Per un europopolarismo all’opposizione dello stato delle cose

Per un europopolarismo all’opposizione dello stato delle cose

16 Maggio 2022 0

Si è molto scritto, a volte confondendo analisi e auspici, della e sulla inarrestabile crisi del populismo. C’è del vero, certamente. Rispetto a qualche anno fa, complice la riaffermazione del valore della competenza che è un portato positivo della vicenda pandemica, le forze anti-sistema hanno visto sgonfiarsi le percentuali di consenso elettorale e ridimensionata la pervasività della loro narrazione. Tanti di questi movimenti hanno, tout court, abbandonato certe autodefinizioni e cercato, nelle più diverse modalità, di mostrarsi affidabili e governiste (per l’oggi o per il domani). 

Ringalluzziti dall’anomalia draghiana, nel nostro paese, solo una manciata di mesi fa, molti osservatori e qualche attore della politica, considerando questa crisi, si erano spinti a preconizzare una “nuova stagione per il popolarismo, in Italia come in Europa”. Un desiderata che si potrebbe volentieri sottoscrivere, ma che non sembra leggersi nelle urne (e, nemmeno, nei sondaggi). Una previsione che spesso salta la questione decisiva, cioè “che cos’è mai questo popolarismo?” o, se vogliamo, “quanto di popolare c’è ancora nei partiti che aderiscono al Ppe?”.

Il Partito Popolare Europeo governa l’Unione ma non gli europei

Partendo dai numeri, che sempre sinteticamente ci pongono di fronte alla realtà, possiamo vedere una profonda discrasia tra le istituzioni europee e i singoli paesi, rispetto al “peso” dei popolari. Il Ppe rappresenta da anni il “partito perno” dell’Unione Europea: da quasi un quarto di secolo è la prima forza politica del Parlamento continentale. Dall’inizio del 1995 detiene, con l’eccezione del quinquennio di Romano Prodi, la Presidenza della Commissione; attualmente con Ursula von der Leyen, scelta dalla convergenza anti-sovranista e posta a presidiare il vallo eretto contro i populismi. Europopolare è anche la presidente dell’Europarlamento, Roberta Metsola; eletta da una maggioranza che ha cercato un diverso coinvolgimento dei conservatori guidati da Giorgia Meloni (non del tutto più confinati nel ghetto dell’impresentabilità).

A questa forte incidenza, anche con equilibri a geometria variabile, non si accompagna un equivalente rilievo nei singoli paesi dell’Unione. 

La pesante sconfitta della Cdu post-merkelliana nelle elezioni di Germania e l’irrisorio bottino elettorale di Valérie Pécresse, candidata de Les Republicains alle recenti presidenziali francesi, hanno reso evidente il declino sulle varie basi nazionali. La crisi, però, data da tempo. In Italia la sua presenza è residuale, inferiore al 10% dei voti (sommando Forza Italia, Udc e Svp). In Spagna i risultati elettorali sono buoni, specie su base locale e anche con esperimenti di forte coalizionabilità, ma il governo è in mano ai socialisti e a Podemos. Solo nazioni minori, come Grecia e Austria, hanno un premier e un governo del Ppe. 

Aggrediti dal centro tecnocratico e surclassati dalla spinta d’alternativa delle destre nuove

Potremmo, quindi, riassumerla così: il populismo si spegne, ma il popolarismo non brilla. Il mix di resistenza non fondamentalista all’agenda della “omologazione globalista” (nuovi diritti, cancel culture, genderismo) e capacità di esprimere autentica cultura di governo, probabilmente appannatesi in originalità e conseguenzialità, ha perso dinamismo e appeal. Così portando le forze politiche nazionali che si riconoscono nel Ppe a prendere colpi tanto dal centro tecnocratico e post-valoriale quanto dalle “destre nuove nazional-conservatrici” (che spesso si pongono anche quali interpreti di un altreuropeismo). Aver esasperato l’importanza della responsabilità – conservazione dello status quo a vantaggio dei soli insider della globalizzazione – ha incubato una quota di “elettori moderatisti” privi di “issues” su biopolitica e sovranità (da un lato) e allontanato reattivamente quella porzione di potenziali supporter non adeguatamente educati alla necessaria assertività della moderazione, faccenda altra dal moderatismo. 

Come ha ben riassunto Stefano Iannacone, “i principali rappresentanti del Partito popolare europeo sono sempre più ridimensionati. In alcuni casi a rischio scomparsa dalla geografia politica nazionale e inevitabilmente europea. Il motivo? La compressione tra le spinte sovraniste e la nascita di soggetti liberaldemoratici sul modello di En Marche di Emmanuel Macron o stile Azione di Carlo Calenda” (Tag43 – 12 aprile). 

Che fare? La sfida di porsi “all’opposizione dello stato delle cose” e l’Agenda di Francesco

Tocca arrendersi al declino, quindi? A modesto parere di chi scrive no, anche se la strada da imboccare non è certo in discesa. Occorre coraggio. Il coraggio di porsi “all’opposizione dello stato delle cose”. Un rinnovato Movimento Popolare Europeo, magari davvero transnazionale, non può non guardare, nel ritessere un’originale visione personalista e solidal-sussidiaria, alle nuove prospettive di sintesi indicate dal Pontefice.  

Una prima sfida è quella di perseguire una globalizzazione come incontro delle identità e non portatrice di alcuna “colonizzazione culturale” nel segno del relativismo totalitario e dell’eliminazione dal discorso pubblico del contributo delle religioni. Contemporaneamente, nel senso e di questa vision, interpretando un europeismo che respira con i due polmoni e non dimentica che il nostro è un continente mediterraneo. Va da sé che questo comporta il superamento, rispetto al conflitto in corso tra Russia e Ucraina, considerando la “terza guerra mondiale” a pezzi che è in corso, dell’acritico appiattimento sull’occidentalismo bellicista e il mantra dell’atlantismo che criminalizza ogni euroasiastismo. 

Vincere le tentazioni tecnocratiche senza scadere in reazionari autistici discorsi complottardi o, se la prendiamo dall’altro lato, porsi responsabilmente i temi della salvaguardia dell’umano dall’assalto degli “imperi sconosciuti” e quello della sovranità come qualità della democrazia.

A quanti vogliano essere popolari per ottenere questo “salto culturale” occorre, per citare Mino Martinazzoli, mettersi all’opposizione di se stessi. Ritrovarsi e rifondarsi, in un nuovo fecondo incontro tra “cultura del governo responsabile” e “reale alternativa ai falsi miti del progresso”.

Marco Margrita
Marco Margrita

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