma tutti sanno che dal Colle non si può dirigere il Consiglio dei Ministri e perfino i “suggerimenti” possono rimanere inascoltati. 

Poi ci sono gli altri candidati, qualcuno anche auto-candidato seppure per interposta persona. Ma ormai il loro numero sta per superare la dozzina, quindi non è il caso di soffermarsi sull’elenco. Un’abbondanza eccessiva che rappresenta un segnale dello smarrimento che vive la politica. E a tutto si aggiunge il “fattore donna”. Certo, che donna sia, purché il genere non venga scelto solo in quanto tale o poco più, e per gentile concessione degli uomini. E se il giorno dell’elezione almeno un giornale, uno solo, non facesse titoli “sulla donna” e la “prima donna”, e almeno un giornalista non dedicasse fior di colonne all’evento, ecco, quello potrebbe diventare un grande giorno, per le donne come per gli uomini.           

Nino Battaglia
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