“L’Oro della Turchia” di Giovanna Loccatelli: “A spostare i voti non è la religione ma l’economia”

“L’Oro della Turchia” di Giovanna Loccatelli: “A spostare i voti non è la religione ma l’economia”

27 Aprile 2021 0

Ankara si sta ritagliando uno spazio sempre più centrale nelle dinamiche geopolitiche del Mediterraneo. Centrale la discussa figura del presidente Recep Tayyip Erdogan che attraverso il suo nazionalismo spinto pare studiare da leader del vecchio Impero Ottamano. L’oro della Turchia, il nuovo lavoro della giornalista Giovanna Loccatelli, edito da Rosenberg & Sellier, traccia un ritratto innovativo della nuova Turchia, quella ridisegnata proprio da Erdogan. In questo interessante e fondamentale saggio in particolare viene ripercorsa la storia del business dell’edilizia che ha rivoltato profondamente la composizione sociale delle varie città e, contribuendo anche – tra molte polemiche – a costruire una nuova immagine del Paese a livello internazionale. Ne parliamo direttamente con l’autrice del libro.

Infografica – La biografia dell’intervistata Giovanna Loccatelli

Come nasce il suo innovativo lavoro ‘L’oro della Turchia’?

Nel 2014 mi sono trasferita in Turchia dall’Egitto. Era impossibile all’epoca non scorgere, in giro per la città, gru al lavoro e cantieri aperti un po’ ovunque. Una volta attraversando il Bosforo, mi accorsi che i turisti, affascinati, non guardavano più soltanto le moschee di Sultanahmet ma anche gli altissimi grattacieli, i modernissimi ponti, i futuristici complessi residenziali chiusi. La città era cambiata e stava continuando a cambiare, inesorabilmente. Dovevo scrivere qualcosa a riguardo, un articolo era troppo poco. Ho iniziato un lavoro di ricerca giornalistica sul campo e di documentazione, soprattutto in inglese e in turco. Capii velocemente che i cambiamenti visibili all’occhio erano solo la punta dell’iceberg, c’era molto altro che doveva essere portato alla luce.

 È tutto oro quello che luccica in Turchia?

Assolutamente no. La realtà non si può mai dipingere in bianco e nero. Ci sono tante, infinite, sfumature. Se da una parte, la modernizzazione del paese ha soddisfatto le esigenze di una parte della popolazione ed è servita anche come biglietto da visita per gli investitori stranieri; dall’altra, l’urbanizzazione selvaggia ha scardinato il tessuto sociale di interi quartieri. Uno stravolgimento che ha investito non solo le città ma anche i cittadini: la classe media si è allargata ed il divario tra ricchi e poveri è aumentato drammaticamente. L’oro della Turchia racconta una società, soprattutto nelle grandi città, in cui alte barriere sociali e architettoniche sono all’ordine del giorno. Oggi, complice una forte crisi economica, tutto questo ‘oro’ potrebbe smettere di luccicare.

– La rivoluzione urbana pare aver acuito le differenze sociali? C’è una strategia dietro le scelte urbanistiche avviate?

La crescita economica e la stabilità politica nei primi anni del Duemila garantirono all’Akp la possibilità di agire con molta libertà, senza dover giustificare troppo le decisioni prese. Il partito attribuiva la massima importanza alle riforme sociali ed economiche. Il settore dell’edilizia e delle costruzioni fu il mezzo che il governo utilizzò per accalappiarsi il consenso e l’egemonia e mantenerli nel tempo. Il settore dell’edilizia, in particolare, era considerato non solo il più sicuro per garantire una stabile occupazione lavorativa, ma anche quello più strategico a fini politici. Assicurava infatti un visibile sviluppo economico della città e, dunque, un biglietto da visita per potenziali investitori stranieri pronti a investire in una metropoli moderna e al passo con i tempi. Senza dubbio la ricetta vincente, in ambito nazionale, fu quella di coniugare abilmente il mondo imprenditoriale con quello islamico. Le politiche neoliberiste e capitalistiche del governo Erdoğan hanno avuto tre effetti, concatenati l’un con l’altro, oggi estremamente visibili, soprattutto a İstanbul: la segregazione sociale, la frammentazione spaziale e soprattutto l’allargamento estremo della forbice sociale.

