Maggioranza Draghi: un po’ di teatro o meglio cabaret, e niente di più

Maggioranza Draghi: un po’ di teatro o meglio cabaret, e niente di più

15 Luglio 2021 0

Semplici scossoni, leggeri tremolii, e nient’altro, hanno accompagnato la vita del governo e della maggioranza in queste ultime settimane. Magari con qualche rischio, ma niente di “serio”, ove per serietà si vuole intendere il senso letterale. Un po’ di teatro, o meglio cabaret, e niente di più. Tuoni e fulmini e subito la quiete, senza neanche un accenno di tempesta. La maggioranza larghissima che è sembrata spappolarsi da un momento all’altro, è tornata improvvisamente granitica, e il presidente Draghi può continuare a veleggiare su acque sicure. Almeno per un po’, certo in attesa di altri scossoni e tremolii sempre suscettibili di trasformarsi in rottura incontrollabile. Magari non per un preciso piano politico, ma più semplicemente per un incidente non previsto. Del resto, i Cinquestelle hanno dichiarato la pace tra Grillo e Conte dopo una guerra degli otto giorni che li ha visti a un passo dalla scissione conclamata e ufficiale, pur restando aperte le fratture che continuano a lacerare il partito; e non è detto che di pace si tratti, perché a molti appare come una tregua per evitare fin da ora il peggio che viene pronosticato per quando si andrà alle urne. Il PD di Letta continua a cercare se stesso e ancora non lo trova, abbarbicato com’è a temi privi di urgenza, con relativo scontro estenuante contro mezza maggioranza per la legge sull’omofobia, come se questo fosse il problema dei problemi che vive il Paese. La Lega di Salvini continua a giocare a tutto campo, europeista ma anche sovranista, con l’ungherese Orbán e la francese Le Pen e con Draghi, come le rinfaccia il PD, parlamentarista ma anche referendaria, conservatrice ma anche libertaria, lasciando disorientata una sinistra che certo non ha e non capisce una tale “elasticità“, chissà, forse un nuovo modo di far politica. Italia Viva di Renzi col suo 2% scarso continua ad essere punto di equilibrio per la fragile tenuta di una maggioranza dai tanti colori, che ha più cose che la dividono di quelle che la uniscono. Forza Italia si unisce al sostegno dei referendum sulla giustizia dei Radicali e della Lega, con Berlusconi che vuole realizzare, anche con tempi lunghi, il suo sogno di un partito unico della destra democratica e liberale.

È il paradosso di questa fase politica: più si litiga, più ci si divide, e più da queste scaramucce si esce determinati ad andare avanti. Qui rimarremo benissimo, scriveva Livio in latino. E per ora dunque non c’è nessuna ragione di muoversi. Del resto l’economia sembra in netta ripresa, i dati di oggi sembrano confortanti, quelli previsti a breve e anche medio termine annunciano buone cose, l’occupazione soffre ma gli esperti parlano dell’inevitabile effetto di un anno e mezzo di crisi da virus, c’è da cominciare a investire più di 200 miliardi di risorse europee, la vaccinazione di massa sembra procedere seppure tra alti e bassi secondo il calendario, il rischio di nuova diffusione dell’epidemia impensierisce molto ma per ora una situazione che precipita sembra lontana. E dunque si può benissimo restare fermi così, anche a costo di accettare quel che fino a ieri risultava inaccettabile. Tanto più che la catena di eventi politici in calendario da qui alla vigilia di primavera è così stretta da sconsigliare qualsiasi mossa che destabilizzi lo stato delle cose di oggi. E, ancora, in più è arrivata la vittoria agli Europei di calcio, e dunque, come hanno sottolineato sociologi e commentatori vari, compresi i massimi vertici delle Istituzioni, ondata di orgoglio nazionale, di ottimismo, di nuovo impegno: l’Italia è una squadra. Almeno di calcio. Fiumi di retorica, accanto ad ardite letture politiche tangenziali, hanno accompagnato il lieto evento. Ma sì, almeno per qualche giorno, “lasciateci la nostra retorica“, come urlò l’ingiustamente misconosciuto Felice Cavallotti commemorando Garibaldi, considerato da taluni storici padre del Risorgimento al pari di Mazzini e dell’eroe dei due Mondi, primo di tutti i radicali, estremista di sinistra che voleva cambiare il mondo e magari non riuscì a cambiarlo, ma come invece è successo a tanti epigoni, dal mondo medesimo non si fece cambiare. Ma sì, un po’ di retorica, quella delle eccezioni, può anche far bene. È invece quella di tutti i giorni, insieme alle menzogne e alla demagogia, che può far male perché, in genere in cattiva fede ma talvolta perfino in buona, finisce per inebetire i tanti cittadini che purtroppo non hanno gli strumenti per orientarsi.

Ecco, in questo clima estremamente contraddittorio, unita da uno stato di necessità e divisa su mille fronti, la politica sembra aver deciso come di fermarsi, di rinviare, di attutire lo scontro evitando di arrivare all’estrema conseguenza di chiamare anzitempo i cittadini alle urne, chi temendo un tracollo e chi sufficientemente certo di consolidare il vantaggio prefigurato dai sondaggi. Ed è così che i Cinquestelle hanno fatto intendere di voler chiudere lo scontro tra il fondatore Grillo e il nuovo arrivato Conte, guarda caso nel giorno e nelle ore in cui le due fazioni distribuite tra i parlamentari di Camera e Senato sarebbero potute arrivare allo scontro finale sulla riforma della Giustizia che pur tra i tanti accomodamenti al ribasso segnalati da molti esperti, il ministro Marta Cartabia e il presidente del Consiglio Draghi hanno di fatto imposto al partito dell’ex ministro Bonafede, non prima di un consulto con l’unico pentastellato in grado di dare il via libera, il garante Grillo. La prescrizione che ritorna, seppure declinata con diversi passaggi temporali che secondo le intenzioni del ministro dovrebbero renderla più remota, ma c’è già chi ha calcolato che così non sarà, poteva essere ed è ancora un macigno in grado di disintegrare la precaria unità dei pentastellati. L’abolizione della prescrizione era una bandiera, un punto irrinunciabile, eppure vi hanno rinunciato. Non è la prima volta e nemmeno l’unico tema che i Cinquestelle lasciano per strada. Si chiama compromesso. Niente di più lecito, anzi, il venire a patti cedendo qualcosa è la linfa di cui si nutre la politica. Peccato che qui siamo di fronte a un partito che aveva promesso solennemente di voler rompere con tutti gli artifici dell’esercizio della politica del passato. E sì, i Cinquestelle sono proprio cambiati e per quanto discutibili e precari lo dicono anche i sondaggi che hanno dimezzato il consenso del cosiddetto “movimento”. E ancora cambieranno. Il fondatore-garante dopo averlo ricoperto di insulti, e magari con sottostanti giudizi oggettivi, ha richiamato in servizio Conte, che intanto recitava la parte dell’offeso, mentre il gruppetto di cosiddetti “saggi” si dedicava a rivedere qualche passaggio del nuovo Statuto che Grillo aveva praticamente bruciato sulla pubblica piazza. Il fondatore voleva continuare a contare e a dire la sua sulla politica del partito, e a quanto pare ci è riuscito. E se non quella diarchia che il nuovo arrivato aveva sdegnosamente respinto, c’è chi prevede che sarà qualcosa che, ufficiosamente, le somiglierà molto. Su queste basi malferme, dunque, i pentastellati cercheranno di ritrovare una coesione ormai davvero difficile. La facciata forse li mostrerà uniti, ma le spinte contrapposte tra chi sostiene il governo Draghi senza se e senza ma, e chi preso atto per l’ennesima volta delle clamorose deviazioni dalla via che aveva portato il partito al successo in Parlamento, continueranno a manifestarsi, fino alla possibile decisione, anche se non i tempi ravvicinati, di uscire da una maggioranza che vede i Cinquestelle oggettivamente estranei. E non va dimenticato che a Conte viene attribuito un verosimile desiderio di rivincita nei confronti di Draghi che lo ha detronizzato. La situazione interna dei Cinquestelle, con i suoi possibili effetti su maggioranza e governo, dunque, rimane quella di una miscela esplosiva che può deflagrare in qualsiasi momento.

Acque piuttosto agitate anche nel PD dove, al di là di quel che si vuol fare apparire, non tutti risultano disponibili a seguire fino in fondo le guerre sante del segretario Letta contro i mulini a vento. E il caso più appariscente è lo scontro non solo con la destra della maggioranza ma anche con settori della sinistra e del suo stesso partito per la legge sull’omofobia. Un’ostinazione degna di miglior causa, quella del segretario Letta di voler imporre a metà del Paese e al suo stesso partito norme di legge che dividono nel profondo le coscienze dei singoli cittadini e dei parlamentari come poche altre nel passato anche remoto. Ed è davvero singolare e perfino inquietante che per accendere il dibattito nella politica e nella società cosiddetta civile e laica, ove per laica non è detto che debba intendersi come anticlericale, sia dovuta intervenire la Chiesa con un atto ufficiale, da Stato a Stato. In risposta i vertici delle Istituzioni si sono stracciati le vesti nel richiamare la “laicità dello Stato”. Ma, paradossalmente, è proprio l’effetto dirompente nella politica e nel dibattito nella società di quell’intervento forse a deporre per il contrario: siamo laici finché non interviene la Chiesa! E appare perfino speciosa e fuorviante quella distinzione tra cattolici contrari alla legge sull’omofobia e laici favorevoli, giacché i valori di libertà di pensiero e di altro ancora che comprime quella normativa non possono essere definiti né cattolici, né laici. E, non tanto sullo sfondo, nel PD molti si interrogano sulla percorribilità di una consolidata e definitiva alleanza, seppure suscettibile di futuri ripensamenti, con i Cinquestelle: due partiti che non hanno niente in comune se non una forzosa coabitazione di un anno e mezzo al governo, che non condividono visione della società, programmi, e tantomeno valori e radici. In tanti nel PD lo sanno, e certo non sfugge anche al segretario Letta. Ma la speranza, che oggi appare residua, e il tentativo con questa alleanza di superare la destra alle elezioni, così da conservare la guida del Paese e il potere che ne deriva, evidentemente può far dimenticare qualunque remora. E il gioco ora al PD sembra perfino più facile, dal momento che i Cinquestelle, che dicono di non essere più quelli di un tempo, hanno promesso di cambiare: moderati, ora si dicono, tralasciando che sono stati votati e siedono in Parlamento come maggior partito in quanto estremisti, un po’ di sinistra e un po’ di destra. Ma, forse per nessun partito all’interno e nei rapporti con le altre forze politiche, non è questo il momento delle decisioni e degli ultimatum: i prossimi passaggi concatenati che attendono la politica consigliano di rinviare e aspettare. 

Nino Battaglia
NinoBattaglia

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