– È Sufficiente l’iper urbanizzazione per essere uno stato moderno e competitivo o è necessario anche misurare il sistema dei diritti? 

Ovviamente non è sufficiente. Le recenti elezioni amministrative a İstanbul hanno dimostrato che, almeno nella capitale finanziaria del paese, a spostare i voti non è la religione ma l’economia; che i cittadini hanno a cuore la democrazia; che il verde è un bene prezioso che rende una città vivibile contro l’iperurbanizzazione voluta dall’Ak Parti; e che le disuguaglianze e la povertà sono un problema avvertito dai cittadini. Per la prima volta dal 2012, Erdoğan deve inventarsi una nuova narrazione politica, deve mettere in campo nuove idee se non vuole inseguire l’agenda del suo avversario, İmamoğlu. Quest’ultimo ha, oggi, il vantaggio di trovarsi in sintonia con gli stambulioti, molto più del presidente turco.

Il presidente Erdogan, con il suo nazionalismo esasperato, sta realmente studiando da Sultano per riunificare idealmente l’antico Impero Ottomano?

Una politica di stampo neo-ottomano ha iniziato a svilupparsi già negli anni Ottanta, favorita dalle scelte intraprese da Özal che per primo cercò di rilanciare le ambizioni turche attraverso una graduale riconciliazione con l’eredità imperiale. Idee riprese e sviluppate nell’ultimo decennio dall’azione politica del Primo Ministro Erdoğan e dall’allora Ministro degli Esteri, Davutoğlu, i quali hanno rilanciato nel contesto internazionale l’idea neo-ottomana della Turchia, convinti che possa far rivivere i fasti di allora, facendole riassumere il ruolo di potenza regionale e globale. Nel governo Erdoğan ci sono elementi di nazionalismo, modernità, Islam, così come modelli di stile di vita neoliberista. I turchi sono un popolo molto nazionalista, il governo ha saputo toccare i sentimenti giusti per attrarre a sé il consenso. Il concetto di nazione islamica, millet, è stato costruito attraverso due operazioni principali: la realizzazione di una civiltà neoliberale e l’islamizzazione della vita pubblica con l’intento di acutizzare la polarizzazione nel paese e sfruttare politicamente la situazione a proprio vantaggio. Dunque, economia e religione a braccetto per creare una nuova identità nazionale ed internazionale.

– Molti commentatori e analista riflettono se la Turchia possa ancora essere considerata un Paese occidentale, lei condivide questa riflessione?

I rapporti tra Ankara e i partner occidentali, almeno in questo momento, sono molto complicati. Il progetto della Turchia di diventare membro dell’Unione europea sembra ormai una chimera. Nelle più recenti conclusioni della Presidenza, la Turchia non è stata menzionata come paese in via di adesione, né si è fatto cenno alle condizioni dei diritti umani a livello domestico, e neppure al deterioramento dello Stato di diritto o alla realtà della democrazia turca. In queste circostanze, analisti ed esperti commentatori sia negli Stati Uniti che in Europa hanno più volte messo in dubbio il ruolo della Turchia all’interno della NATO e criticato Ankara per aver dimostrato un atteggiamento poco consono a quello di un alleato, accusandola di perturbare la coesione fra i membri dell’Alleanza.

– Per consolidare la propria leadership, o almeno non eroderla, non sarebbe meglio non sradicare l’identità originaria dei luoghi più cari al proprio popolo?

La rivoluzione urbana di Recep Tayyip Erdoğan rappresenta una strategia politica ben chiara tesa a sradicare l’identità originaria del luogo, controllare gli spazi di aggregazione urbana e rendere il più possibile İstanbul appetibile agli occhi degli investitori. Su questi temi, il risveglio della popolazione si ebbe tardi, con Gezi Park. Un esempio concreto di come una parte dei cittadini della metropoli sul Bosforo non diano peso all’identità originaria dei luoghi è dato proprio dalle gated communities. Le comunità residenziali chiuse hanno trovato, fin da subito, un buon riscontro nella popolazione: hanno ospitato i turchi ricchi e sono nate verso la metà degli anni Ottanta; un periodo che segna la prima ondata di spostamenti verso i sobborghi urbani in cerca di un ambiente più pulito e sano in cui vivere. Il numero dei compound si è moltiplicato alla fine degli anni Novanta come conseguenza di una forte promozione come spazi adeguati per uno stile di vita agiata. Negli anni Duemila il numero è ulteriormente aumentato e la struttura è variata, sempre più moderna e avveniristica. İstanbul è disseminata oggi da nuovi agglomerati residenziali. Basta risalire il Bosforo per scorgere, sia nella parte asiatica che in quella europea, queste isole architettoniche del benessere. All’ombra del nuovo skyline cittadino, sono progressivamente emersi nuovi spazi di povertà e ricchezza. Questo isolamento è ricercato, desiderato e decisamente apprezzato da una parte degli stambulioti. In un contesto come questo, in cui il senso di identità e appartenenza è racchiuso e legato a un luogo privo di identità, l’ordine e l’omogeneità sono i principi dominanti.

‘Beyoglu, I will survive’ puó essere considerato un manifesto di resistenza all’uomo solo al comando?

La nuova İstanbul voluta da Erdoğan, in turco yeni İstanbul, ha senz’altro molti sostenitori e altrettanti oppositori. Beyoglu I will Survive! è un progetto molto interessante che può rappresentare uno spunto di riflessione per discutere di come i cambiamenti fisici puntino anche a cancellare la storia, il passato, più in generale l’identità di un popolo. La finalità del progetto è evidenziare non solo la dinamica delle trasformazioni in atto, ma anche smascherare le politiche urbanistiche selvagge del governo e aumentare la consapevolezza e la partecipazione dei cittadini nel cambiamento dello spazio urbano. Può essere considerato certamente un manifesto di resistenza contro la mercificazione neoliberista dello spazio urbano e dell’ambiente.

– Qual è l’opera pubblica che più ha diviso l’opinione pubblica turca?

Il kanal istanbul, fortemente voluto da Recep Tayyip Erdoğan, è oggi l’opera più osteggiata dall’opposizione. È da tempo sotto i riflettori della stampa nazionale e internazionale. Sulla carta, si tratta di un canale alternativo al Bosforo che dovrebbe collegare il Mar Nero e il Mar di Marmara per un costo di 10 miliardi di dollari. Un’opera molto complessa perché riguarda più zone della città. La sua realizzazione farebbe diventare una parte di İstanbul un’isola. La lista dei dubbiosi è lunga, quasi quanto quella delle criticità. Ingegneri, ambientalisti, attivisti, alti funzionari militari in pensione, lo stesso sindaco Ekrem İmamoğlu non lo vogliono e protestano fortemente da molto tempo. La costruzione del canale e il piano urbanistico avrebbero effetti significativi su una città da 15 milioni di abitanti. Provocherebbe, leggendo le numerose critiche, un decremento notevole nell’approvvigionamento di acqua potabile e ridurrebbe al minimo l’ultima area verde di Istanbul. 

– Secondo la sua esperienza il sindaco Imamoglu si sta costruendo l’immagine di antagonista di Erdogan perché crede in quello che dice o solo per assurgere a nuovo leader?

Penso assolutamente che creda in quello che dice. Il nuovo sindaco di İstanbul Ekrem İmamoğlu difende le persone povere, promette trasporti, acqua, cibo, più giardini e parchi. Nell’agenda del primo cittadino, l’ambiente e le persone più disagiate hanno la priorità: certamente un netto cambio di rotta rispetto alle politiche neoliberiste portate avanti da Recep Tayyip Erdoğan. Ekrem İmamoğlu, paradossalmente, è oggi come era Erdoğan 25 anni fa: è diventato la nuova speranza, il paladino della giustizia, il difensore dei più poveri. La gente si è innamorata di lui. Una cosa è certa, però: i rapporti di forza sono ancora troppo sbilanciati per poter competere ad armi pari.

– Quanto influiscono i cosiddetti ‘turchi bianchi’ sulle politiche di Erdogan? E possono trovare degli alleati in altre fasce sociali della popolazione? 

Sono chiamati “bianchi” (beyaz) per la loro appartenenza a una certa classe sociale, più che politica. Finanzieri, cosmopoliti, amanti del benessere e della bella vita: così vengono riconosciuti dalla maggior parte dei cittadini. Questo termine, coniato dalla stampa locale, è utilizzato principalmente per individuare la tensione tra secolari e conservatori, soprattutto dal punto di vista socio-culturale. Mentre socialmente è facile individuarli, non è altrettanto possibile identificare tutti i turchi bianchi sotto un’unica bandiera politica. Lo stesso Erdoğan più di una volta nei suoi comizi la nomina per prenderne le distanze. Ma è proprio lui ad averla alimentata negli ultimi anni. Ed e proprio il presidente turco che continua a servirsene, quando ne ha più bisogno. La strategia politica del presidente turco si muove contemporaneamente su più binari: da una parte accentua il più possibile nei suoi comizi le differenze tra i cosiddetti turchi bianchi e il resto della popolazione. Con l’unico scopo di prendersi l’appoggio della stragrande maggioranza dei cittadini che certamente non vive all’europea, ma viceversa è conservatrice e attenta alle tradizioni. Dall’altra parte, si è accalappiato progressivamente nelle grandi città il favore di una parte dei benestanti turchi, facendo perno proprio sul settore economico, oggi la sua spina nel fianco e ostacolo maggiore al raggiungimento dei suoi obiettivi politici.

– Come riesce l’Akp ad aggirare l’amministrazione comunale e continuare nella trasformazione di Istanbul?

Rendere la terra costruibile implica varie lotte di proprietà tra gli iniziatori di un progetto (Toki, Emlak Konut e ditta appaltatrice) e gruppi di interesse locali come abitanti, proprietari, camere di urbanisti o associazioni ecologiche. Il quartiere di Maslak, a Istanbul, rappresenta un ottimo esempio di come si possono aggirare le leggi. Situato nella zona finanziaria europea, è stato al centro di una vera rivoluzione edilizia. Tra i vari progetti di trasformazione urbana che riguardano quest’area, emerge Maslak 1453. Il cui nome fa riferimento ai 1453 metri del suo viale principale. Nel 2011, il Comune di İstanbul (Mgi) ha approvato la pianificazione urbana del progetto. Per evitare che il progetto venisse bloccato a livello comunale, in particolare per ottenere i permessi di costruzione, il Mgi ha trasferito l’amministrazione dei quartieri Maslak e Ayazağa dal distretto di Şişli a Sarıyer. Questo perché fino al 2012 Sarıyer era un distretto dell’Akp mentre il sindaco di Şişli proveniva dal Chp. Insomma questo spiega bene come poter aggirare i problemi e avvalersi delle legge su misura per realizzare costruzioni che in altri contesti politici locali non potrebbero trovare spazio. È interessante, nel breve futuro, vedere come e se il nuovo sindaco dell’opposizione, Ekrem Imamoğlu si muoverà all’interno di un sistema politico-economico e di interessi modellato, nell’arco di lunghi 25 anni, da una serie di partiti con un supporto economico e imprenditoriale ben definito e strutturato. Questa è la grande sfida che non solo il nuovo sindaco di İstanbul, ma più in generale il Partito repubblicano deve affrontare, avendo dalla sua questa volta un pacchetto di voti potenzialmente più ampio e incisivo del passato.

– Quali principali punti di contatto e differenze riscontra tra Menderes ed Erdogan? 

Ci sono sia punti di contatto che evidenti differenze tra i due. Nel maggio del 1960, Menderes, allora primo ministro, fu arrestato insieme ad altri membri del suo partito, con l’imputazione di attentato alla costituzione turca. Fu imprigionato, torturato e processato sull’isoletta al largo del mar di Marmara, Yassıada. La sentenza fu di morte e fu giustiziato per impiccagione nel 1961. Erdoğan, come ha ripetuto più volte nei suoi comizi, si sente molto vicino ad Adnan Menderes, un nazionalista di centrodestra con un enorme sostegno popolare. Menderes, nonostante fosse un proprietario terriero ricco e ben istruito, arrivò al potere con i voti della base religiosa, in gran parte trascurata e più povera. In un clima di secolarismo statale quasi draconiano, spinse per la liberalizzazione delle riforme economiche e cercò di creare più spazio per le pratiche musulmane. Pur rimanendo filoccidentale, fu più attivo dei suoi predecessori nel costruire buone relazioni con gli stati musulmani ed ebbe una concezione più liberistica dei precedenti primi ministri, consentendo l’attività dell’imprenditoria privata in misura più sensibile. In generale le sue politiche economiche lo resero popolare agli occhi della parte povera della popolazione turca ma portarono anche il paese all’insolvenza a causa dell’enorme incremento delle importazioni, dei beni di lusso e della tecnologia. Fu marcatamente intollerante verso le critiche mossegli, tanto da fargli instaurare una censura sulla stampa e da fargli arrestare i giornalisti che non lo compiacevano, cercando per di più di opprimere i partiti politici d’opposizione (fra cui spiccava il Chp, Cumhuriyet Halk Partisi, Partito popolare repubblicano) e di porre sotto controllo istituzioni quali le università. Menderes divenne sempre più impopolare fra gli intellettuali, gli studenti universitari e i militari, che temevano che gli ideali di Atatürk fossero in pericolo. Ciò infine ne decretò la caduta. Recep Tayyip Erdoğan si identifica nel percorso di Menderes. Anche il leader turco sostiene ripetutamente di essere in competizione con le stesse forze che hanno portato alla morte di Adnan Menderes: le macchinazioni dell’esercito un tempo fermamente laico e gli schemi dello “stato profondo”, la nozione distintamente turca di cabalisti antidemocratici installati nella burocrazia statale.

– La matrice religiosa e il proliferare di moschee quanto ha contribuito al successo di Erdogan?

Hanno contribuito molto al successo del leader turco. Come dimostra bene la propaganda governativa di Recep Tayyip Erdoğan, uno degli strumenti più efficaci per attrarre a sé consenso è proprio la religione. In questo ambito, ad esempio, la Turchia dei record riguarda anche le moschee. Quando si parla di edifici di culto, la modernità è importante quanto la visibilità: basti pensare alla moschea Çamlıca, di recente costruzione. Con i suoi sei minareti, è la più grande di tutta la Turchia. Erdoğan, per consolidare il suo potere, utilizza le moschee come un simbolo fisico delle sue scelte politiche. La ricchezza e la modernità a cui lui tanto agogna vanno di pari passo con l’islam. «Vogliamo il benessere per la nostra gente e siamo anche e soprattutto musulmani devoti», così i suoi sostenitori esplicitano il suo pensiero politico.

Quali reazioni ha riscosso il suo lavoro ad Ankara?

Non lo so, ancora. In questo momento mi trovo in Italia. Ho vissuto in Turchia dal 2014 al 2018. Potrò rispondere meglio a questa domanda quando, spero presto, ritornerò in Turchia.

Chi dovrebbe leggere il suo saggio?

Tutte le persone che sono interessate a capire meglio la Turchia. Con questo libro, ho cercato di raccontare un paese, da una prospettiva diversa. Alla fine questo è il compito del giornalista: raccontare ciò che gli altri non raccontano.

Infografica – La scheda del Libro L’Oro della Turchia
Marco Fontana
marco.fontana

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